di Gioacchino Toni

piero_manzoni_002_fiato_d_artista_1960Roberto Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società. Mursia, Milano, 2015, 384 pagine, € 22,50

De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”

Analizzando i concetti di fare e non fare, evidenziandone le molteplici sfumature che li contraddistinguono sia in senso generale, che come modalità espressive all’interno dell’ambito creativo, l’autore focalizza l’attenzione su alcune individualità che, ricorrendo a poetiche che privilegiano il non-fare arte, nel corso del Novecento, hanno mutato radicalmente il mondo dell’arte, tanto a livello di prassi operativa, quanto di definizione stessa. A lungo l’arte è sottostata all’idea che vuole l’autore come creatore dell’opera, tale meccanismo è restato indiscusso fino a quando qualcuno ha sentito l’esigenza di rifiutare la logica dell’opera come qualcosa che viene prima pensato, poi realizzato e mostrato allo spettatore.

Attorno alla metà del Novecento prende piede l’idea di fare della propria esperienza/esistenza un atto creativo: “L’opera c’è, ma non è un prodotto mentale, bensì il risultato di un’azione fisica, seppure innervata anche troppo di problematiche mentali (…) Questa idea dell’evento come fatto artistico è la principale eredità dell’Informale”. Dopo l’esaltante stagione Informale, le poetiche del gesto, una volta abbandonata l’enfasi romantica e lo sforzo fisico, sintetizzano il pensiero creativo in gesti autosignificanti incentrati sull’uso del corpo. “Prende vita una nuova concezione creativa in base alla quale si fa ciò che si è (…) il fare e l’essere tendono a coincidere (…) diminuisce l’incidenza del fare sino al grado zero dell’essere”. Ad essere rifiutato, sottolinea Pasini, è il “principio di prestazione”, il valore aggiunto della produttività.

pasini_fare_non_fare_mursia“Fare-arte nei secoli passati era per lo più attualizzare una tecnica, trasformandola in una poetica”. A partire dalla metà del Novecento, la modalità operativa tradizionale, che impone all’artista di scegliere una tecnica al fine di produrre un oggetto, salta. Nel corso del secolo scorso le cose sono cambiate a livello tale che sarebbe limitativo continuare ad insistere sulle tecniche; “il fare-arte dovrebbe essere identificato nella doppia valenza del pensare e del realizzare”. In molti casi, nell’ambito dell’arte contemporanea, il fare-arte si avvicina più al pensare che non al realizzare. Non è infrequente che l’artista assuma il ruolo di inventore e coordinatore lasciando l’operatività a maestranze che si occupano di concretizzare i suoi progetti. L’abbandono di una forma operativa codificata ha portato ad una creatività diffusa, tanto che, tra gli anni ’60 e ’70, si è diffusa l’idea della “morte dell’arte”; il passaggio dall’arte all’estetica prevede la morte della prima e la performance ha un ruolo fondamentale in tale passaggio. “L’esercizio del corpo come elemento creativo determinò la suggestione che la forma percettiva del mondo (…) subentrasse a quella tradizionalmente creativa, basata sulla separazione fra artista e spettatore. A sua volta veniva a essere superata anche quella fra opera e non-opera: non esisteva più il bello come dimensione prodotta da qualcuno, ma solo come aisthesis di qualcosa già esistente, nella vasta morfologia del mondo”. Il sistema dell’arte ha tutto l’interesse ad imporre all’arte di tradursi in un fare, dunque, la difficoltà di monetizzare la fruizione estetica del mondo ha imposto il riaffiorare dell’oggetto artistico vendibile. Non a caso gli anni ’80 si aprono con la ricomparsa dei quadri: di nuovo una merce monetizzabile. Dalla morte dell’arte degli anni ’60 e ’70 si passa al fervore pittorico degli anni ’80 caratterizzato della poetica dei ritorni, una poetica che, però, argomenta Pasini, non si accontenta di scegliere un periodo del passato per ridefinirlo in chiave contemporanea, come altre volte è avvenuto, in questo caso tutto il passato può essere “saccheggiato”. Dietro all’ubriacatura di forme e colori rivisitati, dietro a questa “apparente festa galante” non è difficile ravvisare l’angoscia del futuro: dalla “morte dell’arte” siamo passati alla “morte della storia”. Soltanto l’avvento degli anni ’90 raffredda la baldanza pittorica del decennio precedente.

