di Carlo Loiodice

Primarie.jpgQualcuno, seduto magari in ultima fila, prima o poi si alzerà e lo griderà… Vorrei farlo io, ma non so se ne ho la forza o l’efficacia. Ricordate Fantozzi? “Per me La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!” Oppure Nanni Moretti in Io sono un autarchico: “Il dibattito no!…”
Sono paletti nella storia della nostra cultura. Segnano il crollo di due prassi che, in origine motivate ed efficaci nella loro fase aurea, si andavano trasformando in formule stanche e stancanti nella loro insopportabile ritualità. Eisenstein merita il posto che occupa nella storia del cinema, ma proprio in quanto parla di rivoluzione non può diventare un obbligo fisso il suo inserimento in qualunque rassegna organizzata da un circolo o un’istituzione di sinistra. La corazzata Potemkin, comunque lo si voglia giudicare dal punto di vista critico, non è una “cagata”

Ma proprio per evitare che lo diventasse in concreto, era necessario un atto di rottura che lo riportasse nelle cineteche da quella sorta di altari dinanzi ai quali officianti rossi celebravano il ricordo della rivoluzione come i sacerdoti cristiani celebrano il ricordo dell’ultima cena.
Rituale era diventato anche il “dibattito” che accompagnava la proiezione di film “impegnati” nei famosi cineforum degli anni ’60 e ’70. E in effetti non c’è nulla di male se, visto un film, si resta un po’ lì a parlarne. Ma quando chi va via viene guardato male perché considerato qualunquista, borghese o peggio, siamo al corto circuito. E allora: “Il dibattito no!”
Da quanti anni non rivediamo La corazzata Potemkin? E da quanti non assistiamo più a un dibattito, fosse anche alla fine di un film di Manuel de Oliveira?
È perché Villaggio e Moretti all’epoca fecero centro. E questa è la premessa. Ma oggi che cosa andrebbe gridato alto e forte da una sedia delle ultime file? Non parlo di cinema ma di politica. La cosa che mi fa rabbia è sentir parlare ad ogni piè sospinto di elezioni primarie.
Le inventarono negli Stati Uniti d’America all’iniizio del XX secolo e lì le fanno ancora. Cosa sono?
James Bryce (1888 e 1921) e Moisei Ostrogorski (1903) descrissero lo stato dell’arte dei sistemi elettorali che potevano osservare in diretta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Non esistevano partiti nella forma che noi europei conosciamo dal secondo dopoguerra ad oggi. Esistevano partiti fondati su ristrette cerchie al cui interno venivano scelti i candidati sottoposti poi all’elettorato. Improba appariva la fatica per qualunque outsider che volesse candidarsi al di fuori delle oligarchie consolidate.
Ed ecco l’idea. Perché non scegliere “democraticamente” i candidati? Non dobbiamo neanche immaginare che la proposta abbia riscosso unanime plauso. Gli oligarchi delle “cerchie” o “cricche” non erano poi tanto d’accordo. E quando non riuscirono a bloccare la cosa, fecero di necessità virtù.
Né dobbiamo pensare che il favore nei confronti della democrazia interna ai partiti crescesse man mano che da destra ci si spostava a sinistra.
Studiando le tendenze oligarchiche nei partiti operai e socialisti europei, Robert Michels (1911) giunge alle medesime conclusioni. In contrasto con gli ideali democratici, sbandierati non solo sul fronte esterno della lotta per la democratizzazione dello stato, ma anche su quello interno dell’organizzazione del partito, i gruppi dirigenti si rinnovano per cooptazione: «La presentazione dei candidati del partito alle elezioni del parlamento dipende quasi sempre da un piccolo gruppo di dirigenti superiori e inferiori locali, che suggeriscono alla massa del partito i candidati loro graditi». (Cfr. Piero Meaglia, Il potere dell’elettore. Elezioni e diseguaglianza politica nel governo democratico, Città Aperta Edizioni, 2006).
Con un po’ di malinconia per la validità di quest’analisi per l’intera storia dei partiti operai e socialisti fino ai nostri giorni, torniamo ai primi del XX secolo, quando negli USA si cominciano a tenere elezioni primarie. Sono gli stessi Bryce e Ostrogorski a vederne i limiti. Dinanzi all’innegabile diritto dell’elettore di scegliere i propri candidati, visto che ha la possibilità di scegliere i governanti, le oligarchie anticipano di un passo l’azione di cooptazione che in precedenza compivano prima delle elezioni politiche e amministrative. Il diritto di partecipare alle elezioni primarie è dunque garantito formalmente, ma inibito dai blocchi di potere e ostacolato dall’aumento dei costi, visto che per vincere le primarie bisogna partecipare a vere e proprie campagne elettorali, che necessitano di risorse economiche non indifferenti.
