di Darko Suvin (trad. di Francesca Valentini)

Lem.jpg[Questo ricordo di Stanislaw Lem, scritto da Darko Suvin che è stato fra i primissimi a occuparsene, è uscito in edizione americana con il titolo “To Remember Stanislaw Lem”, in EXTRAPOLATION 47.1, 2006, e in italiano su ROBOT 50, primavera 2007] (Salvatore Proietti)

Stanisław Lem, romanziere, intellettuale e saggista polacco, è morto a 85 anni nel marzo 2006. Questo grande autore merita di essere ricordato e onorato in modo critico. Tenterò di offrire dapprima un panorama generale delle sue opere principali per poi focalizzare l’attenzione su due di esse, lasciando emergere punti deboli ed elementi di forza.

1. Panoramica generale

Il poco che conosciamo dell’infanzia e dell’adolescenza di Lem deriva da un’affascinante descrizione nell’autobiografico Wysoki zamek (High Castle nella prima edizione inglese del 1995), che tace tuttavia sul fatto che dei genitori, entrambi medici benestanti, certo atei ma formalmente cattolici, uno (il padre) fosse di origine ebrea. I suoi studi di medicina vennero interrotti dall’occupazione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale; in questo periodo lavorò come meccanico e saldatore. Le esperienze vissute negli anni dell’immediato dopoguerra accostarono Lem a una dimensione più sociopolitica (presto inacidita dallo stalinismo) e plasmarono il suo primo manoscritto Czas nieutracony (tit. ingl. Time Saved, in seguito abbreviato e pubblicato come Szpital Przemienieni, trad. it. L’ospedale dei dannati).
Nel 1946 lo scrittore si trasferì a Cracovia, conseguì la laurea in medicina, divenne assistente ricercatore presso un istituto scientifico e scrisse (oltre a componimenti lirici, quasi certamente piccoli peccati di gioventù) alcuni saggi di metodologia scientifica, fino a quando entrò in conflitto con la venerazione stalinista verso le teorie biologiche lamarckiane di Lysenko. In seguito si dedicò alla fantascienza; secondo la sua pagina web. Da allora Lem ha pubblicato circa trenta titoli, tradotti in più di quaranta lingue e venduti in circa ventisette milioni di copie.
I suoi primi romanzi di fantascienza (a parte uno pubblicato a puntate e mai ristampato) sono Il pianeta morto (Astronauci, 1951) e Oblok Magellana (tit. ingl. The Magellan Nebula), opere di un principiante limitate da alcune convenzioni tipiche del “realismo socialista”, ma tuttora interessanti poiché contengono alcuni dei temi a lui più cari (l’identità umana, la minaccia del militarismo e della distruzione globale). In esse l’ingenuità utopica è plasmata dall’umanesimo impegnato che costituisce una delle caratteristiche portanti della sua opera; l’altro asse portante dell’opera di Lem, la tendenza cioè a narrare parabole nere in stile grottesco, appare in Memorie di un viaggiatore spaziale (Dzienniki gwiazdowe, 1971).
La decina d’anni di parziale destalinizzazione che seguirono l’“Ottobre polacco” del 1956 costituirono l’epoca d’oro di Stanisław Lem. In questi anni pubblicò diciassette opere: cinque romanzi di fantascienza, di cui parlerò più avanti; dieci libri di racconti fantascientifici parzialmente concatenati che comprendono il ciclo di Pirx (I viaggi del pilota Pirx, traduzione di Opowies’ci o pilocie Pirxie del 1968), le “fiabe robotiche” di Fiabe per robot (Bajki robotów, 1964) e il ciclo di “Trurl e Klapaucius” o Cyberiade (Cyberiada, 1965), e infine altri testi, inclusi un’opera teatrale e tre drammi per la TV.
Certamente non ultima per importanza è la saggistica, di cui fa parte la “sociologia cibernetica” dei primi Dialogi e la sublime Summa technologiae, che rappresentano il coronamento del pensiero speculativo di Lem e in certo modo la chiave per accedere alla sua produzione narrativa, di cui mi occuperò più avanti. Si tratta di una brillante ricognizione, rischiosa e mozzafiato, delle possibili ingegnerie sociali, informative, cibernetiche, cosmogoniche e biologiche nel gioco tra Uomo e Natura.
I romanzi Eden (1959), Solaris (1961, di cui si contano due adattamenti cinematografici) e L’invincibile (Niezwyciezony, 1964) dispiegano i misteri di esseri, eventi e luoghi insoliti che rivelano ai protagonisti i limiti e gli elementi di forza della condizione umana. Appropriatamente, queste parabole dei giorni nostri hanno un finale aperto: nessun sistema di riferimento finito è realmente praticabile nell’era della cibernetica e degli assolutismi politici rivali; la redenzione dei protagonisti giunge grazie all’intuito etico ed estetico piuttosto che per mezzo della tecnologia, della conoscenza astratta o del potere. Di qui la forte ma salutare critica di Lem nei confronti della fantascienza di lingua inglese, che ha la colpa di gestire male le potenzialità del nuovo e di sprecarle in trovate e fiabe, espressa nei due volumi della sua Fantastyka i futurologia (alcuni brani sono pubblicati nella raccolta Micromondi, pubblicata anche in Italia, da cui personalmente ho imparato molto pur rifiutandone l’unidimensionalità.
