di Franco Pezzini

locandina_apuleio ridotta[Si propone qui un brano dai testi di L’importanza di essere Lucio. ‘L’asino d’oro’ di Apuleio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. L’antieroe Lucio, giovanotto di belle speranze ed eccessiva curiosità, si trova a Ipata, nella Tessaglia delle streghe, dove intreccia una vivace relazione sessuale con la servetta Fotide e reincontra Birrena, la brava signora che l’ha allevato. Per la traduzione utilizzo quella di Gabriella D’Anna, dell’edizione Newton Compton 1995.]

Ipata, nel medioevo chiamata Neopatria e per più di un secolo capitale di un Ducato poi caduto sotto i Turchi, è attualmente Ypati, ex-comune nella periferia della Grecia Centrale, in Ftiotide, ormai compreso (dopo l’accorpamento della riforma degli enti locali nota come piano Kallikratis) nel più grande comune di Lamia. Suggestivo che il toponimo cui si trova oggi aggregato richiami proprio l’orchessa mitica il cui nome è poi usato genericamente per le streghe. Certo l’atmosfera oggi non colpisce per atmosfera arcana: sembra un villaggio del Cuneese, casette bianche tra montagne verdiscure, il bar della piazza col pergolato, cortili… Molto diversa doveva essere in passato; anche se la città evocata da Apuleio è trasfigurata letterariamente, per cui resta difficile attribuire alle sue descrizioni un’effettiva concretezza storica.
Una sera Birrena pretende che Lucio vada a cena da lei, così il giovanotto si trova costretto a malincuore a rinunciare al solito frizzante intrattenimento con Fotide – che gli dà il permesso, avvisandolo però di non tirare troppo tardi. C’è infatti una squadraccia di figli di papà, ragazzi ricchi che a tarda ora impazzano per le vie giungendo a uccidere senza che nessuno li fermi, e uno straniero rischia anche di più. Lucio la tranquillizza, non farà tardi – in modo da poter continuare la sera con lei – e comunque girerà armato.
Da Birrena trova un party elegante, con invitati di rango: e a un certo punto la padrona di casa domanda come gli sembri Ipata, città superiore alle altre (almeno della zona) per templi, terme e costruzioni, con un vivace giro di affari e un traffico simile a quello di Roma (qui sta esagerando), ma capace di garantire anche una vita tranquilla come in campagna. Il giovanotto la asseconda, risponde che “in nessun altro luogo del mondo mi sarei sentito più libero che qui” – appunto le libertà con Fotide – ma aggiunge sornione:

Però ho un grande timore dei tenebrosi e invincibili misteri delle pratiche magiche. Infatti si dice che neppure i sepolcri dei morti possano qui stare al sicuro, e che perfino dai crematori e dai roghi funerari si cerchino residui e frammenti di cadaveri per farne incantesimi per i vivi. E che vecchie streghe incantatrici proprio nel momento in cui si appresta un funerale riescano con rapidità incredibile a prevenire l’opera dei seppellitori portando via il cadavere.

A quel punto interviene un commensale che nota come neppure i vivi siano al sicuro. E butta lì che “un tale, non so chi, […] ha subìto una simile avventura, ed è rimasto col viso sfigurato e mutilato in ogni parte”. Risata generali, tutti fissano un tipo seduto da parte, che fa per andarsene brontolando ed è fermato da Birrena: per favore, chiede, racconti anche al figlioccio la sua avventura. Telifrone – il nome significherebbe “che pensa (phronein) alle donne (thelys, femminile)”, e vedremo in che senso – borbottando contro l’insolenza di alcuni, cede però alla cortesia della padrona, e con una certa prosopopea da oratore inizia il racconto. Che, a seconda di come interpretiamo l’opera di Apuleio, rappresenta in termini generici una nuova prova della sorprendente imprevedibilità delle cose, o invece, in più stretto riferimento a un itinerarium simbolico e iniziatico, costituisce un nuovo immergersi nel sogno.
Partito da Mileto ancora ragazzo per andare ad assistere alle gare di Olimpia, Telifrone ha la cattiva idea di visitare la Tessaglia, arrivando a Larissa. È una sorta di doppio ruspante di Lucio, il bullo che lui non sa essere e a differenza di lui senza soldi: così cerca un lavoretto per sbarcare il lunario. Quando però un vecchio allampanato in piedi su un sasso dichiara di cercare chi faccia la guardia a un morto, il ragazzo divertito domanda a un passante se da quelle parti i morti scappino. Quello risponde serio che, giovane e forestiero com’è, certo non sa di trovarsi in Tessaglia, “dove le streghe hanno l’abitudine di prendere a morsi il viso dei morti, e quello che riescono a staccarne è per loro nuova materia per le pratiche magiche” – una necessità per procurarsi “materiale umano” prima dell’incinerazione. Poi, alla domanda di lui su quale sarebbe il lavoro, spiega che occorre vegliare per una notte