Karl Loewenstein (1973) si chiede se in America le elezioni primarie siano veramente riuscite a democratizzare la formazione delle candidature e a porre fine alla «cooptazione» esercitata dalle oligarchie partitiche. La risposta è sostanzialmente negativa. Le oligarchie di partito hanno conservato il monopolio delle nomine adattandosi abilmente alle nuove procedure: «La selezione da parte dei partiti si è spostata dalle primarie a una sorta di preprimarie. Prima che le proposte di nomina vengano presentate i capi-partito si accordano su chi
debba presentarsi alle primarie». (Cfr. Meaglia, cit.).
Strano a dirsi, non solo il modello elettorale statunitense non ha avuto diffusione in Europa; ma anche quando gli americani assunsero il ruolo di autorevoli suggeritori nella ricostruzione della democrazia in Europa, a ovest dopo il ’45 come a est dopo l’89, si mostrarono inclini a favorire sistemi proporzionali piuttosto che maggioritari, a turno unico piuttosto che a doppio turno.
Siccome non sto facendo, né sarei in grado di fare una trattazione organica dei sistemi elettorali in generale, rinuncerò a indagare ed esporre le ragioni per cui nei due stati sconfitti, Germania e Italia, i sistemi adottati, proporzionali nella forma, differirono nella sostanza, consentendo in Germania ciò che in Italia fu reso impossibile: l’affermazione di un sistema bipolare in cui l’elettore poteva esprimere un’indicazione fattiva per la designazione del primo ministro. Sta di fatto che, con due sentenze del 1953 e del 1956, la Corte costituzionale della Repubblica Federale Tedesca mise fuorilegge rispettivamente il partito nazista e quello comunista, riducendo all’interno dell’ordine internazionale vigente la competizione tra forze politiche che ne accettavano le regole scritte dalle potenze vincitrici. Per contro in Italia, non solo restava piuttosto vivace un’opposizione di destra che, pur avendo mutato nomi e stemmi, non rinnegava affatto il passato fascista; ma il Partito Comunista era stato forza determinante prima nella resistenza e poi nella scrittura della Costituzione. Non lo si poteva mettere facilmente fuorilegge: lo si poteva depotenziare istituendo un solido sistema politicamente centrista e palustre. Esattamente quello schema che De Gaulle avrebbe considerato una dittatura del parlamento, organo a suo avviso incapace di assumere le decisioni di cui la Francia aveva bisogno nella delicata fase della decolonizzazione. La Costituzione francese del 1958 (quinta repubblica), perfezionata con il referendum del 1962 che consentiva l’elezione diretta del presidente, costituisce un interessante esperimento di formazione delle decisioni politiche. Che si tratti di eleggere il singolo parlamentare oppure il presidente della repubblica, ogni francese vota due volte a distanza di pochi giorni. La prima volta egli si esprime, per dir così, liberamente; assegnando la preferenza al candidato che sente più vicino alle sue idee o ai suoi interessi. La seconda volta egli è poi chiamato ad esprimersi sui due soli candidati che hanno totalizzato il maggior numero di voti. Affermazione di freddo realismo? Non esattamente! Vero è che nel 2002 tutti i francesi di sinistra — salvo s’intende i duri e puri — al secondo turno deposero un voto per il destro Chirac contro il destrissimo Le Pen. Ma il quadro politico sarebbe stato ben differente se, in un ballottaggio tra il gollista Chirac e il socialista Jospin, il primo fosse stato eletto con i voti della estrema destra. Si pensi alla posizione francese dinanzi alla spedizione americana in Iraq! Noi italiani di sinistra allora apprezzammo, anche se i nostri compagni francesi scalpitavano e scalpitano ancora…
Quel sistema in effetti ammaliò anche noi, quando fu chiaro che Tangentopoli era stata possibile a causa dell’impossibilità per i cittadini di sfondare le recinzioni dei partiti intorno alle nomine. La legge 81/93 previde la possibilità di eleggere il sindaco per elezione diretta dei cittadini: maggioranza assoluta e, in caso mancato, ballottaggio fra i primi due più votati. Ricordo ancora l’emozione provata all’elezioni comunali parziali dell’autunno ’93. Addirittura in due città, Torino e Catania, si andò al ballottaggio fra due candidati di sinistra! (Allora l’espressione “centrosinistra” ricordava le coalizioni DC/PSI degli anni ’60-’80).