Fino alle Avanguardie storiche l’arte non si è sottratta al percorso canonico: occorre prima pensare l’arte, poi realizzarla. L’arte nasce da un progetto; il modus operandi tradizionale prevede un bozzetto, uno schizzo da concretizzare nell’opera finale anche se un conto è progettare un’opera figurativa, altro un’opera non figurativa. Nel caso delle correnti astratte si è insistito nel mettere al primo posto il pensiero. Nell’action painting di Pollock il progetto è stato sostituito dal processo: le poetiche informali stabiliscono il primato del fare sul pensare. Non si tratta di “un fare senza pensare ma di un pensiero sedimentato nel gorgo buio dell’esistenza che genera fiotti di materia indistinta”: l’operatività non passa più dal pensare al fare, ma concede la massima importanza a quest’ultimo.

Nel corso della trattazione, Pasini opera alcune importanti distinzioni terminologiche che non devono essere percepite dal lettore come compiaciuti giochi di parole a cui ricorrono, con un certa frequenza, purtroppo, quanti, parlando d’arte, credono di dover adottare il “critichese” pensando sia la lingua ufficiale deputata a trattare le questioni artistiche. L’autore del saggio opera una distinzione tra “non fare arte” e “non-fare arte”: il non fare non ha riscatto mentre “il non-fare si connota come un fare al negativo, quindi comunque un fare”. Inoltre, viene evidenziata la distinzione tra “non artista” e “non-artista”: il primo è colui che non pratica arte, mentre il secondo è invece colui che la pratica da una postazione negativa. Tali distinzioni si rivelano fondamentali per comprendere gli snodi principali del testo.

Le Avanguardie storiche hanno voluto abolire il referente, mettendo in crisi la percezione dello spettatore, ed hanno inteso superare la morfologia tradizionale dell’opera. “Sottrarre il visivo significa aumentare il mentale”. Cézanne inizia a lasciare parti di tela non coperte dal colore, in tal modo intende andare oltre il referente pur senza abolirlo. L’immagine viene frammentata, le pennellate di cielo finiscono sulla terra e viceversa: “al fine di attribuire per la prima volta in modo netto e tagliente più importanza a ciò che sta dentro il quadro che non al rapporto fra interno ed esterno”. Cézanne intende abolire la prospettiva, l’immagine referenziale, distruggere la mimesi della realtà: le sua pittura “non rappresentano più la realtà visiva nelle modalità fenomeniche, assume un ruolo chiave nella svolta novecentesca antireferenziale”. In Kandinsky la pittura arriva a non dover affidarsi più al referente: è il “passaggio storico dal fenomeno al noumeno”.

