di Valerio Evangelisti

BallardPaulMurphy.jpg[Nel numero di novembre de La Repubblica XL è ospitata un’intervista di chi scrive a James G. Ballard. La si può leggere sul sito della rivista. In realtà l’intervista era accompagnata da un lungo commento all’utimo romanzo di Ballard tradotto in Italia, Regno a venire, commento poi ridotto ai minimi termini per esigenze giornalistiche. Eccone la versione integrale.] (V.E.)

La collezione da edicola di fantascienza Urania Mondadori, al di là dei miti, non era negli anni Sessanta-Settanta il massimo della finezza. I curatori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini, non avevano una grande considerazione per il genere che si trovavano a trattare. Tagliavano ferocemente i testi (qualche volta opportunamente, altre volte meno), mescolavano letteratura avventurosa di infimo livello (vedasi la passione per Murray Leinster) ad altra di avanguardia (lo scrittore trotzkista Mack Reynolds), non sapevano distinguere tra romanzetti di consumo e capisaldi della narrativa a venire.

La morte di Franco Lucentini ha condotto alla sua santificazione, quasi fosse stato, con Fruttero, colui che ha “nobilitato” la fantascienza. In realtà, la coppia ne è stata il boia. Ha fatto di tutto per condannarla all’emarginazione. Ha espunto, dai romanzi che pubblicava, ogni elemento di complessità. E quando i due pretendevano di impartire lezioni di scrittura — con la rubrica Il marziano in cattedra — docevano di luoghi comuni (stilistici e contenutistici), unici idonei, secondo loro, a un genere mai definito come secondario, tuttavia di fatto considerato tale.
Ciò per dire che due assassini seriali della fantascienza, come Fruttero e Lucentini, qualche errore nella loro politica di sterminio lo commisero Tipo proporci su Urania (tagliati come si conviene) autori non tanto semplici. Per esempio Mikhail Bulgakov, Philip K. Dick, il menzionato Mack Reynolds (poco noto negli stessi Stati Uniti) oppure, per l’appunto, James G. Ballard. Oggi riconosciuto come uno dei maggiori scrittori e saggisti contemporanei di lingua inglese.

Ballard ha avuto la fortuna di essere infine riabilitato quale esponente della letteratura senza etichette, e come acutissimo commentatore. Feltrinelli da anni propone o ripropone l’assieme delle sue opere. Fantascientifiche o meno Si veda l’intervista accanto. Lo scrittore data la fine della science fiction allo sbarco sulla luna. Sarebbe un luogo comune, se non si trattasse, invece, di una brillante provocazione. Alcuni dei romanzi migliori di Ballard, e dei più avveniristici, sono infatti posteriori al 1969. Proprio quell’anno, segnato da astronauti americani intenti a ballonzolare sul suolo lunare, vide del resto l’apparizione di un’antologia di Ballard destinata a scuotere il genere dalle fondamenta, e a indicare possibili vie future. Parlo di The Atrocity Exhibition, autentica pietra miliare della sf. Roba che con l’allunaggio non ha nulla a che fare.
Spiegare perché quella raccolta ebbe un effetto devastante richiederebbe tempo e spazio (che, a ben vedere, sono i capisaldi della fisica moderna, e della moderna fantascienza). Mi limito a dire che Ballard avvicinava la sf al surrealismo, alle esperienze letterarie estreme, a una lettura della realtà in chiave metaforica e spiazzante. Con lui la fantascienza si iscriveva tra le assi portanti della letteratura europea moderna.
Molti decenni sono passati da quel testo. Nel frattempo, Ballard ci ha riservato non poche sorprese. Fino a questo Regno a venire, in origine Kingdom Come. Espressione poco decifrabile, nella lingua originale, ma probabilmente derivata dalla versione britannica del paternoster. “Venga il regno”, invece di “Venga il (tuo) regno”. Sì, ma di quale regno si tratta?
Sorge ai margini di un’autostrada dal traffico sostenuto, e nei pressi dell’aeroporto di Heathrow. Consiste in un enorme centro commerciale e nelle case sorte attorno. L’unica passione condivisa dagli abitanti working class è il tifo calcistico: vivono per quello. Quanto al centro in sé, somiglia a una basilica. E lo diviene effettivamente, sotto la pressione popolare. La comunità si rende autonoma, recide i legami col resto del Paese. Crea una propria, abnorme, identità spirituale di taglio consumistico. Perché la consacrazione sia effettiva, serve un Messia. E’ da qui che Ballard fa iniziare il suo romanzo.
Richard Pearson è un tipo abbastanza ordinario, in apparenza. Non lo sono le sue motivazioni. E’ giunto nel suburbio londinese – denominato Brooklands, ma potrebbe avere qualsiasi altro nome (incluso Shepparton, dove abita Ballard) — per indagare sulla morte del padre, pilota d’aereo, all’interno del centro commerciale, il Metro-Center. Ciò che scopre è sorprendente. Lo sterminato supermarket ha usurpato le funzioni che un tempo aveva la chiesa. Elettrodomestici, computer e televisori sono oggetti di culto. Nelle strade marciano, razzisti e volgari, i tifosi avvolti nell’Union Jack quali moderne SS in cerca di un leader.
Se ciò non bastasse, è impossibile lasciare Brooklands. Ogni volta che Pearson ci prova, si trova risospinto verso il Metro-Center. Idea non nuova, nella letteratura fantastica (si veda il romanzo di Jean Ray Malpertuis), solo che qui è al servizio di un messaggio politico molto palese. Quello è il nostro futuro. Non possiamo sfuggirgli.