Tale posizione, intollerabilmente semplificata in brani mal tradotti da un cremlinologo, portò la SFWA (l’associazione americana degli scrittori di fantascienza) a ritirare la qualifica di membro onorario precedentemente concessa a Lem, mentre tra i ranghi dell’associazione si consumava un aspro dibattito. Tra i critici di Lem c’era anche P.K. Dick nella sua più intensa fase paranoica, che scrisse all’FBI per rivelare come Lem fosse in realtà il nome in codice di un comitato del KGB con sede a Cracovia (i cui agenti in Nord America sarebbero stati Darko Suvin e Fredric Jameson).
Agli oltraggiati scrittori di SF si aggiungevano rinnegati di un certo rilievo provenienti dalla sinistra, come Leslie Fiedler, che interpretava l’opera di Lem come quella di un marxista ortodosso, proprio nello stesso periodo in cui Lem identificava il marxismo con la corrotta variante russo-polacca del “socialismo reale”. Il fatto che le sue opere fossero comunque pubblicate e ottenessero dei riconoscimenti negli Stati Uniti, e ancora più nella Germania Ovest, è totalmente dovuto ai meriti intrinseci della sua scrittura. La critica di Lem nei confronti delle banalità egualmente antropomorfiche della fantascienza sovietica poté aver luogo grazie all’immensa popolarità e all’influenza liberatoria di cui godeva lì. Nel mezzo fra i due leviatani, al suo meglio Lem utilizzò l’esperienza di intellettuale mitteleuropeo per fondere insieme la luminosa speranza umanistica con un amaro monito storico. Questa doppia visione sovverte sia la distopia da “inferno comico”, sia l’utopismo deterministico, giustapponendo i bagliori neri del primo ai luminosi orizzonti del secondo. Perfino le storie grottesche come la Cyberiade, che illustrano i limiti spesso disgustosi della condizione umana, sono pervase da divertimenti umanistici, satira nera o iconoclastia allegorica.
I primi segni dell’avvicinarsi di un vicolo cieco, se non proprio di esaurimento, ideologico in Lem comparvero nel 1968, dando origine a un’ulteriore e sfolgorante sperimentazione formale. In Glos Pana (tit. ingl. His Master’s Voice, 1983), i dubbi radicali sull’autodeterminazione e la sovranità umana, e quindi sulla possibilità di comunicare con altre persone (per non dire con altre civiltà), minacciavano di scomporre la forma finzionale del romanzo in meditazioni solipsistiche, lezioni e avventure ideative. Glos Pana può aver evitato tutto ciò grazie a un tour de force nel tono narrativo, ma Lem seppe imparare da questa soluzione mancata dedicandosi a una serie brillantemente innovativa di glosse brevi di second’ordine, al limite tra narrativa e trattato.
In Vuoto assoluto (Doskonala próznia, 1974) – per lo più costituito da recensioni a libri inesistenti, che allo stesso tempo caratterizzano e scherniscono i loro bersagli – e Wielko__ urojona, come il più tardo Golem XIV (tit. ingl. Imaginary Magnitude, 1984), lo stile di Lem spazia da schizzi in miniatura su orribili fantasie futuristiche a sviluppi ulteriori delle idee già emerse nella Summa technologiae sull’“intellettronica” (intelligenza potenziata artificialmente) e la “fantomatica” (esperienza illusoria). Troviamo il tema della “vita come illusione”, sotto la forma alla moda dell’assunzione di droghe, e anche le ben radicate ma atee ossessioni teologico-cosmogoniche di Lem, nella sua opera più lunga e più sinistramente ilare di questo periodo, Il congresso di futurologia (Kongres Futurologiczny, 1971).
La sua ultima grande opera narrativa fantascientifica è probabilmente il racconto lungo Maska (tit. ingl. The Mask), scritto a metà degli anni ’70, in cui raggiungono un culmine i temi ricorrenti del labirinto e del doppio, grazie a una vivida proiezione dei misteri e delle crudeli metamorfosi della coscienza cognitiva umana. Solo negli anni ’80, con l’attacco, goffo ma feroce, alle pretese cognitive umane contenuto in Il pianeta del silenzio (Fiasko, 1986), Lem tornò brevemente alle strutture narrative del romanzo. Non mi occuperò delle opere degli ultimi vent’anni, per quanto brillanti sotto molti aspetti, poiché spesso si allontanano dalla fantascienza per divenire esercizi di “pensiero debole” Post-Modernista su misteri ontologici, e perché a mio parere non aggiungono molto a quanto già elaborato da Lem.
La straripante inventiva linguistica di Lem, all’altezza della sua controversa abbondanza di idee, si perde parzialmente nel lavoro di traduzione, sebbene le raccolte inglesi di racconti The Cosmic Carnival of Stanislaw Lem (1981) e One Human Minute (1986) rivelino parte dell’esuberanza tipica della sua scrittura. Ma resta evidente che Lem possedeva un proprio speciale punto di vista, con ovvie limitazioni scientiste e tuttavia con grandi punti di forza, che permettevano alla sua narrazione di trascendere tanto il pragmatismo cinico quanto l’utopismo astratto.

(1-CONTINUA)