DUCHAMP_aria_di_ParigiSe il fare arte rappresenta la pratica dell’arte tradizionale, il metodo del non-fare arte viene inaugurato da Duchamp, metodo che, togliendo artisticità all’opera, convoglia tutto il potere all’autore. Nel 1913 l’artista espone Ruota di bicicletta; con quel gesto l’artista cessa di essere un produttore di manufatti per divenire un utilizzatore di oggetti già disponibili. Con il ready-made l’opera non è più il risultato di un percorso creativo-operativo tradizionale ma esiste già in partenza; ciò che designa l’opera non è il risultato di una pratica ma “la scelta iniziale di una non-azione teorica”. A questo punto la domanda d’obbligo diviene: “l’arte deve essere un prodotto oppure può (deve) essere (solo) un pensiero?” Nel 1919 Duchamp, intendendo portare un dono da Parigi ad amici americani, entra in una farmacia parigina, chiede un’ampolla, la fa sigillare ottenendo così Aria di Parigi. Materialmente l’artista non ha fatto nulla, l’opera non consiste nel contenente (l’ampolla) ma nel contenuto (l’aria di Parigi). Per ottenere l’opera d’arte Duchamp ha sostituito al fare il non-fare. Così facendo l’arte si riduce ad operazione fattuale di cui l’artista è il catalizzatore di un’operazione compiuta da altri (il farmacista): l’artista realizza arte attraverso la sola mente. Il ricorso al ready-made sancisce uno spartiacque nella storia dell’arte. L’artista francese non propone una regressione dell’arte all’oggetto né intende elevare l’oggetto ad opera, il suo gesto “ha come esito il rafforzamento dell’artista, al quale viene conferito il potere creativo più alto di tutta la storia dell’arte: il suo ruolo passa da quello di realizzatore materiale di un manufatto a quello (…) di ideatore di un concetto, di cui l’opera, ossia l’oggetto scelto a incarnarla, è il puro e distaccato fenomeno”. Il ready-made, sostiene Pasini, ha finito con l’anticipare la figura dell’artista concettuale e per certi versi, ha reso indispensabile il critico d’arte come collegamento tra artista e comune fruitore, spesso incapace di recepire l’opera. Il portato rivoluzionario delle proposte di Duchamp viene ripreso negli anni ’60 e ’70.

Lo statuto dell’arte tradizionale prevede la sequenza artista-opera-pubblico, con il sabotaggio duchampiano la sequenza diventa non-artista non-opera non-pubblico. Piero Manzoni può essere considerato il degno continuatore di Duchamp ma, a differenza del francese, focalizza la creatività non tanto sulla sfera celebrale ma piuttosto su quella fisica. Corpo d’aria (1960) e Fiato d’artista (1960) di Manzoni possono essere accostate ad Aria di Parigi (1919) di Duchamp ma, se nel francese vige l’idea come forma creativa – l’esito fisico non interessa, produce un oggetto che rimarca la nozione di oggettività – nell’italiano, invece, la fisicità è fondamentale, il fiato, a differenza dell’aria parigina, non prescinde dal corpo che lo emette. Corpo d’aria ha maggiori analogie con Aria di Parigi, mentre Fiato d’artista enfatizza il feticismo fisico dell’artista. Da Fiato d’artista a Merda d’artista (1960) il passo è breve. L’idea di arte dell’italiano si lega al concetto di non-fare arte ma, rispetto a Duchamp, che tende ad azzerare il corpo, qua ha un ruolo fondamentale. La poetica manzoniana “corrisponde quindi a un’uscita dal recinto artistico, e per tale ragione si presenta come un non-fare, concettualmente legato al progetto di eversione globale del mondo produttivo tradizionale”; le piccole azioni che compie, come gonfiare un palloncino, risultano innocue rispetto alla poetica del non-fare, “tali azioni non corrispondono più alla figura dell’artista ma la rovesciano come un guanto”.

Di fronte alle proposte citate, appare evidente che il criterio interpretativo deve necessariamente adeguarsi alla logica del non-fare arte. Per affrontare opere come Fontana (1917) di Duchamp o Merda d’artista (1960) di Manzoni, che rappresentano, probabilmente, il culmine dell’eversione ideologica nell’arte contemporanea, suggerisce Pasini, dobbiamo cambiare prospettiva, “dobbiamo applicare anche a loro la legge che in altro contesto riguarda il rapporto fra analogia e anomalia”. I due “introducono l’anomalia e spostano il baricentro della ricerca creativa dall’opera all’autore: tutto quello che prima di loro è stato considerato arte, ovvero analogia, da loro in poi deve essere considerato superato (…) Entrati nel campo dell’anomalia non possiamo più applicare le regole dell’analogia: sono, semplicemente, da dismettere se si vuole capire quanto abbiamo davanti”. Le opere di Duchamp e Manzoni si distanziano dalla concezione tradizionale dell’arte come fenomeno visivo, con annesso corollario di fondo, il criterio del bello, “l’unica forma concettual-verbale che possiamo recuperare per definire tali operazioni, distinguendole dalle opere comunemente intese, in quanto l’atto è più importante del fatto, è non-fare arte”. Non-fare arte significa in realtà farla, ma di nuovo tipo. L’artista, concepito come demiurgo, attribuisce artisticità attraverso modalità non-operative. Le operazioni non-fattuali rivestono un carattere mentale e l’esito materiale ne è soltanto la fenomenizzazione necessaria affinché si possa ancora parlare di arte visiva (il pubblico deve pur poter “vedere qualcosa”).

