di Sandro Moiso

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Per chi viaggia sui treni regionali delle ferrovie dello Stato è sempre più frequente sentire ripetere, dalla voce impersonale utilizzata per le comunicazioni, l’avviso che il Capotreno è a tutti gli effetti un ufficiale giudiziario nel pieno svolgimento delle sue funzioni e che qualsiasi rifiuto di declinare allo stesso le proprie generalità oppure di presentare un documento di viaggio convalidato oppure, peggio ancora, che qualsiasi forma di resistenza sarà perseguibile pecuniariamente e penalmente. Così può capitare, durante un solo viaggio tra Milano e Torino, di sentirlo ripetere anche una decina di volte.

Ora è evidente che il personale delle ferrovie si trova, talvolta, a far fronte, a bordo dei treni, a situazioni oggettivamente difficili, tali da giustificare saltuariamente la diffusione di tali avvertimenti a garanzia di chi lavoro sui convogli. Ma la ripetizione continua degli stessi e le sempre più frequenti scene di autentica repressione sui treni e nelle stazioni, combinate con gli agenti della Polfer o dei reparti anti-sommossa, ai danni soprattutto di immigrati, manifestanti e viaggiatori in difficoltà economica, non possono che far immediatamente venire in mente un paragone con l’attuale situazione italiana.

Così come suggerisce qualcosa sull’attuale clima politico italiano la recente richiesta, avanzata dalla giunta comunale di Brescia e dalla polizia locale, di giungere anche ad una condanna per reato di associazione a delinquere per alcuni giovani writers (tra i quali due sedicenni) recentemente fermati mentre decoravano treni automatici della metropolitana e pareti esterne di scuole. La parola d’ordine su scala nazionale è diventata, infatti, quella di reprimere duramente qualsiasi forma di opposizione alla politica, all’economia, alla cultura di una società che va affondando tra i debiti e i prestiti alle banche. Mentre Piazza Affari festeggia il trend positivo con una danza macabra che ricorda gli ultimi sussulti di un malato di peste.

Ricordare che nessuna opposizione potrà più essere ammessa è, per lo Stato e i suoi tutori, sempre più necessario: coi fatti e con le parole. Strumenti di mediazione non possono più essere concepiti o previsti. Se ne nega ogni forma e non sono previste possibilità in tal senso nel pareggio di bilancio oppure nella spending review. Nelle parole del premier Enrico Letta: “L’opposizione non può impedire alla maggioranza di realizzare il proprio programma“.

Dalla Val di Susa e dalla repressione con penali e pene detentive della lotta No TAV fino a Brescia e dai treni dei pendolari su, su fino ai facchini della Granarolo e ai lavoratori della logistica in lotta l’azione istituzionale deve rendere chiaro che non vi è più spazio per la dissidenza. Come nel Macbeth di Shakespeare, si governa con la paura perché si ha paura. Strumento e destino finale di ogni totalitarismo.

Così, mentre si accusa di “fascismo” qualsiasi forma di opposizione, grazie alla definitiva alleanza tra FI e PD l’ideale fascista dello stato autoritario è finalmente convolato a (in)felici nozze con il Gulag.
E, si badi bene, la colpa non è solo di Renzi. Anzi il giovane rampollo non costituisce altro che la seconda generazione di coloro che hanno dato vita a tali accordi e abitudini e ha pure un merito: con il suo segretariato più nessuno potrà dire o affermare che il PD è un partito di sinistra. Chiusa per sempre la possibilità di giustificare le sue scelte con: ”Scusate, ma stiamo lavorando per voi”. Sì, col cazzo!

Certo, da perfetto rampollo di buona famiglia il nuovo, possibile capotreno nazionale sta sgomitando per far vedere a zii, nonni e genitori quant’è bravo e, soprattutto, quanto più di loro saprà spingersi a destra, ma, in fin dei conti, ed esattamente come tutti i bravi eredi di una fortuna di famiglia, non farà altro che procedere sulla strada già tracciata dagli antenati. Che rimpiangono soltanto di non aver più la stessa età e la stessa energia del ruspante galletto fiorentino, non certo una verginità politica persa ormai da decenni.