La butto lì, ma forse quell’anno a Torino e a Catania si tennero vere primarie di fatto… L’anno dopo vinse Berlusconi e il valzer cambiò giro. Da quel momento la sinistra italiana le strade le ha provate tutte, tranne quella del rinnovamento e della progettazione di una società futura a minor tasso di ingiustizia. E alle elezioni del 2006 il personale politico messo in campo fu lo stesso del 1996: dieci anni di mancata alimentazione… Dieci anni durante i quali, a un certo punto, non un politico di professione e nemmeno un militante di base, ma un regista, Nanni Moretti, pronunciò l’inoppugnabile sentenza: “Con questi dirigenti non vinceremo mai!”
C’era da mettere in moto un meccanismo per il ricambio del gruppo dirigente di sinistra in Italia. Ma i Girotondi non ci riuscirono. Non solo l’emblematico D’Alema restò al suo posto, ma alla gente fu data da bere una colossale bufala. Prima però di evocarla, devo dedicare qualche riga a una bufaletta minore per estensione geografica, ma politicamente alquanto grave. Nel 1999 si votava per le amministrative a Bologna. Come abbiamo visto, c’era già il nuovo sistema e la sinistra locale non pareva d’accordo su un candidato unico. A Bologna lo ricordano in pochi e nel resto d’Italia tutti lo ignorano. Ma quella volta a Bologna si tennero elezioni primarie per decidere… chi doveva portare l’onere di farsi battere per la prima volta in città dal candidato di centrodestra. Per di più, lo schema non assomigliava affatto a quello che abbiamo visto interpretato da Obama e dalla Clinton, che non hanno badato a spese nel darsele, e con quali risultati non sappiamo oggi prevedere. Nelle primariucce bolognesi non c’era reale competizione: c’era solo esibizione come in quelle pitture medievali in cui la madonna è grande e tutti gli altri sono piccolini. Ed ecco perché alle primarione del 17 ottobre 2005, quelle che incooronarono Prodi in vista delle prossime legislative, io ero piuttosto perplesso. Del resto i risultati finirono per parlar chiaro. Quasi i tre quarti dei voti andarono a Prodi e i restanti candidati si affrettavano a dichiarare di non essere contro Prodi. Erano primarie queste qui? A me non pare, né sul piano formale né su quello sostanziale.
All’idea delle primarie fu invece molto vicina la consultazione interna che si tenne il 17 gennaio 2005 in Puglia. Qui il candidato degli apparati Boccia fu battuto da Vendola che poi avrebbe vinto le elezioni alla presidenza regionale. Ma non si trattò di una regola, bensì fu un’eccezione, l’unica su quindici regioni. E oggi nessuno ne rivendica la portata; neppure quel PRC che, non essendo stato capace di lucrare sugli interessi, ha cominciato a intaccare il capitale.
Ed eccoci giunti alla più grande mistificazione legata all’idea di elezioni primarie. Quando al termine di lunga e penosa sofferenza il modulo ancora cattolico e il modulo ex comunista si sono uniti per dar vita al Partito Democratico, c’era da eleggere un segretario. Un modo — non c’è dubbio — è quello di farlo eleggere dalla base. Ma perché chiamare “primarie” questa cosa? Se le primarie servono a scegliere un candidato in vista della futura scadenza elettorale, qual era questa prevista scadenza nel momento in cui si eleggeva il segretario di un partito neocostituito? Era solo cialtronaggine derivata da insufficiente padronanza del linguaggio scientifico della politica? Era una furbata propagandistica mirante ad attirare al voto persone che altrimenti non si sarebbero presentate a scegliere il segretario di un partito? O non era anche un messaggio chiaro e forte che significava l’imminente impallinamento di Romano Prodi? Sia come sia, quelle non erano primarie poiché le candidature alternative o non erano opzioni percorribili (Bindi) o erano ridicoli show autopromozionali (Adinolfi). Di rimettere in qualche modo in questione l’assetto del gruppo dirigente, nemmeno a parlarne.
Diciamo comunque una grande banalità: non ci sarebbe bisogno di richiedere a gran voce elezioni primarie se i cittadini si sentissero realmente rappresentati dai dirigenti dei partiti. Il grande paradosso odierno è che un italiano vota, dal basso in alto,
a) per i consigli di quartiere,
b) per il consiglio comunale e disgiuntamente per il sindaco,
c) per il consiglio provinciale e il presidente della provincia,
d) per il consiglio e per il presidente della regione,
e) per la camera dei deputati,
f) per il senato,
g) per il parlamento europeo.