klein_vuotoKlein, come Manzoni, concentra la sua poetica sul corpo, seppure in maniera meno ironica. L’idea è quella di sostituire la materia pittorica con quella umana, un non-fare arte che si colloca sul piano traspositivo (dal pennello al corpo, dalla tela al sudario) attraverso le Antropometrie, ovvero tracce lasciate dai corpi delle modelle sulla tela. Il quadro, qua, non è prodotto della pittura, essendo stato abolito l’intervento manuale. Il vero punto di svolta in Klein si ha con la mostra del Vuoto (1958) a Parigi ove non espone oggetti privi di artisticità, come Duchamp, ma espone il vuoto, il nulla, se non se stesso attraverso la sua presenza fisica nello spazio espositivo. “L’artista esce dalle quinte e prende la scena. L’opera è bandita. Al suo posto c’è l’autore. L’arte non consiste più in qualcosa che si può vedere e misurare (…) bensì nella sensibilità immateriale dell’artista ossia – ammesso che esista – una entità del tutto invisibile”. L’opera è l’artista. Non è l’essere a trasformarsi in fare, quanto il fare a venire sussunto nell’essere. Il fare si è tradotto nel non-fare evidenziando la dimensione immateriale dell’arte. Se in Duchamp l’idea primeggia sulla materia ed in Manzoni prevale il motto “non c’è più nulla da fare, c’è solo da essere, c’è solo da vivere”, Klein sancisce che la mera presenza dell’artista determina l’esistenza anche della sua arte, intesa come pura energia immateriale: dal fare arte siamo passati all’essere arte.

Il percorso del non-fare proposto da Pasini, termina con Gilbert&George che con il loro esporsi, fanno, davvero, il meno possibile. Si tratta infatti non di una presenza vitale ma di una semplice presenza, i due si propongono come soggetti privi di identità senza travestirsi indossando i “panni di altri” ma restando nei propri, trasformandosi in macchiette kitsch dal gusto antiquato. I due non intervengono sulla realtà, si mostrano senza fare nulla, si espongono come opera già data in sé. “Klein non-fa arte attraverso il proprio essere intrinsecamente arte, in quanto portatore di un’energia creativa di derivazione cosmica” mentre, secondo Pasini, “G&G non-fanno arte in quanto attori muti di uno spettacolo di burattini che non ha più il burattinaio: lo hanno introiettato”. G&G offrono la loro “disarmante inutilità”, mancando la vita, al suo posto abbiamo la semplice presenza. A proposito dei due inglesi, acutamente Pasini segnala che “Il problema di un’umanità inserita in meccanismi socio-lavorativi che penalizzano lo sviluppo interiore e le capacità creative, impedendone di fatto la felicità psicofisica nel nome di una sublimazione civile degli istinti libidici, appare quanto mai lontano dalle ‘sculture’ apprestate da G&G (…) che minimizzano ogni aspetto del vivente, eppure non si può fornire un’interpretazione completa della loro invenzione senza avere almeno accennato a questo importante aspetto”. Il disperato tentativo di essere visibili rivelato dalla poetica di G&G può essere colto come preconizzazione della nascente società dell’immagine.

Il saggio di Pasini termina ricordandoci che l’arte è desiderio, così come la vita stessa. “De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”. Il “non-fare arte” può, secondo l’autore, essere visto come realizzazione del sogno vero e profondo dell’essere umano: la “Libertà Totale”.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Piero Manzoni, Fiato d’artista (1960)
– Copertina: R. Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società (2015)
– Marcel Duchamp, Aria di Parigi (1919)
– Yves Klein, Il vuoto (1958)