di Vittorio Catani

[È in edicola Il quinto principio di Vittorio Catani (Mondadori, Urania “speciale”. Pagg. 543, € 5,50. In copertina, una immagine di Franco Brambilla di notevole impatto, qui visibile nelle dimensioni originali).
L’autore ha lavorato vari anni a questo romanzo, un’opera “corale” nella quale alle storie di protagonisti Prima di copertina piccola.JPG di maggiore evidenza si aggiungono quelle di altri personaggi secondari; alcune di queste storie si risolvono da sole, le maggiori confluiscono nel finale. Lo scenario viene a delinearsi attraverso le vicende narrate e si colloca nel 2043. Ruolo fondamentale ha una nuova tecnologia delle telecomunicazioni, la “pem” (protesi elettronica mentale) che consente una sorta di Internet psichica. La società descritta è il risultato di un post-post-capitalismo a doppio binario i cui burattinai agiscono in modo occulto, manovrando immense quantità di denaro, influenzando in modo schiacciante il mercato mondiale del lavoro e della produzione; mentre lo strapotere politico-economico passa attraverso il controllo della mente. Virus cerebrali, intere città vendute, degrado ambientale, metropoli ipogee per i meno abbienti (come Uny, Underground New York), turismo delle catastrofi, Seconda Secessione degli Usa, “democrazia estesa” (di fatto azzerata) in Italia, enormi fazendas con milioni di schiavi, sono alcuni aspetti di un mondo in cui si amplificano tendenze odierne. In tale contesto, dove i protagonisti si muovono avventurosamente, si manifestano all’improvviso eventi apocalittici che contraddicono le leggi fisiche note.

Alex Brandon Pantega ha ricordi intermittenti di una misteriosa personalità che ha teorizzato l’esistenza d’un Quarto e Quinto Principio della Termodinamica e per questo è braccato dalla polizia; un misterioso committente incarica Martin di calcolare il valore monetario del pianeta Terra; Waldemar Pozharitskij scopre il Mondo B, una “zona” impossibile ma reale in cui ci si può trasferire, vivendo in forma d’energia pura… L’alternativa, per i protagonisti, è rimanere sulla Terra e azzardare il tutto per tutto.
Riportiamo un estratto dal romanzo].

* * *

(Siamo nel 2043. Dopo varie peripezie, braccato da una polizia privata per delitti che non ha commesso, Alex Brandon Pantega viene arrestato e condotto a Città Grande, una misteriosa megalopoli-enclave blindata al resto del mondo, che sorge nel mezzo della ex Amazzonia e di cui praticamente nessuno dei Bhuman (umani di serie B, i poveri mortali) conosce l’esistenza. Città Grande è abitata da decine di milioni di persone che costituiscono la gran parte dell’élite economica mondiale. Alex, processato, viene assolto grazie a un suo stratagemma, con l’obbligo di abbandonare Città Grande nelle 24 ore. Mentre si accinge alla partenza, Alex viene fermato da Waldemar Pozharitskij, una sua vecchia conoscenza. Waldemar chiede ad Alex un particolare favore, e in cambio si offre di fargli visitare – prima che vada via per sempre – alcuni luoghi interessanti di questa megalopoli che raccoglie la créme del Potere mondiale. Waldemar conduce l’amico anche in un grande locale notturno che si distingue per una rappresentazione molto particolare. I due entrano, lo spettacolo sta per incominciare).

