di Franco Pezzini 

220px-Chemical-wedding(Qui, qui e qui le precedenti puntate.) 

Nozze alchemiche 

La prima volta Margaret ha cercato di salvarsi da sola, e ha fallito; poi hanno provato i suoi amici “giovani” e hanno fallito pure loro: a questo punto ci si aspetta che il vecchio sapiente Porhoët scenda in campo con le armi dell’occultismo e fronteggi Haddo.

Tanto più che The Magician si rifà in modo piuttosto marcato a un testo uscito pochi anni prima, il Dracula di Bram Stoker: e forse non è un caso che nella citata introduzione al romanzo, Maugham inizi a raccontare la storia a partire da quel 1897 in cui egli supera gli esami per la professione medica, ma contemporaneamente Dracula esce in libreria. Al capolavoro di Stoker, Maugham deve moltissimo: a partire da quel tema del vampirismo che, sia pure in forma diversa, accomuna il signorotto Haddo al conte transilvano. Scopriremo anzi tra poco che Haddo mira al sangue di Margaret, inteso nel senso materiale di succo della vita: ma ad avvicinare le due opere è anche più capillarmente la dinamica tra i personaggi. C’è la giovane destinata alla morte, Margaret, come la Lucy del Dracula; c’è la sua amica-formatrice, Susie, in posizione analoga alla Mina di Stoker; c’è in entrambi i testi un fidanzato che si chiama Arthur, che però in Maugham è medico come un altro pretendente della Lucy stokeriana, il dottor Seward, e ha come lui una sorta di anziano mentore – dei cui interessi occultistici il giovane peraltro diffida. Margaret si sente divisa tra fascinazione e disgusto come in generale le vittime del vampirismo; e, come la Mina di Stoker morsa dal Conte, anche Margaret si sente infettata e sostanzialmente impura. L’iniezione di impurità reca in The Magician il frutto proibito di una vita diversa, come diversa è quella delle vittime del vampiro di Stoker: entrambe sono però nei fatti esistenze deprivate e miserabili. E ancora, in entrambe le opere troviamo una dimensione erotica compressa e torbidamente sviata in direzione del versamento di sangue: in Stoker verso una deriva orale, in Maugham nel senso di un sacrificio rituale.

Il fatto è però che qui cambiano gli equilibri: rispetto al modello angelico di Mina, Susie mantiene come detto alcune avvertibili ambiguità; mentre a fronte dell’energico Van Helsing, il timido e dubitante Porhoët appare una copia decisamente pallida e inefficace. Certo, nel corso degli incontri coi quali ora erudisce Susie sui misteri dell’esoterismo può annunciare trionfante di aver scoperto alla Bibliothèque de l’Arsenal un’opera dimenticata da cui risulta che Paracelso nutrisse gli homunculi con sangue umano – e la ragazza ha un sussulto, senza spiegargli perché. Ma Susie non riesce mai a inchiodare Porhoët su qualche affermazione convinta, qualcosa che esca dal “Chi può dirlo?”: e con un simile atteggiamento remissivo è difficile immaginare di condurre una battaglia.

Però Arthur li raggiunge, inatteso e nervosissimo, raccontando di aver incontrato Margaret: e il quadro che riporta è raggelante. Angosciato dall’irrazionale ma ossessiva convinzione che un pericolo minacci l’ex-fidanzata, Arthur ha affidato il lavoro a un collega ed è partito per lo Staffordhire dove presume che lei si trovi, nella tenuta di Haddo a Skene; e lì si ferma nel villaggio più vicino, Venning (tre miglia da Skene; nella realtà due miglia separano Boleskine dal villaggio di Foyers), dove raccoglie un po’ di voci sulla coppia. Scopre così che il signorotto locale Haddo, considerato non solo un pazzo ma anche una sorta di stregone dai minacciosi poteri, la sera fa allontanare la servitù dalla grande casa e vi resta solo con la povera moglie, dedito a strane attività nella soffitta. Viene però anche a sapere che a volte lei esce sola nel parco: così Arthur raggiunge a piedi Skene, penetra nell’area cintata e dopo aver atteso per un po’ presso una panchina di pietra che gli pare un buon posto, riesce in effetti a incontrare Margaret. Trovandola stranita e d’un pallore mortale, con uno scintillio innaturale negli occhi: gli confessa allucinazioni, lo supplica di andarsene, accenna di sapere ormai a cosa Haddo l’abbia destinata – vuole la sua vita per il grande esperimento ormai imminente, anche se si può compiere soltanto in condizioni climatiche di grande caldo, per cui lei confida di sopravvivere fino all’estate successiva. In ogni caso non può scappare, obietta all’ex-fidanzato, o tornerebbe comunque dal proprio aguzzino. Alle profferte d’amore di Arthur, la ragazza contrappone che ormai – ne è certa – quell’amore è finito con la scomparsa della Margaret di un tempo, sostituito da un mero, addolorato affetto. Lo esorta poi, quando per lei giungerà la morte, a sposare Susie che lo ama; e gli raccomanda attenzione, perché Haddo alla prima occasione tenterà di ucciderlo. Poi, terrorizzata dalla parvenza di un rumore, spinge Arthur ad andarsene.