Sarebbe criminale anticipare altri svolgimenti del romanzo. Vi troviamo taluni momenti ricorrenti nella produzione letteraria dell’autore. L’elemento autobiografico, consistente nella nostalgia per gli anni Trenta e nel fascino per gli aeroplani. Il terrore verso la noia quale cifra del nostro possibile avvenire. La critica politico-sociale: non si nomina Blair, tuttavia sono politiche come le sue fonte certa di squallore.
La classe operaia bianca non è portatrice di un’alternativa. Vittima del consumismo, priva di un’ideologia, marcia al seguito di slogan razzisti e di scampoli di nazionalismo, fino ad avere negli stadi il proprio punto di coagulo. Con la classe media instaura un compromesso. Vuole le stesse merci, a prezzo conveniente. Per averle l’una sarà il braccio, l’altra la mente. Una nuova sorta di fascismo è lo sbocco obbligato.
Ballard ha l’onestà di non smarcarsi dalla fantascienza, come ha invece fatto l’americano Kurt Vonnegut, una volta raggiunta una fama eccedente il perimetro del ghetto. Dice però di non scrivere fantascienza da trent’anni. Ciò non è vero. Erano assolutamente fantascientifici Crash (1973), Condominium (1975) e Ultime notizie dall’America (1981). Se due di questi testi si collocano al limite del periodo trentennale, il terzo vi rientra in pieno.
Si tratta allora di intendersi circa il termine “fantascienza”, sul quale Ballard, che pure ne è un maestro, coltiva idee vaghe. “Fantascienza” (l’ho già detto altrove) è il genere letterario che ha per oggetto sogni e incubi legati all’evoluzione scientifica, tecnologica, politica e sociale del nostro presente. Può essere pura avventura, con le astronavi al posto dei vascelli corsari. Può descrivere mondi futuri proiettandovi semplici estrapolazioni tecniche (è la scuola minoritaria di Jules Verne: allora sì che un allunaggio è capace di metterla in crisi). Può dipingere le reazioni umane a uno sviluppo tecnologico imprevedibile (la scuola di H. G. Wells: di gran lunga la più fruttuosa).
Ballard si ricollega al filone Wells, magari senza averne piena coscienza. In alcune sue opere iniziali, come Deserto d’acqua o Il vento dal nulla, la catastrofe che si era abbattuta sull’umanità non era minimamente spiegata. Al centro della narrazione erano le reazioni psicologiche alla catastrofe, in una gamma di sfumature che andavano dallo smarrimento allo sforzo di adattarsi a una situazione assurda.
Ciò è il fulcro della fantascienza migliore, e persino di una parte di quella peggiore. E’ vero che tante volte i personaggi messi in scena da quest’ultima somigliano a marionette, a puri pretesti per fare scorrere la narrazione. Il fatto è che si trovano a confronto con scenari completamente alieni, per cui è estremamente difficile dipingerne le reazioni psicologiche. L’espediente consueto sta nel porre l’accento sul mistero da spiegare, sull’universo incomprensibile — ma passibile di comprensione, se si posseggono le chiavi giuste — in cui i protagonisti sono immersi.
Il metodo di Ballard è totalmente diverso. Al cataclisma — o al brusco mutamento delle condizioni di vita, in Crash, in Condominium — non c’è spiegazione razionale alcuna. La realtà è mutata. Non rimane che adattarvisi. L’adattamento, con i traumi che comporta, costituisce l’autentica materia narrativa.