“[…] con gli occhi spalancati e fissi sul cadavere e non volgere mai altrove le pupille, anzi non girarle neppure, dal momento che quelle malefiche streghe vanno strisciando di nascosto dopo essersi trasformate in un qualsiasi animale, tanto da sfuggire perfino agli occhi del Sole e della Giustizia. Infatti prendono l’aspetto di uccelli e di cani e di topi, e perfino di mosche. Poi con spaventosi incantesimi immergono nel sonno le guardie. Nessuno si può immaginare i sotterfugi che quelle donne infami sanno inventarsi per le loro perversioni. E tuttavia in compenso di un lavoro così pericoloso non si riesce mai a guadagnare più di quattro o sei monete d’oro. Ah, stavo dimenticando di dire che se l’indomani il corpo del morto non viene restituito intero, si è costretti a risarcire con pezzi tagliati dal proprio viso tutto ciò che ne è stato portato via o tolto.”

Il tema della veglia funebre insidiata da streghe o altre creature sovrannaturali è estremamente arcaico e sedimenta forse timori del passato neolitico. Di una veglia funebre minacciata dalle streghe Petronio fa parlare Trimalchione durante la famosa scena del banchetto (Satyricon 63, 2-10); e sarebbe anzi intrigante cogliere traccia di un’ispirazione per Apuleio laddove l’arciricco di Petronio – un Paperon de’ Paperoni idealmente a monte anche della figura di Milone, ospite di Lucio – annuncia che lui pure narrerà una “rem horribilem”, una cosa che fa rabbrividire di stranezza, “Asinus in tegulis”. Cioè quanto farebbe un asino sul tetto: e il tema di Lucio che vorrebbe metamorfizzare in uccello per magia e finirà per sbaglio (concediamoci uno spoiler) mutato in asino sembra sintetizzare visionariamente proprio l’espressione di Trimalchione. In seguito, in un mondo ormai cristianizzato, racconti di veglie funebri a streghe vedranno la minaccia venire dal diavolo (la storia della strega di Berkeley riportata da Guglielmo di Malmesbury, Gesta regum anglorum II, 204) o da altre creature sovrannaturali (Vij di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, 1835).
Insomma, Telifrone si offre chiedendo al banditore quale sia il compenso, e quello parla di una cifra significativa, mille nummi (cioè quaranta aurei, contro i “quattro o sei” menzionati dal passante), trattandosi del figlio di uno dei cittadini più importanti. Ma che badi a quelle “malis Harpyis” e vegli con molta attenzione; al che il bulletto risponde di stare tranquo, e che davanti a lui ha un “hominem ferreum et insomnem” più attento dei mitici Linceo e Argo.
Insomma, viene condotto a una casa con la porta principale sbarrata, passano dal retro e da una porticina (la classica porta dei morti) giungono in una stanza buia innanzi alla vedova piangente – una donna molto bella e in apparenza molto addolorata che gli raccomanda attenzione. Si preoccupi solo di pagarlo, risponde il bulletto: si accordano, poi la donna lo introduce nella stanza accanto dove il cadavere è velato da un lenzuolo. Lì, davanti a sette testimoni – “boni Quirites”, li chiama, secondo l’uso latino anche se qui siamo in Grecia – provvede a far redigere l’inventario delle parti del viso (naso, occhi, orecchie, labbra, mento – sembra non interessino altre membra); poi sta per andarsene, quando Telifrone la ferma. Gli fornisca una lampada, chiede, con olio sufficiente fino al mattino; ma in più anche “acqua calda, brocche di vino, un bicchiere e un piatto pieno degli avanzi della cena”. La donna s’indigna, hanno avuto un lutto e c’è un morto in casa, da giorni non hanno “neppure il fumo” (nel senso che il focolare non veniva acceso nei giorni tra decesso e funerale), e lui pensa a trincare e strafocarsi? Comanda dunque al personale di dargli lucerna e olio, e poi di chiuderlo nella stanza col morto.
Inizia la veglia, ed ecco che il bulletto deve, secondo il nome che porta, “pensare alle donne”, le streghe: cerca di canticchiare, ma con lo scivolare delle ombre verso la notte fonda monta la paura. Ed è a quel punto che appare una donnola, si ferma e prende a guardarlo fisso con una sicurezza che lo mette a disagio… Ovviamente anche l’animale predatore che insidia i pollai rappresenta un’eventuale forma di mutazione streghesca: all’inizio dell’età moderna le donnole verranno considerate possibili spiriti famigli delle streghe dal witch-hunter general Matthew Hopkins, e ancora Anatole France in Thaïs, 1890, menzionerà la donnola come epifania del diavolo che tenta i padri nel deserto. Telifrone la scaccia, ma poi subito piomba in un sonno profondissimo; e quando viene svegliato dal chiasso dei soldati, corre preoccupato a controllare la faccia del morto.
Nel frattempo arriva anche la vedova con i testimoni, viene condotto l’esame del viso. Sospiro di sollievo: va tutto bene, la donna ordina che paghino Telifrone e spiega che a questo punto lo considerano un amico. Il giovanotto non trova di meglio che dichiararsi disponibile per ogni volta che desidererà la sua opera: una gaffe micidiale (come ad augurare tanti decessi alla casa) per cui i servi iniziando gli scongiuri gli danno una saccagnata di botte e lo buttano fuori.
Il Nostro si ritira dunque in piazza, rammaricandosi tutto rotto delle proprie parole infelici, e poco dopo arriva il corteo del funerale pubblico per l’importante defunto che proprio lui ha vegliato: ma ecco farsi avanti lo zio del morto e chiedere a gran voce l’intervento dei cittadini. Suo nipote sarebbe stato infatti ucciso col veleno dalla moglie tanto carina, intenzionata a godersi l’eredità con l’amante… Le accuse scaldano la gente, c’è chi vorrebbe bruciare o lapidare la vedova che invece giura (ovviamente) sulla falsità delle accuse; e infine lo zio propone un’indagine necromantica grazie alla presenza in città di un “propheta primarius” (cioè “profeta – nel senso di rappresentare la volontà divina – di prim’ordine”), l’egiziano Zatchlas. In precedenza nel romanzo era apparso un indovino caldeo, Diofane, ora c’è un altro straniero esotico ed esoticamente abbigliato, a continuare insomma la mappatura di un proliferare di specialisti dell’esoterico persino in questo profondo entroterra greco. Un proliferare piuttosto sospetto, e anche qui tale da porre domande.

