di Valerio Evangelisti

Zodiac1.jpgZodiac2.jpgE’ stato finalmente pubblicato in italiano, con il titolo Zodiac Killer (True Crime Mondadori n. 19, agosto 2006), il libro di Robert Graysmith Zodiac, del 1986. E’ un lieto evento. Peccato che uno degli studi migliori mai apparsi su un serial killer sia finito in una collana da edicola di livello finora mediocre, e condannato a un solo mese di vita precaria. Per non parlare dell’indecorosa prefazione, tale da far pensare che chi l’ha scritta non abbia letto il testo che introduce. In ogni caso, la presentazione del libro di Graysmith al pubblico italiano (già meditata da Daniele Brolli, mi pare di ricordare), è un piccolo evento. Per celebrarlo ripropongo un saggio, un po’ datato, largamente ispirato a Graysmith. E’ già apparso sulla defunta Carmilla cartacea e nel mio Alla periferia di Alphaville, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000. Graysmith, di recente (2002), ha pubblicato un’ulteriore ricerca, Zodiac Unmasked (Berkeley, New York, 2002). [V.E.]

AMERICAN PSYCOSIS

Nella moderna letteratura horror (e nel cinema, nella televisione) la figura del serial killer sembra avere completamente soppiantato i mostri metafisici del buon tempo che fu. Un intero filone, solo in parte coincidente con il cosiddetto splatterpunk, propone assassini psicotici di fronte ai quali lo stesso Hannibal Lector impallidisce. Non si tratta, a ben guardare, di una rivisitazione delle tematiche esplorate decenni fa da Robert Bloch, in romanzi a giusto titolo memorabili. Per lo più i risvolti psicologici sono scomparsi o si sono fatti marginali: al centro delle storie stanno ora le inenarrabili atrocità compiute dal mostro, che è tanto più mostro quanto più le sue azioni appaiono insensate. Una sorta di grottesco insetto omicida acquattato nelle pieghe della società, e destinato a essere, più che neutralizzato, schiacciato (quando il romanzo o il film hanno un “lieto fine”).
Non avrei eccessive obiezioni a questo genere di narrativa e di cinematografia, che talora ha persino pretese di critica sociale, se non vi ravvisassi un rischio di oggettiva sintonia con alcune delle tendenze più odiose scaturite dalla pensée unique (per dirla con Ramonet) oggi dominante: la rinuncia a ricercare le cause dei comportamenti, la rivalutazione della biologia con parallela svalutazione della psicologia, l’individuazione del deviante quale gratuita anomalia segnata da colpe misteriose e unicamente proprie (come la povertà nell’ideologia protestante).
L’eliminazione sanguinosa del “mostro” che spesso conclude quel genere di storie mi sembra allora collegarsi assai bene ai meschini trionfi del cognitivismo e del comportamentismo (uniche scuole psicoterapeutiche ancora considerate a livello accademico), al ritorno in grande stile della psichiatria scientista, alla reintroduzione dell’elettroshock nelle cliniche, alle disquisizioni su supposte origini chimiche o genetiche della schizofrenia. Se così fosse ci troveremmo di fronte a una letteratura e a una cinematografia spaventosamente reazionarie, che solo la confusione intellettuale degli anni ’90 permette di scambiare per progressiste.
Perché risulti più chiaro ciò che certe semplificazioni rischiano di oscurare, ripercorrerò la vicenda autentica di uno dei più allucinanti assassini psicopatici dei nostri tempi. Nella speranza che il lettore si chieda, alla fine della lettura, se la nozione di “mostruosità” possa davvero essere usata con leggerezza, nella fiction come nella realtà.