Anzi, lo stupefacente silenzio in cui è ripiombato negli ultimi giorni il sindaco di Firenze, dopo settimane di presenza mediatica continua e disturbante, rende evidente che, tutto sommato, all’interno del PD non vi è stato nessuno scontro reale sulla dichiarata alleanza istituzionale col cavaliere nero e che la sua simulazione è soltanto servita a cercare di far digerire l’accordo agli elettori più restii. Come è stato confermato anche dalla recentissima alleanza che, a partire dall’Emilia-Romagna, vede uniti PD e FI nella loro lotta contro le battaglie dei lavoratori della logistica, degli studenti e dei centri sociali.

Così anche uno dei padri “nobili” della difesa della carta costituzionale (Stefano Rodotà) si è sbilanciato a dire che l’Italicum non va poi così male. Eggià, ci mancherebbe che dicesse qualcosa di contrario qualcuno che è stato personaggio influente del PD-PDS-PCI!! Mentre, nel frattempo, anche un moderato come Maurizio Landini rischia di pagare il fio della sua opposizione alle recenti scelte della segreteria della CGIL e l’intera FIOM rischia di essere messa in stato di accusa in caso di rifiuto degli accordi, infami, raggiunti dai vertici dei tre sindacati confederali a proposito della firma “unitaria” dei contratti che di fatto esautorano completamente i lavoratori dalla possibilità di decidere se firmare o meno un nuovo contratto.

E’ chiaro che tutta l’attenzione è ormai rivolta alla governabilità, al bipartitismo, alle soglie di rappresentanza e ai premi per i vincitori delle elezioni e tutto ciò non sta facendo altro che ripercorrere ciò che già Mussolini riuscì ad ottenere con il sistema elettorale maggioritario approvato nel lontano 1923.

Senza quel sistema, che regalava al vincitore delle elezioni il 65% dei seggi (i due terzi) del Parlamento, nemmeno col successivo e truffaldino Listone de1 1924 ( prefigurazione di ogni successivo ed attuale polo o alleanza elettorale) il futuro Duce degli Italiani sarebbe riuscito a vincere le elezioni. Né, tanto meno, a trasformare definitivamente il regime in dittatura totalitaria con l’approvazione delle leggi fascistissime tra il 1926 e il 1928.

Ma tutto questo, nell’Italia di oggi, è già avvenuto nei fatti. Governa ormai da tempo il regime o, meglio, la dittatura delle banche e del capitale finanziario. Il Parlamento, storicamente luogo di confronto e di conflitto e di mediazione, non è più altro che lo squallido teatrino in cui individui privi di senso morale e di qualsiasi reale identità politica, che non sia quella legata agli interessi propri e dei potentati economico-finanziari, approvano tutto ciò che piove dall’alto del Colle o delle banche. Scannandosi solo per la spartizione del cibo e dei posti a tavola.

Lo stesso dibattito sull’Italicum, sul Porcellum o sul Mattarellum non è altro, alla fine, che un modo per sviare l’attenzione dai reali problemi indotti dalla crisi economica e dai sempre più arruffati e infingardi sistemi proposti per fare loro fronte. Soprattutto a discapito dei lavoratori, delle loro condizioni di lavoro e dei giovani disoccupati.

D’altra parte lo spauracchio dell’ingovernabilità è stato sempre agitato da coloro che intendevano e intendono, in questo modo, concentrare in poche e ancora più ristrette mani (caso mai ce ne fosse ancora bisogno) il potere dello Stato. Non nuoce ricordare che proprio lo spettro dell’ingovernabilità permise al presidente tedesco Hindenburg di nominare cancelliere Hitler, nel 1933, dopo che questo aveva già raggiunto la maggioranza relativa (37,2%) nelle elezioni dell’anno precedente. Comunque, in quel caso, bastò sommare ai seggi del partito Nazionalsocialista quelli già conquistati dagli altri partiti conservatori per giungere ad una maggioranza parlamentare, senza nemmeno far ricorso ad un cambiamento della legge elettorale.