Come la Lucy di Dracula, Margaret è ormai insomma vampirizzata e si avvia verso la morte – eppure, a ben vedere, le dinamiche di Maugham sono parecchio più ciniche. Anzitutto il lettore viene qui informato per bocca di Margaret – e poco importano le obiezioni di Arthur – che ormai quell’amore è morto, sfondato da una malattia dell’anima e dal mutare di profilo del suo oggetto. L’Arthur che vedremo combattere contro Haddo lo farà dunque per vendetta, forse anche per giustizia, ma insieme per chiudere una partita personale che affonda radici nella propria storia, e divorato da una furia rabbiosa che flirta con lo squilibrio.

D’altro canto ci attenderemmo che di fronte al penoso quadro del parco di Skene l’eroe di turno tentasse un’immediata, magari sterile ma temeraria azione contro Haddo: in fondo ha scoperto che la sera nella grande casa non restano servitori, e comunque nel bosco ha evidentemente facilità a incontrare Margaret da sola. E invece no: incassati da Porhoët la conferma della plausibilità di un sacrificio umano ma anche il suggerimento rassegnato di aspettare, Arthur inizia a sperare che quei terribili timori siano infondati. A quel punto Susie, che ha l’impressione che la vera urgenza sia di distrarre Arthur, gli propone una simpatica gita assieme di un paio di giorni a Chartres; Porhoët avalla l’idea, e anzi si prospetterà l’ipotesi di una successiva vacanza di Arthur con il vecchio medico in Bretagna… Al punto che quando Susie e Arthur tornano a Parigi da Chartres, lui ringrazia calorosamente l’amica per avergli permesso di riprendere il controllo di sé, allontanando l’idea assurda che Haddo voglia davvero far del male a Margaret e preparandosi a passare la questione agli avvocati per far dichiarare matto l’avversario. Ovvio, in un mondo reale è molto più probabile che una persona si comporti così piuttosto che organizzare una squadra di temerari che penetri nel castello, affronti il mostro, salvi la ragazza… Ma il punto non è questo: ciò che sottilmente Maugham sembra mettere in scena è un disinvolto abbandono della povera Margaret, con l’ex-fidanzato che si convince che il pericolo non ci sia, la cara amica che per primo obiettivo ha di conquistare l’uomo del proprio cuore, e lo pseudo-Van Helsing che si rassegna e vagheggia gite ai luoghi dell’infanzia. Dinamiche cinicamente realistiche, e che tuttavia non appaiono spesso evocate con tale sorniona, acida efficacia nella letteratura fantastica.

Certo, poi Arthur raggiunge gli amici colto da un ulteriore, improvviso presentimento – imbarazzante per un uomo tanto razionale – che a Margaret sia accaduto qualcosa di terribile, e li trascina entrambi in Inghilterra: dove in effetti si è verificata un’ondata insolita di caldo, a evocare sinistri echi di quanto detto da Margaret a proposito del grande esperimento di Haddo. Passando da Londra, attraverso cambi faticosi di treno, raggiungono infine il villaggio di Venning: e lì apprendono dalla proprietaria della locanda che Margaret è improvvisamente morta – di cuore, si dice – ed è già sotterrata. L’incontro di Arthur con il medico locale, risentito per i suoi dubbi sul referto di decesso naturale, non conduce ad alcun risultato; e neppure la visita a Skene, dove incontrano un Haddo ormai obeso fino alla deformità – quasi che le mostruose operazioni condotte stiano impattando sul suo corpo in forma di degenerazione cellulare – e che affetta un sincero dolore.