1. ZAROFF

Nessuno ha mai saputo spiegare perché regolarmente, periodicamente, in questa nazione si alza un folle per compiere una strage di gente, se non innocente come i bimbi di Erode, certo incolpevole e spesso sconosciuta al suo uccisore. Duemilacinquecento persone l’anno cadono morte nei parcheggi di supermercati, vittime di violenze che non hanno nemmeno il pretesto della rapina, del raptus sessuale, della droga. Uccise così, da una mano ignota e indifferente come il fulmine che incenerisce il viandante nel bosco” . (1)

Si firmava Zodiac. Amava fregiare le proprie missive con una croce sovrapposta a un cerchio quella che viene comunemente definita “croce celtica”, sprovvista però, in questo caso, di qualsiasi significato politico. Operava in prevalenza nei dintorni di San Francisco, e comunque nella Bay Area californiana. Rivendicò sei omicidi, ma gliene furono attribuiti quarantanove.
L’esistenza di Zodiac, uno dei più inquietanti assassini della storia criminale statunitense (che, pure, ne annovera parecchi), diviene nota al pubblico il 1° agosto 1969, allorché alcuni quotidiani di San Francisco e Vallejo ricevono un messaggio di questo tenore:
“Caro direttore, qui è l’assassino dei due ragazzi di Lake Herman, lo scorso Natale, e di quella ragazza del 4 luglio presso il campo di golf di Vallejo. Per provare che li ho uccisi io, elencherò alcuni fatti che solo io e la polizia conosciamo”.
Segue una descrizione della dinamica dei tre omicidi rivendicati e dei proiettoli usati. La missiva cui è allegato un messaggio cifrato apparentemente incomprensibile – si chiude con una gelida minaccia:
“Voglio che stampiate questo messaggio cifrato sulla prima pagina del vostro giornale. Nel messaggio è la mia identità. Se non stamperete il messaggio cifrato entro il pomeriggio di venerdì 1° agosto 1969, venerdì notte farò una scorribanda di omicidi. Mi aggirerò per tutto il fine settimana ammazzando gente sola nella notte, poi mi sposterò e ucciderò ancora, fino ad ammazzare una dozzina di persone prima della fine del week-end” . (2)

Nell’estate del 1987 le autostrade della Bay Area sono teatro di un’inquietante epidemia. Dopo che un banale litigio tra automobilisti è sfociato in una sparatoria, l’abitudine di guidare con la pistola nel cruscotto o col fucile sul sedile laterale dilaga, e con essa dilaga la “moda” di far fuoco sulle altre autovetture con pretesti labili o, più sovente, senza ragione apparente .(3)
Lucenti pistole automatiche, carabine a canna mozza, pesanti fucili a pompa iniziano a essere quotidianamente scaricati con fragore sul guidatore malaccorto, sull’impiegato al ritorno dall’ufficio, sui bambini che fanno boccacce dal lunotto posteriore della vettura familiare, coprendo le autostrade che circondano Los Angeles di frammenti di vetro e di chiazze di sangue.
La polizia, impotente, si limita ad accorrere sul luogo delle sparatorie quando queste si sono già concluse, e ad arrestare sporadicamente qualche aspirante assassino colto sul fatto. Chi si incarica realmente di riportare ordine sono invece i Guardian Angels, l’incrocio di “guerrieri” e “giustizieri della notte” che veglia sulla metropolitana newyorkese, ormai presenti con sezioni locali in tutte le principali città statunitensi. Ma la gang interviene quando ormai il fenomeno è in fase di spontaneo esaurimento. L’estate degli automobilisti omicidi si chiude con un bilancio di due morti e di una trentina di feriti.
Va rilevato il risvolto “sportivo” di questa esplosione collettiva di ferocia, ben leggibile nella tenuta da cacciatore esibita da uno dei rari sparatori catturati: Berretto, giaccone a quadri, stivali modello anfibio, carabina a pallettoni, oltre alla folta barba che spesso, negli Stati Uniti, connota i professionisti dell’arte venatoria. Elementi che richiamano alla mente un nome – Zaroff – e il titolo di un polveroso classico del cinema dell’orrore, The most dangerous game.