Come si debbano interpretare la vicenda e la figura del profeta egizio Zatchlas non è affatto chiaro: lo sviluppo della storia non ci permette di stabilire infatti se si tratti di un impostore o di un vero profeta. [Nicolini: 27]

Qui non si tratta solo di trarre informazioni dalla natura, cioè da stelle, interiora o voli d’uccello: e se Lucano nella Pharsalia (VI, 507-830) aveva mostrato un morto ridestato dalla maga tessala Eritto o Eritone, ora alle donne di Tessaglia viene contrapposto un occultista maschio, proveniente dall’Egitto terra paradigmatica di sapienza esoterica e di misteri, e specificamente di conoscenze arcane sul rapporto coi morti. In un’altra opera di Apuleio, De Platone et eius dogmate (I, 3) si cita la tradizione per cui i sacerdoti egizi sarebbero capaci di resuscitare i morti; e qui Zatchlas ha fatto un patto con il vecchio “di richiamare quest’anima dall’Averno e farla entrare nel corpo anche dopo morto”. All’apparire del giovane vestito all’egiziana, lo zio del morto prende a supplicarlo (notiamo questa serie di riferimenti)

“[…] per le stelle del cielo, per gli dèi dell’inferno, per gli elementi naturali, per i silenzi notturni e per i santuari coptici e per le piene del Nilo e per i misteri di Menfi e per i sistri di Faro. Fa’ che egli possa godere di un po’ di sole, e infondi un po’ di luce nei suoi occhi chiusi in eterno. Noi non vogliamo rifiutarci di restituire alla terra quello che è suo, ma chiediamo soltanto un breve istante di vita per il conforto della vendetta”.