Quasi come se un’entità onnipotente ti avesse ascoltato, una voce amplificata tuona:
— Questi Bhuman sono venuti da soli. Di loro volontà. Tutto ciò che vedrete sarà fatto da ciascuno volontariamente e consapevolmente. — Tutto ciò che vedrete. Ma che faranno vedere, accidenti? Intanto le parole della voce incorporea sono state accompagnate da un altro tuono, quello di urla e strilli d’impazienza d’un pubblico acceso, fremente, scalpitante, quasi inferocito.
— Per chi non dovesse saperlo, signori, questi Bhuman — continua la voce — non sono una rarità. Ogni sera troverete qui, in questo eccezionale locale di Città Grande, Bhuman che di loro iniziativa giungono e vogliono eseguire la performance cui assisterete, Bhuman che supplicano perché possano essere presenti qui, offrirsi a voi… Abbiamo code, liste d’attesa per mesi, anni. Ne giungono da ogni parte del mondo, informati da una particolare rete segreta. Perché questa è una delle rarissime evenienze in cui le autorità accettano l’entrata di esterni. Eppure la richiesta del nostro pubblico è esorbitante. —
Tu pensi: accidenti che roba! Allora li guardi meglio per cercare di capire qualcosa. Sono bianchi, neri, dell’ovest, dell’est, nord, sud, zenit, nadir. Arrivano da ogni luogo possibile. Misti: uomini e donne, c’è anche una bambina, ma a ben vedere ti accorgi che un elemento in comune ce l’hanno, un dettaglio che li unifica e li appiattisce. Vestono in modo molto precario e sembrano non proprio floridi, o in carne. Lo noti meglio ora che si sono spogliati, nudi di corpo e — diresti — d’anima. Hanno facce lunghe e ostentano un sorriso che pare proprio di convenienza. E gli occhi… Quegli occhi hanno qualcosa di diverso, di intenso ma malato, penseresti. Qualcosa che ti strizza lo stomaco e non riesci a capire perché. Quegli occhi hanno un’espressione orribile!
Parte l’azione. C’è un tipo, nudo anche lui, capo rasato, muscolatura da Ercole, che distribuisce al gruppo — tu li conti, sono quattordici — strane pinze di ferro appena arroventate su un grosso e coreografico braciere. I quattordici prendono le pinze, le toccano, mettono le dita anche lì dove il ferro appare incandescente come per saggiarne l’efficienza. Sfrigolare di pelle bruciata, ma pare che nessuno d’essi reagisca. Ora capisci che davvero qualcosa non va. Ma perché non dovrebbe “andare”, poi? È uno spettacolo come gli altri, no? Magari sarà diverso, ma cielo, non esageriamo. Ragazzi, dov’è il trucco?
Allora: comincia il primo. Anzi, la prima. Porta la pinza arroventata al seno destro, che a te che stai di fronte sembra il sinistro, e stringe. Sfrigola, sfrigola, fuma. Stringe, fino a mozzare le carni e, con uno strappo violento, tira via l’intera mammella lasciando una larga lacerazione.
Fiotti di sangue fumanti. Disgustoso! La donna sembra impassibile, ma ciò è inverosimile: c’è il trucco! A meno che non sia stata imbottita di qualche droga: altro che sono qui per loro iniziativa!
Poi però… nella tua testa si fa strada un pensiero più inquietante: quella gente può essersi autonomamente, volontariamente imbottita, proprio per fare ciò che sta facendo. Un’idea atroce, che ti lascia senza forze. Intanto sta succedendo qualcosa. Noti un rumoreggiare della folla nelle prime file. Una signora si lancia, svincolandosi da altri che la trattenevano. Si fionda, va ad afferrare la mammella straziata, semiarrostita, la strappa dalle mani già tese della donna e prende a divorarla golosamente, gorgogliantemente. La donna nuda Bhuman lacerata ha ricevuto un’altra pinza infuocata e ora si sta tranciando il seno sinistro. Ma anche gli altri tredici si stanno mutilando con pinze incandescenti nel più assoluto silenzio, senza un lamento, continuando a fissare la folla con occhi privi di lacrime, occhi che sembrano non vedere, o vedere altrove.