La possibilità che Margaret sia stata uccisa da un attacco di cuore in effetti non può escludersi: e Arthur esasperato, diviso tra una furia distruttiva verso Haddo e il tentativo di cercare la verità, matura una decisione estrema. Il clima malsano e claustrofobico di questi ultimi tre capitoli, con Susie e Porhoët di fronte a un uomo i cui punti fermi sono ormai tracollati, è reso con febbrile efficacia. Arthur si rende conto per esempio che quel ragazzino che tanti anni prima aveva visto morta in uno specchio magico la madre di Porhoët era proprio lui: anni di sforzi per credere nella ragione avevano censurato quel passato aperto al sovrannaturale. E ora proprio lui chiede all’anziano amico di porre in atto quelle cognizioni teoriche di magia che ha tanto a lungo studiato, per permettergli di parlare ancora una volta con Margaret e apprendere la verità: di evocare cioè l’ombra di Margaret come Eliphas Lévi aveva fatto con quella di Apollonio. Inorriditi, i due compagni devono alla fine accettare di aiutarlo.

Farei un torto al romanzo di Maugham se pretendessi di asciugare in un pedantesco riassunto la scena di grande impatto ch’egli offre. Mi limito a dire che i tre, digiuni come spesso previsto nei protocolli necromantici, si recano nel parco di Skene varcando ancora una volta i cancelli, a richiamare Margaret nell’ultimo luogo dove l’ex-fidanzato l’ha vista. Susie è terrorizzata, e si fa forza, sconvolta dalla vergogna, solo quando Arthur glielo ordina in nome dell’amore che lei prova per lui – perché è l’unico modo di dargli la pace. Preceduta dallo scatenarsi di un vento rabbioso, la chiamata della morta reca all’improvviso un silenzio totale: e al pianto di donna che segue, con la voce di Margaret terrorizzata e in agonia, fa riscontro per un attimo l’apparizione di lei piangente sulla panchina di pietra. Arthur ha così la certezza che i suoi peggiori sospetti sono confermati.

Dopo quella notte, i tre si fermano ancora a Venning: Arthur vaga da solo per la campagna, sconvolto e in preda al furioso tentativo di vendicarsi, e gli amici restano con lui in un clima di totale smarrimento, sotto quella cappa malsana e soffocante di caldo. È chiaro che la legge può ben poco, visto che il medico locale è chiaramente succube del demoniaco signorotto, e il timore è che Arthur commetta qualche follia. Ma una sera si scatena un temporale, la lampada si spegne all’improvviso – e a un tratto i tre hanno la sensazione che qualcun altro sia penetrato nella stanza. Arthur si scaglia contro l’intruso e Susie ha l’intuizione che si tratti di Haddo. Porhoët sembra bloccato, Arthur lotta corpo a corpo con l’ombra in cui anche lui ha riconosciuto il mago, ma tutto nel buio e in un silenzio assoluto – poi Arthur spezza un braccio all’avversario, ne afferra il collo enorme e vi affonda le dita con tutto il proprio peso… e a un tratto sa che il nemico è morto. Solo a quel punto Porhoët sembra ridestarsi, riaccendono la lampada ma a terra non c’è nessun corpo. Susie sviene.

Quando si riprende, però, Arthur chiede ancora che vadano insieme a Skene: Susie si rende conto che lui può in qualche modo rispondere al suo amore e si adegua. Benché stravolti dalla stanchezza e dall’emozione, i tre si sobbarcano dunque le miglia fino alla proprietà maledetta, ne varcano ancora i cancelli, penetrano nella casa, e scoprono fortunosamente un passaggio per la soffitta – da cui giunge uno strano suono. In un laboratorio da mad doctor, impregnato di un nauseante odore, trovano infine i frutti degli esperimenti di Haddo di creare la vita, uno più disgustoso dell’altro, fino a quello più impressionante e oscenamente umanoide che bercia all’interno di un grande recipiente. E per terra morto, con un braccio spezzato e segni di dita sul collo, giace Haddo – morto evidentemente nel duello in cui il medico ha ucciso il suo doppio astrale. Allora Arthur esorta gli amici a precederlo sulla strada e si ferma per un’ultima incombenza, raggiungendoli poco dopo. Sono ormai distanti, con Arthur addolcito che coccola Susie dopo tante emozioni, quando vedono le fiamme avvolgere la casa con tutti i suoi orrori.