– Nella mia ansia di assoluto mi sono chiesto quali fossero le qualità di una preda ideale. La risposta esatta naturalmente era questa: la preda ideale deve avere coraggio, astuzia, ma soprattutto discernimento – .
– Ma non esistono animali capaci di discernimento – obiettò Rainsford.
– Mio caro – scandì il generale – sì che ce n’é uno! –
” . (4)

Allorché due coniugi appassionati di crittografia riescono a decifrare il messaggio allegato da “Zodiac” alla lettera del 1° agosto 1969, l’identità della “preda più pericolosa”, dell’ “animale capace di discernimento”, emerge con delirante evidenza:
“Mi piace uccidere la gente perché è così divertente. E’ ancora più divertente che uccidere selvaggina nella foresta, perché l’uomo è l’animale più pericoloso. Uccidere qualcosa mi dà l’esperienza più elettrizzante” . (5)
In effetti, uno dei crimini rivendicati da Zodiac con la lettera citata – l’assassinio immotivato dei giovani Faraday e Betty Jensen, abbattuti a colpi di pistola presso Vallejo, in località Lake Herman, il 20 dicembre1968 – ha caratteristiche che richiamano alla mente il rituale della caccia. Come avverrà in altre occasioni, Zodiac non uccide subito entrambe le vittime, ma consente a una di esse – Betty Lou – di fuggire per un tratto, lanciandosi poi all’inseguimento e colpendola in corsa (6) . Operazione resa ancor più agevole dall’aver fissato all’arma una piccola lampadina elettrica, irraggiante un cerchio luminoso al cui centro il bersaglio non ha scampo.
Ma il rituale della caccia ritorna anche nel secondo crimine rivendicato da Zodiac: l’assassinio di Darlene Ferrin, consumato presso un campo di golf nei dintorni di Vallejo il 5 luglio 1969. Darlene è in macchina con un amico quando si accorge che una vettura li sta seguendo. Accelera, infila strade laterali, cambia ripetutamente direzione. Tutto è inutile, l’inseguitore non li perde di vista. Infine i due giovani si arrestano in un parcheggio sovrastante il campo di golf, al margine di un gruppo d’alberi. L’altra macchina sosta a sua volta per qualche minuto, poi riparte.
Poco dopo ricompare. Ne scende un individuo massiccio, con un berretto di tipo militare. In mano regge una torcia elettrica e una pistola. Si accosta ai due giovani, che credono si tratti di un poliziotto, e li crivella di colpi. Darlene muore subito, l’amico rimane gravemente ferito. L’individuo massiccio torna alla sua vettura e si allontana (7).

Sunnyvale (California), 16 febbraio 1988. “Sono le 14.30 quando Richard Farley fa irruzione nella sua sede della Es1 Inc. (…) Qualche minuto prima l’uomo ha lasciato il malandato bungalow alla periferia della città californiana, in cui da qualche tempo abita solo. Con il suo camper arriva a poca distanza dalla Es1. Prende il fucile e la carabina che gli serviranno per la strage. (…) L’omicida fa capire ben presto le sue intenzioni: appena varcato l’ingresso della società si mette a sparare all’impazzata contro uscieri e impiegati. (…) Il raid continua al secondo piano, dove decine di persone stanno lavorando ignare della tragedia che si è già consumata a pochi metri dai loro tavoli di lavoro. Fucile a pompa in una mano e doppietta nell’altra, Farley prosegue l’allucinante tiro a segno, questa volta lasciando sul pavimento quattro corpi senza vita. Altre cinque persone restano ferite, anche in maniera grave” (8) .