E’, a ben vedere, la situazione che vive Pearson, il protagonista di Regno a venire. Gli piaccia o no, Brooklands rappresenta tutto il reale. Non c’è verso di tentare di sfuggirgli. L’unica opzione possibile è un compromesso con ciò che esiste. Un’accettazione sia pur critica del presente, malgrado le remore di una memoria ferma a ciò che c’era prima.
Ragionava diversamente il protagonista de La guerra dei mondi di Wells? Non credo proprio. Si accorgeva presto che la resistenza degli umani era vana. Pur seguitando a combattere, finiva per accogliere l’invasione dei marziani come un dato acquisito. La terra era sotto un nuovo dominio. Il problema non era tanto la tecnologia di cui gli invasori si servivano (ignota dall’inizio alla fine), quanto piuttosto l’effetto che essa produceva nei comportamenti dei terrestri. La vigliaccheria di un religioso, in teoria votato al coraggio, ne era una convincente dimostrazione. L’impero coloniale imposto dallo spazio finiva per cadere in forma totalmente fortuita.
Ballard come Wells, dunque, sotto certi aspetti, e ben distante da Verne. Però in Ballard si va oltre. In Regno a venire c’è una palese interazione fra Pearson e l’ordinamento alieno cui è sottoposto. Se le cause gli sono ignote (per quanto molto comprensibili al lettore: il peggio dell’Inghilterra di Margaret Thatcher si riversa nel peggio dell’Inghilterra di Tony Blair), finisce però per essere parte attiva del gioco mostruoso cui non può sfuggire. Poco importano l’emergenza incongrua di un centro commerciale a santuario di una comunità, o la causa che moltiplica le gang di tifosi che infestano le strade. I fenomeni sono dati quanto il vento dal nulla o il deserto d’acqua. L’alternativa è adeguarsi o perire.
In ciò, Ballard si colloca su un polo opposto rispetto alla cosiddetta “fantascienza sociologica” degli anni Cinquanta e Sessanta (Pohl, Tenn, Sheckley, Knight ecc.). Là si trattava di imposizioni che chiamavano alla reazione. In Ballard, un cambiamento di sistema ha la forza assoluta di uno tsunami, di fronte al quale nessuna resistenza è possibile. Ci si dovrà adeguare a una nuova vita, scendere a compromessi con ciò che è accaduto. Uno stato di cose reso molto bene da uno splendido racconto del Ballard giovanile, l’inquietante Essi ci guardano dalle torri. In cui misteriosi osservatori prendono di punto in bianco a spiarci da torrette appese alle nubi, senza che sia possibile alcun contatto. Fallito ogni altro tentativo, non c’è che da accettare di vivere sotto un’osservazione perenne.

Il nuovo fascismo razzista e consumistico è dunque un destino obbligato? Senza ricorrere a Ballard, per chi guardi le televisione italiana (indifferente a sfumature di sistema come centrosinistra e centrodestra), verrebbe da rispondere di sì. Tutti schiavi dei media — l’equivalente catodico del centro commerciale — e con i media che veicolano ogni giorno e a ogni ora, al pari delle squadracce di Brooklands, lerci messaggi fascisti e razzisti sotto pseudonimo (lo pseudonimo più in voga, per designare il nazismo odierno, è “liberalismo”).
C’è da rassegnarsi? Il “messaggio” — se è lecito definirlo così — di Ballard non è affatto di rassegnazione. La fantascienza sociologica del passato era consolante, al di là delle intenzioni. Il lettore terminava il romanzo con il quadro di una giustizia ristabilita, o di una ribellione in atto.
Chi legga Ballard esce dall’esperienza con molti problemi in più, oltre a quelli che eventualmente aveva prima. Si accorge che il regno sta effettivamente venendo, anzi, che la sua instaurazione è quasi per intero completata.
A quel punto, non può essere la scrittore a suggerire come reagire. Lui può solo indicare che l’incubo è già là fuori, accanto all’autostrada, e che non sembra consentire vie di fuga. Spetta al lettore scoprirne una, se esiste. O adattarsi, se non esiste.