Un finale – in qualche modo un lieto fine – che potremmo giudicare canonico, se non scontato: il cattivo è morto, i buoni si allontanano con tanto di storia d’amore sbocciante (tra l’altro molto più equilibrata, per comune maturità dei partner, di quella originale tra Arthur e Margaret), l’infezione morale sradicata. Sembra la fine di un film di mostri della Universal, con l’incendio in effetto matte: e del resto la versione cinematografica di Ingram, pur raffinatissima, ha una conclusione un po’ su questa linea, con Arthur e Porhoët che raggiungono il castello (in Francia, non in Scozia) dove Haddo ha portato Margaret, fanno irruzione in tempo per salvare la ragazza dal tavolo del sacrificio, e nel duello con Arthur il mago precipita in una fornace. Tutto molto suggestivo, ma nell’ambito di una storia dove bene e male sono chiaramente collocati, definiti e separati.

Al contrario nel romanzo, a ben vedere, anche la conclusione non è così ovvia. I tre episodi finali – cioè l’evocazione dell’ombra di Margaret, il duello con il corpo astrale di Haddo e gli orrori trovati a Skene – presentano infatti caratteristiche di un fantastico inteso nel senso più equivoco e spiazzante. Anzitutto, come già in fondo annunciato dal racconto sfuggente dell’evocazione dell’ombra di Apollonio compiuta da Eliphas Lévi, la chiamata di Margaret morta si consuma in una situazione di febbre emotiva: è assai difficile capire cosa avvenga a livello oggettivo, e cosa su un piano totalmente soggettivo, per quanto condiviso in termini allucinatori. La totale alienazione dei personaggi, schiacciati in una situazione claustrofobica e alla deriva di emozioni violente, provati da un lungo digiuno e dal ricorso a una pratica che sfida antichi tabu, e poi precipitati in un contesto molto impressionante anche sul piano ambientale, non rende affatto pacifica quella conoscenza delle cause della morte di Margaret che Arthur invece pretende di trarne. Il pianto del fantasma – se così si può definirlo – non costituisce insomma una prova che Margaret sia stata davvero uccisa, se non in senso del tutto opinabile e soggettivo.

Ma identica incertezza verte in fondo sulla sostanza dell’altra scena notturna dell’aggressione occulta da parte di Haddo, e che terminerebbe con la sua morte: nei fatti la descrizione può riguardare un’allucinazione condivisa da tre persone in un momento di crisi emotiva e relazioni malate. Certo, nell’ottica di una storia di magia la scena ha una sua precisa plausibilità, ma Maugham sa benissimo che questo racconto come l’altro gioca con l’incertezza – quell’imbarazzo che costituisce in fondo la natura più genuina del fantastico, aprendo a una pluralità di ipotesi alternative tra questo e altri mondi.

In apparenza gli orrori di Skane mostrano una “oggettività” ben diversa: eppure quelle scene raccapriccianti ed estreme che tanto contrastano con il resto del romanzo, circonfuse di un sapore improbabile – gli eroi stravolti che marciano per miglia nella notte, penetrano nella proprietà deserta, trovano mostruosità inimmaginabili, poi fuggono lasciando un incendio che spazza via ogni prova, e in ultimo vedono sorgere il sole – hanno quasi il sapore conciliatorio della soluzione onirica. A costruire, almeno nel sogno, un finale alternativo alla rabbiosa presa d’atto di non poter far nulla di fronte alla morte di Margaret, che seppellisce tutto nel silenzio. O addirittura a inventare per la tranquillità di tutti una ricostruzione assolutoria di una realtà ben diversa: quella forse in cui Arthur, ossessionato dai vaneggiamenti dell’ex-partner Margaret e dalla convinzione che Haddo l’abbia uccisa, ritiene di vendicarla – magari con la pistola che, scopriamo, ha comprato – e gli amici (e i lettori) lo coprono… Tanto più considerando che, a ben vedere, non emerge mai una prova oggettiva che inchiodi Haddo: di sicuro è uno spiacevole manipolatore, ma neppure i mostri del suo gabinetto – in fondo già troppo cresciuti per risalire a pochi giorni prima – dimostrano ch’egli abbia ucciso Margaret.