Certo questo non serve a mostrare un nazismo “più democratico” del fascismo nostrano o dei nostri attuali polli conservatori, ma piuttosto a mostrare come non vi sia legge elettorale o struttura parlamentare borghese che possa o voglia garantire pienamente gli interessi e i diritti della gran parte dei cittadini e, soprattutto, dei lavoratori. Se questi, naturalmente, già non lo fanno con le loro lotte e la loro autonoma organizzazione politica sui luoghi di lavoro e nelle strade.

Se qualcuno volesse ancora illudersi sulle potenzialità di un Parlamento diversamente eletto non dovrebbe far altro che ripercorrere le vicende parlamentari del Movimento 5 Stelle nel corso degli ultimi nove mesi e, in particolare, degli ultimi giorni e delle vicende legate al provvedimento di sostanziale privatizzazione della Banca d’Italia…ah, scusate, di Bankitalia. E della canea congiunta di tutte le forze parlamentari, di ogni risma e colore, che si sono scagliate nell’evidente tentativo di criminalizzare il movimento di Beppe Grillo.

Chi scrive non è mai stato tenero con i 5 Stelle e col suo leader, e continuerà a non esserlo in futuro, ma il fatto che ogni iniziativa, proposta o provvedimento suggerito da quello che alle ultime elezioni politiche è stato il partito più votato, nonostante le sue ambiguità e la scarsa trasparenza dei suoi scopi finali, sia stata di fatto cancellato, ignorato o presentato sotto una pessima luce dovrebbe far riflettere sulle possibilità di utilizzare, anche solo come cassa di risonanza (come avrebbe un tempo voluto Lenin nella sua polemica con i comunisti di sinistra europei che si dichiaravano astensionisti e anti-parlamentari), l’agone parlamentare.

Zero, niente, nulla! Al massimo ci si va per farsi denigrare… e per correre il rischio di esser messi sullo stesso piano degli “altri”. Di tutti gli altri. Cosa per cui i vecchi dinosauri del comunismo di sinistra, sempre evitarono o rifiutarono il politicantismo, cui aggiungevano “personale ed elettoralesco”. Politicantismo che non stava nelle lotte e nella loro organizzazione, ma proprio lì tra i seggi vellutati delle aule parlamentari, delle commissioni e delle sottocommissioni. Inutili mascheramenti di decisioni che devono essere prese in altro luogo.

Colle, CEI, Madame Guillotine, partiti e media hanno chiarito che il Parlamento è e deve essere soltanto un’aula bunker, come quelle in cui si sono celebrati e si celebrano a tutt’oggi i processi contro l’antagonismo sociale. Un luogo in cui l’unica parola ammessa è quella della volontà di chi già governa. Per l’opposizione rimane soltanto una gabbia insonorizzata come quella riservata all’ex-presidente egiziano Morsi, di cui, come per i grillini, si devono cogliere i comportamenti esagitati ma, appunto, non le parole.

Aule, poltrone, commissioni e sottocommissioni che hanno finito col risucchiare qualsiasi sforzo “altro” e che, anche in tempi di lotte durissime, sono sempre stati, al massimo, il palcoscenico di trattative al ribasso per gli interessi dei lavoratori, dei giovani disoccupati e dei diseredati di ogni sesso e colore.
Ciò che avviene ora, davanti agli occhi di tutti, non fa altro che confermare ciò che i fondatori del Partito Comunista d’Italia, nel 1921, videro già con grande chiarezza. La truffa e la pantomima parlamentare che non solo non porta da nessuna parte, ma che, in più, mira anche a seminare confusione e fasulle speranze nella massa degli sfruttati.