Poi, posta “una certa erbetta” sulla bocca e un’altra sul petto del morto, Zatchlas invoca in silenzio il sole divino verso oriente. Ed ecco “che il petto del morto si solleva gonfiandosi, la vena del polso si mette a battere, il corpo si gonfia per il respiro, il cadavere si solleva e il giovane parla”: lamentando di essere stato ricondotto “agli affanni di una vita temporanea” quando già aveva bevuto l’acqua del Lete e stava passando nelle paludi dello Stige che avrebbero segnato la cesura definitiva. Supplica dunque d’essere lasciato al suo riposo; al che Zatchlas mellifluo gli chiede di riferire in dettaglio, illuminando l’enigma della sua morte – altrimenti, minaccia, potrebbe evocare le Furie a tormentarlo anche nella presente situazione. Certo c’è differenza tra la reviviscenza sinistra posta in atto dalla strega tessala di Lucano e quella circonfusa di preghiera solare attivata dal mago egizio: eppure la soave e spietata costrizione ad opera di quest’ultimo riesce a risultare persino più equivoca. Si è osservato che l’episodio apparentemente inutile di questo santone egizio anticipa

[…] invece gli avvenimenti alla fine del romanzo, quando tutto questo mondo sotterraneo, che ora appare soltanto in questa storia oscura, inquietante e crudele, diventa per Lucio il ponte verso l’iniziazione alla religione egizia. Già ora quindi cominciano a tessersi i fili del destino. Il nome di Zatchlas è stato collegato alla parola Sôlalas che nell’antico Egitto era usata come nome oppure per esprimere il concetto “Thoth è colui che lo conosce”. Secondo altri il nome indica Saclas, un demone collegato con la “sapienza” egizia. [von Franz: 47-48]

Per chi si interroga sulle tracce isiache nel corso del romanzo ecco un elemento d’interesse: e lo stesso centone di riferimenti egizi evocato poco prima dallo zio del morto richiamerebbe, secondo un filone interpretativo, a specifici luoghi e oggetti del culto isiaco. Per contro l’ambiguità del personaggio Zatchlas potrebbe flirtare con la ciarlataneria e la costruzione d’illusioni (un ventriloquo?), non dissimilmente dal caso del collega caldeo in precedenza apparso. Del resto tutta questa storia ci viene raccontata e non vi assistiamo direttamente, per cui Apuleio ci lascia nel dubbio – e sulla questione dovremo tornare.
A quel punto comunque, con un gemito, il morto accusa la giovane moglie di averlo avvelenato liberando il letto al proprio amante; e al clamore che segue – lei che nega tutto spergiurando, i presenti divisi sull’attendibilità delle parole – aggiunge con un altro lamento “qualcosa che nessuno sa”. E indica il povero Telifrone: le streghe, non riuscendo a ingannarlo con trasformazioni “in varie forme” (in realtà conosciamo solo quella in donnola), l’hanno avvolto in una nube di sonno profondo. Poi hanno preso a chiamare il morto per nome, per attrarlo tra le loro grinfie (nel pensiero magico il nome è l’essenza della persona, e chi lo usi in modo adeguato può esercitare su questa, viva o morta che sia, un potere tremendo), così che il corpo freddo stava per obbedire. Peccato che il custode abbia lo stesso nome del defunto, Telifrone, per cui alla fine si è alzato lui che dormiva come un morto, “e camminando come un’ombra, nonostante le porte della camera fossero diligentemente chiuse, attraverso un certo foro prima ebbe il naso tagliato e poi le orecchie, sicché subì al mio posto questa mutilazione”. Le streghe poi gli sostituiscono orecchie e naso mozzati con elementi di cera: e insomma il poveretto guadagna la ricompensa non per il suo impegno professionale ma in funzione di risarcimento.

“Atterrito da queste parole comincio a tastarmi il viso. Mi tocco, prendo il naso: mi rimane in mano; tasto le orecchie: cadono. Tutti mi segnano a dito e mi beffeggiano, scoppiano le risate: io mi sento gelato di sudore freddo e me la svigno tra le gambe della gente.
In seguito, così mutilato e ridicolo, non potei più tornare a casa mia e nella mia patria, e allora con i capelli lunghi giù ai due lati della testa ho nascosto le orecchie tagliate e ho cercato di camuffare la bruttura di questo naso coprendolo con questa striscia di lino”.