La caccia. Richard Farley agisce da cacciatore, così come gli assassini dell’autostrada, così come Zodiac. Ma qual è il senso della caccia, quando non sia finalizzata alla sopravvivenza? E’ uno solo, ma duplice: dimostrare la propria abilità (da cui l’esigenza di avere vittime non del tutto sprovviste di capacità difensive) e, al tempo stesso, manifestare la propria superiorità sulla preda, sottomettendola, soggiogandola, facendone quel che più aggrada.
Zodiac, nel messaggio cifrato del 1° agosto ’69, manifesta quest’ultima tensione formulandola in chiave mistica:
“La cosa migliore è che quando morirò rinascerò in paradiso (paradice) e coloro che ho ucciso diventeranno miei schiavi. Non vi dirò il mio nome perché tentereste di fermarmi e di impedirmi di collezionare schiavi per l’oltretomba” (9).
C’é da dubitare che l’assassino creda davvero in ciò che scrive. Il suo sembra piuttosto un modo per intorpidire le acque, per rendere indecifrabile la propria identità nel momento stesso in cui sembra rivelarla. Zodiac ama “giocare” e in ciò, come si vedrà, risiede buona parte della sua sintomatologia psicotica.
Sta di fatto che l’idea della “schiavitù” delle vittime, nell’oltretomba o meno, della loro inferiorità dimostrata dal fatto stesso della cattura e della morte, è connessa ai significati della caccia praticata senza altri fini utilitari se non quello di mettere alla prova le proprie doti di astuzia, abilità e coraggio.
L’impostazione estremista di simile filosofia risalta, anche in questo caso, dalle parole del predecessore letterario e cinematografico di Zodiac, il generale Zaroff:
“Il mondo si suddivide in due categorie: deboli e forti. I deboli sono stati messi al mondo per il piacere dei forti. Io sono un forte. Perché non dovrei utilizzare il mio talento? E poi che caccio in fondo? La feccia! Marinai, avventurieri, negri, cinesi, bianchi, meticci” (10).
La reificazione della preda. E’ questo il fine ultimo della caccia. Fare della preda una cosa, un corpo, che il cacciatore potrà mangiare (se la vittima è un animale), uccidere, allevare, usare come strumento di lavoro o strumento di piacere (11). Qualcosa che procura comunque benessere, gratificazione, senso di potenza (12) . E ciò al termine di una competizione che ha visto cacciatore e preda quasi ad armi pari, o comunque dotati della stessa astuzia, della stessa capacità reattiva.
Naturalmente si tratta di una parità fittizia, allestita a beneficio del cacciatore. La distanza tra quest’ultimo e la vittima è già abissale prima che la caccia cominci. Si tratti di un animale o di un appartenente alla “feccia” cara a Zaroff, la reificazione è già operante prima che la battuta abbia inizio.
Esiste sempre un vantaggio che il cacciatore si prende, materiale (il possesso delle armi) o sociale. Ma non potrebbe esserci caccia se la preda fosse un bersaglio inanimato, o un essere privo di moto. Occorre che il cacciato abbia capacità dinamiche, un’intelligenza almeno embrionale, elementari possibilità difensive. E’ già “cosa”, ma cosa viva, non ancora oggetto. Scopo della caccia è trasformare la “cosa” vagamente raziocinante in oggetto, l’animale in minerale, l’uomo inferiore in animale. O in schiavo, da cui trarre piacere nel paradice.

Ma la caccia può non essere confronto tra due individualità, di cui una reificata o condannata alla reificazione. La storia statunitense dimostra che essa può avere luogo tra etnie, gruppi sociali, comunità – con uno dei due poli maggioritario o economicamente sovraordinato, e comunque dotato del vantaggio iniziale che connota sempre il cacciatore.
Riferisce Sidney Willhelm che era forma di svago, per i coloni bianchi della seconda metà dell’Ottocento, uscire a caccia di pellirosse “come divertimento per rallegrare le domeniche e gli altri giorni festivi”, avendo cura di usare contro i bambini revolver calibro 38 invece che calibro 56, onde non ridurne il corpo a brandelli (13). Altri gruppi etnici, ideologici o sociali sono stati, fino alle epoche recenti, oggetto di battute di caccia collettive improntate a un’allegria altrettanto sinistra, dai neri ai cinesi, dai sindacalisti ai comunisti, dai disoccupati ai vagabondi (14).
Il numero attenua l’ineliminabile senso di colpa che consegue all’abbattimento delle prede. Esso non è tuttavia sufficiente a eliminarlo del tutto. Perché ciò accada, perché ogni remora morale venga meno, occorre che l’essere braccato venga preventivamente reificato, alla luce di un’ideologia, o meglio ancora di una mistica, che provveda essa stessa alla distribuzione delle parti nel gioco crudele che sta per aver luogo. Il tentato sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale ne è solo uno degli esempi.
Una superiorità che è tale per antonomasia (il forte è superiore per autoinvestitura); un’inferiorità che si traduce in colpa qualora il debole si sottragga alle regole prestabilite dal forte, ai ruoli obbligati (il debole è inferiore per investitura). Tradurre in colpa la debolezza dell’inferiore, l’inferiorità del debole, è ciò che annulla il senso di colpa del “forte”. Il tutto in un contesto normativo che il cacciatore stesso ha creato, per suo esclusivo diletto e sollievo, in un delirio di autoriferimento dal quale il punto di vista della preda è rigorosamente escluso.
E’ Zaroff che crea la “feccia”, e ciò al fine di poterla cacciare.