Ora, anche se lo stomaco ti si è attorcigliato, noti bene che tutti i quattordici si sono staccati dita, mani, piedi, braccia, seni, natiche, organi sessuali, qualcuno si sta tirando fuori pezzi di interiora. La folla è impazzita, non riusciresti a tenerla più, si è catapultata come un vortice verso i quattordici e li ha assaliti. Una signora agguanta — quasi strappa dall’inguine — un pene con testicoli e tra schiocchi e risucchi quasi si soffoca per inghiottire, praticamente senza masticare. Essi, i Bhuman, donano le loro carni; la folla le divora famelica, come il cibo più prelibato. Alcuni “donatori”, già provati, sono allo stremo fisico, non reggono, crollano per terra: eppure continuano meccanicamente a estrarsi visceri residui bruciati, affumicati, carbonizzati; a tenderli con mani tremanti, a chiamare invocare supplicare ancora la gente, a offrirsi pregando, implorando di accettare il loro dono, l’offerta di se stessi. Si vedono milze, fegati grondanti, spezzoni di arterie che orinano sangue bevuto a garganella da gente stesa anch’essa sul pavimento, per trovarsi più “in diretta” con coloro che sono accasciati al suolo. Nell’aria si è dilatato un sentore acre, pesantissimo, stomachevole, vomitevole; ma gli aeratori non funzionano — spiega in tono neutro e compito la voce — perché gli odori sono parte integrante dello scenario e contribuiscono all’eccitamento dello spettabile pubblico. Al suolo ci sono laghi di sangue scivoloso, e infatti la gente scivola ma non capisce ragioni, si rialza e riscivola per lanciarsi sui resti sfatti di chi ormai non agisce più, non ha più voce per chiamare al banchetto; lo spettabile pubblico continua a strappare carni, budella, interiora o quel che resta, inghiottirle con ingordigia, stracciare cartilagini, rosicchiare e fracassare ossa e midolli. A un certo punto si odono grida disperate: qualcuno, nella foga cieca, ha preso una pinza arroventata e ha tranciato il seno d’una donna del pubblico; la malcapitata si è gettata inferocita e latrante sul suo massacratore, cerca di estrargli dalla bocca e dalla gola, con le unghie, i resti della sua preziosa mammella ultimo modello extra-erotic.
Siamo all’epilogo e ti accorgi che esso è triste, miserevole e un po’ in sordina. Quasi che tutto ciò avesse invece meritato palcoscenici più ricchi e fastosi, e un servizio più efficiente. Infatti per terra rimangono ossa, enormi chiazze nere raggrumate come in un mattatoio, mura imbrattate, pezzi sparsi di corpi di cui non si accorge più nessuno. La folla finalmente sembra placata, eppure serpeggia ancora un certo nervosismo. Della bambina nessuna traccia: non sono rimasti neanche gli ossicini, è stata la prima e la più prelibata, si è visto qualcuno che la teneva in braccio e spolpava le piccole natiche, poi qualcun altro le affondava i denti nel basso ventre. In un angolo giace solo un ciuffo di capelli che devono essere stati i suoi. Li aveva lunghi, lucenti e così neri. Sono ancora bellissimi, qualcuno cerca di ingoiarne un ciuffetto. È durato poco lo spettacolo, tutto sommato. Sulle vesti estremamente ricche, elaborate, ornate di ori e costellate di diamanti d’alta caratura, di zaffiri e rubini, artistiche spille, si stampano le stimmate indelebili della gozzoviglia. Vestimenti già splendidi e costosissimi ora logori, luridi, strappati, o che sono serviti a raccogliere rimasticature di carni e organi. I proprietari se li sfilano, si spogliano completamente, un inceneritore in un angolo accoglie e ingurgita a sua volta valori globali che fino a poco fa ammontavano a milioni o miliardi di Free$, ora sono spazzatura. Restano i corpi nudi dei banchettanti, brutale contraltare dei quattordici: carni rigonfie e deformate dal pasto smodato. Pance mostruosamente prominenti, stomaci come otri, pelli tese che si smagliano fin quasi a strapparsi, ma anche cosce rugose, natiche flosce, seni cadenti. E c’è poi l’incrociarsi di rutti, peti, gorgoglii, borborigmi. Qualcuno vomita senza sapersi contenere, e c’è chi guarda quel vomito sul pavimento con occhi di desiderio sfrenato ma non sa decidersi; gente corre nei bagni; altri in un ripensamento raccolgono da terra dita o mani dimenticate o già rosicchiate e infilano tutto in fagotti di stoffa insozzata e insanguinata; una ragazza nuda lecca il pavimento come un’indemoniata: lo ripulisce del sangue residuo. In un angolo, un uomo anziano è già alla digestione e se ne sta tranquillamente accoccolato a defecare per terra con espressione estatica.
E tu, Alex?, insiste Waldemar. Eh, Waldemar sapeva già, più o meno ha sopportato con una certa nonchalance, insomma con l’aria vissuta di chi sa bene come va il mondo. Tu, Alex, sei più in subbuglio. Per tua fortuna eri già sufficientemente sbronzo e, pensi, certamente sarà tutto un orribile sogno. Gli chiedi perché lo fanno. E Waldemar te lo spiega, sibillino. In questa società che cerca solo il piacere, dice, lo spettacolo del dolore finisce per avere un effetto liberatorio. Dice: per coloro che si offrono, a volte il dolore, il morire, è il solo modo di affermare la propria esistenza.