I dannati della metropoli STAIDdi Simone Scaffidi Lallaro

Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Le Milieu, 2014, pp. 192, € 13,90

Andrea Staid ritorna con un’opera che parla di corpi in movimento. Corpi che migrano e invecchiano con un sogno nello stomaco; corpi deturpati e mutilati dal potere delle autorità costituite; corpi che partono e non sempre arrivano; corpi che resistono o muoiono. Se per Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù (Agenzia X, 2011) – lavoro cronologicamente scritto prima ma che rappresenta uno dei possibili sequel de I dannati della metropoli – il riferimento alla corporeità era in copertina, qui lo troviamo densamente distribuito nell’arco di tutto il testo. Il titolo di questa nuova pubblicazione richiama invece esplicitamente a I dannati della terra di Frantz Fanon, caposaldo della letteratura anticoloniale, e rappresenta di per sé una premessa importante alle intenzioni dell’autore.

Staid prova infatti a restituire voce ai dannati perché non solo è convinto che attraverso le loro storie si possa comprendere la complessità di un’odissea contemporanea senza eroi, ma anche perché crede fermamente che la ricerca antropologica partecipata sia la strada da condividere per sviluppare narrazioni non egemoniche. Lo esplicita bene nel primo capitolo – una vera e propria messa a nudo degli strumenti metodologici utilizzati dall’autore – che con un linguaggio semplice e diretto imprime alla narrazione uno sguardo orizzontale e dal basso.

Se Fanon indaga la violenza e ne legittima l’azione in virtù di un principio che va oltre il diritto alla ribellione, Staid scandaglia il confine tra legalità e illegalità legittimando il ricorso all’illecito da parte dei dannati sulla base di un dato tanto oggettivo quanto ignorato: se «il rischio di finire in carcere è lo stesso sia per chi decide di delinquere sia per chi invece decide di lavorare per un salario da fame, la scelta di delinquere sembra la scelta più razionale».

Fanon e Staid inseriscono dunque il ricorso alla violenza e all’illegalità in un discorso più complesso legato alla de-oggettivazione del dannato. Che non è soltanto colui che si ribella per reazione a un potere che lo opprime – sia il colonialismo, sia lo Stato nazionale attraverso i suoi apparati di controllo e repressione –, ma è soprattutto colui che agisce per affermare il proprio diritto all’esistenza e all’autodeterminazione.

Andrea Staid Agenzia XViaggio e rivolta sono ingredienti essenziali all’autodeterminazione del migrante e l’autore è bravo – nel secondo e terzo capitolo – a saggiarne gli aspetti più contraddittori e cartografarne gli spazi d’azione. Qui, come in tutto il testo, la sua voce si alterna a quella di chi quel viaggio – o quella rivolta – lo ha vissuto in prima persona, rendendo la narrazione meno asettica e più partecipata. La mappatura delle rotte migratorie e degli ostacoli sul cammino restituisce poi il senso del tempo a un viaggio che nella maggior parte dei casi – se si raggiunge la meta sperata – ha una durata di anni. E quando si arriva a destinazione, quando le gambe hanno macinato migliaia di chilometri di cammino ferrato tra legalità e illecito, le braccia cominciano incessanti a dissodare il terreno per conquistarsi uno spiraglio di libertà.

 Sono i pezzi di carta, oltre al colore della pelle e la nazionalità, a discriminare le sorti di un viaggio. Passaporti, visti e permessi di soggiorno gli strumenti di cui si servono gli Stati nazionali per decretare che esistono donne e uomini di serie A e donne e uomini di serie Z. È sufficiente  compilare i moduli per richiedere un visto per un qualsiasi paese al di fuori dell’Unione Europea per rendersi conto della classificazione delle persone in base alla nazionalità. Più sei in basso nella speciale graduatoria più fogli di carta dovrai procurarti, più soldi dovrai spendere per autenticarli, più garanzie economiche e disciplinari dovrai assicurare per farti accettare alla frontiera.

La legge vale più di migliaia di vite umane. I dannati della metropoli non pretende di illuminare la realtà, ma abitua gli occhi a scrutarne nel buio le contraddizioni più profonde.