Il riferimento a Zaroff, sotto forma di un coltellaccio di fattura particolare, simile a quello usato dal mostro in The most dangerous game, riappare in un ulteriore delitto di Zodiac, commesso a Lake Berryessa il 27 settembre 1969. Oltre al coltello che gli pende al fianco, Zodiac indossa per l’occasione un ampio cappuccio nero dalla sommità piatta, simile per foggia a un grande sacchetto di carta. Sul petto ha disegnato una croce celtica con vernice arancione.
Due studenti – Cecilia Ann Shepard e Bryan Hartnell – stanno conversando su una stretta penisola che si allunga sul lago. Zodiac scivola tra gli alberi e ne emerge con una pistola in pugno. Spiega di essere evaso da un carcere e intima ai due giovani di consegnargli il portafoglio. Poi costringe la ragazza a legare l’amico e, terminata l’operazione, la lega a sua volta, adagiando i due corpi sul ventre.
A questo punto, pronuncia con voce inespressiva una sola frase: “Dovrò pugnalarvi, gente”. Col lungo coltello trafigge ripetutamente la schiena del giovane, poi, quando lo crede morto, colpisce con eguale furia la ragazza. Dopodiché si allontana senza fretta. Prima di lasciare la scena dell’omicidio (solo il giovane sopravvivrà) incide sulla macchina delle vittime la croce celtica, le date dei delitti di Vallejo e quella dell’ultimo crimine, aggiungendovi la precisazione “col coltello” (15).
La consueta lettera di rivendicazione dell’assassinio giunge diciassette giorni dopo, ma è prevalentemente riferita a un ulteriore delitto di Zodiac: l’uccisione a freddo del taxista Paul Lee Stine, consumata ai margini di un parco di San Francisco l’11 ottobre 1969, in una zona frequentata e davanti agli occhi esterrefatti dei partecipanti a un party.
“E’ Zodiac che parla. Sono l’assassino del taxista tra Washington Street e Maple Street, la notte scorsa, per provarlo qui c’é un brandello insanguinato della sua maglietta. Sono lo stesso uomo che ha fatto fuori la gente a nord della Bay Area (il riferimento è al delitto di Lake Berryessa). La polizia di San Francisco avrebbe potuto catturarmi se avesse setacciato con cura il parco, invece di correre su e giù in motocicletta facendo un sacco di rumore”.
La conclusione del messaggio è grottesca e terrificante a un tempo:
“Gli scolaretti sono un ottimo bersaglio. Penso che prenderò di mira un autobus scolastico, uno di questi giorni. Sparerò sull’autista e ucciderò i bambini man mano che salteranno giù dall’autobus” (16) .
La minaccia di una strage degli innocenti – come anche l’assassinio del taxista – rivela una caratteristica che sembra differenziare Zodiac da altri serial killers come Henry Lee Lucas o Ted Bundy. Nei suoi delitti e nelle sue fantasie crittografiche la componente sessuale non pare a tutta prima evidente. Egli manifesta piuttosto una voluptas necandi allo stato puro, da cui si direbbe tragga la completa soddisfazione dei propri istinti (“uccidere qualcosa mi dà l’esperienza più elettrizzante”). Il fatto è che Zodiac ha completamente erotizzato la propria aggressività (vedremo poi perché), facendo dell’uccidere l’oggetto specifico della libido, senza necessità di ulteriori stimoli.
Ciò rende in fondo il personaggio più inquietante di altre figure di psicotici la cui devianza sessuale è maggiormente evidente: sia perché suo bersaglio può essere veramente chiunque, sia perché la genericità del suo movente – trarre soddisfazione dall’uccidere – incrina il diaframma che separa il “mostro” da altre categorie di persone apparentemente meno malate e considerate rientranti, sia pure di misura, nei limiti elastici della “normalità”.
Più chiaramente, se il connotato identificativo di Zodiac è il piacere che ricava dallo spegnere vite umane, egli non si differenzia qualitativamente dai cowboys che uccidevano per svago domenicale i piccoli pellirosse, o dai tiratori dilettanti delle autostrade californiane. O da altri tipi ancora di assassini senza necessità. Se Scorpio è malato, l’ispettore Callaghan lo è altrettanto.