Quel partito nacque astensionista, proprio in polemica rottura con quel Partito Socialista che, pur mantenendo maggior dignità degli epigoni staliniani e togliattiani che sarebbero poi venuti, in un frangente storico drammatico come quello degli anni che accompagnarono e seguirono il primo conflitto mondiale, aveva già mostrato tutte le debolezze e le vacuità politiche che derivavano dal diffondersi della lue parlamentarista.

L’unico risultato dell’accettazione delle logiche parlamentari fu la divisione del partito, il suo indebolimento, cui contribuì anche la campagna di arresti del 1923, e l’incapacità di andare oltre il semplice ritiro sull’Aventino dei partiti sedicenti d’opposizione nei giorni del delitto Matteotti e delle spontanee mobilitazioni popolari che, in alcuni casi, ne conseguirono.
Oltre che, naturalmente, vent’anni di regime, totalitario ed anti-operaio, fascista.

Serve una lezione di storia stringata come questa? Forse, se si pensa che dal regime non se ne uscì con il voto. Questo, dal 1928 in avanti, poté manifestarsi solo attraverso la forma plebiscitaria, così come le attuali leggi elettorali attualmente prefigurano. Dividendo in due il potere soltanto per salvare la faccia di un Giano bifronte di cui, però, le due fisionomie coincidono perfettamente.

Regime che, di fatto, aveva esautorato e seppellito il vecchio sistema parlamentare liberale che, anche dopo il secondo conflitto mondiale, non sarebbe più tornato ai suoi splendori. L’illusione post- resistenziale, legata ai compromessi nel CLN, fu quella di restaurarlo con una nuova funzione di mediazione. Ma fu solo la riesumazione di una salma già piuttosto compromessa e non sarebbero bastate le belle e fatue parole sul secondo risorgimento a cambiarne segno e destino. Ciò che è morto deve rimanere sepolto e riesumarlo e farlo tornare in vita non può che produrre mostri, come la migliore fantascienza ci ha insegnato dal Frankenstein di Mary Shelley in poi.

Oggi, quando si parla di ripresa, troppo spesso opinionisti di scarso valore, imprenditori e politicanti venduti amano ricordare gli anni della ricostruzione con una sorta di nostalgia e di orgoglio. Ma quelli, per i lavoratori e le classi sociali meno abbienti, furono anni tremendi, da cui non si uscì con la mediazione parlamentare, ma soltanto con lotte durissime che, tra il 1960 e gli anni settanta, portarono alla progressiva conquista di garanzie e miglioramenti salariali per i lavoratori e i giovani. Anche allora il parlamento sarebbe stato inutile senza le lotte e, comunque, rappresentò solo e sempre un collo di bottiglia attraversò cui il PCI e la DC poterono sempre vigilare sulla conflittualità sociale.

Certo, il sistema parlamentare ideale è sicuramente quello basato su una legge elettorale proporzionale e il resto sono solo chiacchiere per coprire svolte sempre più scopertamente autoritarie. Ma domani non sarà più un parlamento liberal-democratico a poter dirimere e risolvere il futuro ed inevitabile scontro tra le classi; poiché, attualmente, questo paese è un treno in corsa verso il baratro e il suo capotreno, chiunque esso sia, dopo aver già da tempo eliminato ogni forma di democrazia, sta spingendo le macchine al massimo. .

Un Jon Voight impazzito che, come nel classico “Runaway Train”,1 preferisce schiantarsi piuttosto che cambiare marcia o prospettiva.
Occorre farlo deragliare per poter andare oltre, fuori da questo incubo, ma non lo si può fare dalla locomotiva. Occorrerà divellere i binari oppure staccare i vagoni dal locomotore in corsa, con la lotta…prima dello schianto finale.

N.B.
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  1. A trenta secondi dalla fine” di Andrej Konchalovskij, 1985