Certo la vicenda è tutta virata sulle tinte del controllo: quello ovviamente di Haddo su Margaret, ma già quello preesistente su Margaret di una serie di briglie sociali; e ancora il controllo che Arthur pretenderebbe sui propri abissi interiori, e quello con cui i personaggi tentano comunque di imbrigliare una realtà che sfugge, un rapporto tra la scienza e quell’alta marea dell’irrazionale montata alla fine dell’Ottocento in opposizione/ibridazione col positivismo. Ma insieme, proprio alla luce di questo finale, la vicenda di controllo potrebbe svelarsi quella di una paranoia da controllo, un delirio che da Margaret contagia Arthur facendogli uccidere un mago fanfarone, complice un rapporto mai armonizzato del medico con la propria fantasia. Ancora una volta la chiave ambigua del fantastico si dimostra una grande macchina per pensare attraverso la prova di un maestro della scrittura.

Se prima si è citato Dracula, va detto che un filo rosso che corre sottotesto per tutto The Magician fino agli orrori finali, evoca piuttosto un altro caposaldo del gotico, cioè Frankenstein con le sue fantasie genetiche. Anche se l’immagine paradigmatica di una vita creata nel segno del controllo, l’homunculus declinato da Maugham in varie orribili forme alla Giger – non è debitrice di orizzonti nuovi e futuristici della scienza, come quelli vagheggiati da Victor Frankenstein, ma di una scienza antica, l’alchimia, per di più venata di inafferrabili connotati magici. Che soprattutto in quella prima fase della carriera magica di Crowley l’alchimia gli interessi è un dato certo, e per esempio nell’agosto 1898 era stata oggetto di appassionate conversazioni in Svizzera tra lui e il chimico Julian L. Baker: non è dunque impossibile che Maugham stesso abbia potuto sentire la Bestia parlare del tema. Ma nella proprietà di Boleskine modello per Skene, Crowley pratica tutt’altro: l’aveva comprata per le sue interessanti caratteristiche strutturali nel 1899 onde celebrarvi i riti del già citato Libro di Abramelin, che però in apparenza Maugham non conosce – visto che non lo menziona tra i grimori della biblioteca di Porhoët.

Sembra d’altronde estremamente probabile che proprio dallo spunto offerto da Maugham di una generazione magica Crowley abbia deciso di scrivere il proprio romanzo Moonchild (1917, pubblicato 1929): dove però sposta il campo dall’alchimia alla magia cerimoniale in una scatenata satira dei vecchi nemici della Golden Dawn, e si ripropone come personaggio, non più vilain ma protagonista, nei panni del giovane Cyril Grey (oltre che – forse – in quelli del suo maestro, l’anziano occultista Simon Iff, già peraltro mattatore di una serie di novelle poliziesche imbevute di magia scritte dalla Bestia alla fine del 1916).

La connessione virtuale ma plausibilmente anche genetica tra The Magician e Moonchild è stata del resto valorizzata in recenti opere di genere. Si pensi al film Chemical Wedding di Julian Doyle, UK 2008 (negli USA, Crowley), basato su una sceneggiatura di Bruce Dickinson, quello del complesso heavy metal Iron Maiden: a distanza di cinquant’anni un esperimento di realtà virtuale manipolato da un seguace di Crowley fa tornare il mago (John Shrapnel) in carne e sangue di un innocuo professore massone di Cambridge, Oliver Haddo (Simon Callow, grandissimo); e il moonchild verrà annunciato dal display di un computer alla fine del film. Ma un esempio persino più pirotecnico è offerto dalla graphic novel di Alan Moore Century – che vede proprio Haddo lavorare per l’avvento di un moonchild anticristico che si rivelerà (tremate) Harry Potter. E qui è proprio il caso di fermarci.

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