Non sappiamo, perché Telifrone non lo dice, cosa accada alla vedova assassina (probabilmente linciata dalla gente) e cosa al cadavere reviviscente (probabilmente riportato al riposo eterno dal mago): con quella fuga di Telifrone il sipario cala sull’episodio come su un sogno al risveglio, e anche in seguito troveremo episodi chiusi in termini altrettanto elusivi.
Un racconto comunque grottesco, e insieme sottilmente inquietante; un racconto fantastico nel senso pieno, dove la forza affabulatoria della soluzione preternaturale è circonfusa d’uno sghembo imbarazzo. La combinazione di fiaba di streghe e finale macabro inatteso richiama la sorpresa macabra della precedente vicenda di Aristomene [un’altra storia streghesca del romanzo], cui questa narrazione ancora una volta incontrollabile offre un ideale contrappunto; anche qui trionfa una dimensione non naturalistica e fortemente onirica; anche qui la vicenda termina con una fuga precipitosa e uno sradicamento del narratore cui è inibito il ritorno – a evocare un mondo di viaggiatori ed esuli senza radici, di Ulissi straniti incapaci di riprendersi dal faccia-a-faccia col sovrannaturale. Se nel primo racconto-sogno Socrate [il protagonista dell’episodio narrato da Aristomene] tenta di sfuggire al Femminile e ne muore, nel secondo Telifrone vi si misura e resta segnato a vita: il doppio bullesco di Lucio – o la sua Ombra, nella lettura di von Franz – gli offre cioè un nuovo avvertimento sulla minaccia che lo attende ove non sia sufficientemente cauto. Ma Lucio, che a sua volta pensa solo alle donne, cioè a Fotide, non sa valorizzare il caveat.
In effetti, nel caso di Telifrone la messa in dubbio della storia non è condotta con un teatrino dialettico come nell’altro episodio (il narratore, l’incredulo e l’ascoltatore), non ve n’è più bisogno, tuttavia lo spazio per dubitare resta. E non tanto per dettagli strani ma radicati nel folklore come il misterioso foro da cui avviene la mutilazione (attraverso pertugi di vario tipo passano o operano da sempre creature sovrannaturali, come i vampiri che filtrano fuori dalle bare); o per l’irriconoscibile sostituzione in cera di parti del viso, che restano al loro posto persino con la saccagnata di botte da parte dei servi (e si staccano solo dopo il racconto del morto, che sembra “disattivare” il relativo incantesimo). Più curioso è senz’altro il fatto che il morto menzioni esplicitamente di aver “bevuto l’acqua del Lete”, quella cioè per dimenticare la vita terrena: è vero che poi sembra rivelare dettagli univoci su quanto è accaduto, ma il particolare pare inserito per rendere la testimonianza inaffidabile e insomma lascia un po’ perplessi. Del resto, mutilazioni di naso e orecchie sono state nel tempo inflitte come sanzioni per reati o colpe di vario genere: fino a che punto possiamo dunque fidarci della versione di Telifrone che ascrive quei connotati a un evento sovrannaturale? E l’ambiguità è suggellata dalle stesse risate che alla fine del racconto esplodono tra i convitati brilli, quasi a specchio di quelle echeggiate tra la folla di Larissa dopo il prodigio – tanto più che gli eventi burleschi che seguiranno al racconto getteranno a posteriori sul tutto una luce strana.
D’altra parte quella di Telifrone è definita fabula: un termine utilizzato all’inizio dell’episodio, nella richiesta rivoltagli da Birrena, e alla fine del medesimo, dalla voce narrante. Lo stesso termine, si noti, che nel solo libro primo è tornato dodici volte, oltretutto all’apertura (nel preambolo dell’opera dove si annunciava di voler raccontare “varias fabulas”) e poi alla chiusura del libro; un termine che “si impone all’attenzione del lettore e non permette di dimenticare che tra i suoi significati possono convergere quello di finzione e quello di aspetto teatrale” [Gianotti: 20]. La sensazione è insomma di spiazzamento, nel continuo gioco di sorprese/metamorfosi in cui Apuleio gode a far smarrire i suoi lettori.

 

Gianotti: Gian Franco Gianotti, Spettacoli e spettatori in Petronio e in Apuleio: spunti teatrali nella narrativa latina, Acc. Sc. Torino, Quad. 18 (2009), I Mercoledì dell’Accademia, XIV, 2009, Accademia delle Scienze, Torino 2010;

Nicolini: Lara Nicolini, Introduzione a: Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro, BUR, Milano 2005;

Von Franz: Marie-Louise von Franz, Die Erlösung des Weiblichen im Manne. Der goldene Esel von Apuleius in tiefenpsychologischer Sicht, Insel, Frankfurt 1980; L’asino d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1985.