Malgrado questo profluvio di schede elettorali, la cittadinanza attiva non fa che chiedere maggiore partecipazione, e le primarie non sarebbero che uno dei più importanti momenti partecipativi. Come non leggere questa richiesta se non come un pronunciamento critico di insufficienza nei riguardi di un sistema sedicente democratico? Eppure, malgrado urti e scossoni, l’energia scaricata dalla massa dei cittadini contro il fianco del sistema dei partiti diventa sempre più debole e inefficace.
Un esempio ce lo abbiamo qui a Bologna. Per cinque anni, dal 1999 al 2004, la città, o meglio quella parte di essa che si rispecchia nell’edizione locale della Repubblica, nel Domani di Bologna e nell’Unità, ha fatto finta di chiedersi, incredula, com’era stato possibile che la destra fosse entrata a Palazzo d’Accursio. Eppure qualcuno per Guazzaloca deve aver votato, anche considerando coloro che quel giorno andarono al mare… Riportando al comune quei voti che i residenti bolognesi avevano espresso per il consiglio provinciale, la destra non avrebbe vinto. E se vinse non fu perché i bolognesi fossero diventati improvvisamente di destra, ma perché, fra l’altro, l’establishment era arrivato ad una tale impudenza da inscenare fittizie elezioni primarie, a vantaggio di una “candidata donna”, punto di mediazione non di alto profilo rispetto a contendenti palesi e occulti che si erano giocati senza successo la loro partita. Se nel 2004, dinanzi alla candidatura Cofferati, nessuno invocò primarie o roba del genere, fu perché l’ex segretario della CGIL era proprio lui il portabandiera dell’auspicato rinnovamento. Fu il poeta a intravedere la magagna. Roberto Roversi, in una dichiarazione che cito a memoria, parlò di Cofferati come del capitano di ventura che nelle città medievali veniva chiamato quando nessuna delle parti in gioco riusciva a prendere il potere e la situazione degenerava. Saggia considerazione, perché vede la questione da entrambi i lati. Da un lato chi si insedia al potere, comunque vi pervenga, è portato ad imporsi fino a coartare la stessa volontà di chi lo ha sostenuto. Dall’altro chi si è rivolto all’esterno per risolvere problemi interni, con ciò stesso denuncia una sua inettitudine che finisce per renderlo incapace di critica credibile.
E oggi a Bologna il punto è proprio questo. Sostenitori entusiasti di Cofferati in nome di quella partecipazione che cinque anni fa egli caldeggiava, sono a chiedere una manifestazione di partecipazione consistente in elezioni primarie. In nome di che? Immagino in nome di una critica radicale alla politica del sindaco in carica. E tuttavia questo non lo si dice. Lo si pensa? Non so, ma pensarlo solamente non basta. Invocare primarie senza mettere in campo almeno un tre di briscola, se non si ha l’asso, è una lamentevole prova d’impotenza.
Non è invece impotente pensare che un sistema elettorale a doppio turno consente persino ai trockisti francesi di procurarsi una visibilità, sottoponendosi a uno scrutinio che li vedrà sempre perdenti, sì, ma non camuffati da qualcos’altro. Si vedrà in seguito se è una talpa e se scava… Invece nel gioco delle primarie all’italiana, verdi e rifondaroli sono divenuti indistinguibili, tanto si erano appiattiti nella logica di coalizione.
Se ne fossi capace, oggi andrei a sedermi in una delle ultime file e alla prima occasione urlerei morettianamente: “Le primarie no!”, oppure fantozzianamente: “Per me le primarie sono una cagata pazzesca!”
Non mi sento personalmente all’altezza del cimento. Un cane sciolto può poco contro l’accalappiacani. Ma se i cani sciolti aumentano via via di numero, si arriva a un punto in cui è l’accalappiacani ad avere dei problemi.

P.S. 1 — Nel momento in cui sembra che un candidato, esso pure del PD, intenda affrontare Cofferati in elezioni primarie di partito, Cofferati ha dichiarato che firmerà per la presentazione dell’altro. Se non è ipocrisia questa!

P.S. 2 — Qualche giorno fa, il papa, parlando a Cagliari, ha caldeggiato la necessità che una nuova generazione di politici cattolici si faccia avanti. Siccome, nella storia del progresso, la chiesa è sempre arrivata ultima, dopo un sacco di tempo, ecco che mi spiego come mai io non ricordi un analogo invito rivolto da dirigenti di sinistra ai giovani di sinistra. Deve essere passato tanto, tanto tempo…