Il fatto è accaduto a Denver, Colorado. Protagonista un giovane americano che cerca di sfuggire alla caccia della polizia dopo aver compiuto una rapina in banca e aver colpito a morte un poliziotto. (…) Le immagini si susseguono: l’uomo senza nome continua a scappare portando una borsa sotto il braccio, bottino della rapina. Lascia la sua macchina dopo un incidente, ne blocca un’altra e obbliga lo sventurato guidatore a seguirlo nella folle fuga (…) La macchina viene bloccata e circondata da uomini in borghese e in divisa. Esplodono i primi colpi e l’ostaggio viene fatto scendere dalla vettura con il consenso dell’uomo-rapinatore. Meno male, tiriamo un sospiro di sollievo, la caccia è finita. Ma non è così. Il poliziotto con in mano un fucile fredda spietatamente il malcapitato, che si è ripiegato su se stesso, dentro la macchina (…) Esecuzione sommaria. E poi in Colorado non esiste già per legge la pena di morte? Si è trattato unicamente di accelerarne i tempi” (17).

Se qualche riga più sopra ho nominato l’Ispettore Callaghan (Callahan negli Usa), moderno mito statunitense, non è accidentalmente. Girando nel 1971 Dirty Harry (in Italia, Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo), Don Siegel si ispira direttamente ai crimini di Zodiac. La lettera lasciata da Scorpio sul luogo di un delitto, che appare nelle prime immagini del film, è una fedele riproduzione di quelle scritte dal vero assassino ai giornali di San Francisco. Lo svolgimento della storia è però differente (Scorpio appare tra l’altro meno temibile di Zodiac), e tende ad affermare la legittimità, per l’Ispettore, di fare giustizia del “mostro” senza troppe pastoie burocratiche. Esattamente come il suo anonimo collega – reale – del Colorado.
La pellicola mette dunque in scena due cacce parallele: quella dell’Ispettore all’assassino e quella di Scorpio-Zodiac alle sue vittime. Per entrambi la preda non è una persona, ma un corpo; per entrambi scopo della caccia è disporre a piacimento della “selvaggina” catturata. Infine per entrambi, conseguito il successo, valgono le parole pronunciate in tribunale da un famoso mass murderer, Edmund Kemper III: “Era una specie di sensazione di trionfo, come sarebbe per un cacciatore prendere la testa di un cervo, di un alce o di qualcosa del genere. Io ero il cacciatore, loro le mie vittime” (18).
Se l’Ispettore Callaghan, o il poliziotto carnefice di Denver, non sono considerati moralmente alla stregua dei loro avversari, è perché sono assassini sociali. Legittimati, cioè a uccidere dal fatto che la preda è stata socialmente colpevolizzata, e dunque reificata senza appello.
Harry Callaghan, il poliziotto di Denver o Bernard Goetz, il “giustiziere” della metropolitana di New York (19), non sono in fondo che i procuratori, gli agenti di un cacciatore collettivo, rappresentato dalla società nelle sue espressioni culturali dominanti. Essi eseguono una condanna che è già stata socialmente pronunciata, e che consegue a una colpevolizzazione totale del deviante, così tradotto da persona in corpo.
Ma già sappiamo che il processo di colpevolizzazione-reificazione persegue l’effetto di liberare dai sensi di colpa il “cacciatore” – sensi di colpa inestricabilmente connessi a ogni spegnimento di vita. Se ciò avviene in termini relativamente semplici in caso di “partita a due”, il problema è più complesso quando il cacciatore é, in realtà, un’entità collettiva. Occorre, in quel caso, che la colpevolezza della preda sia socialmente percepita come fuori discussione, sia non estensibile ad altri e non rapportabile a cause sociali – che farebbero riemergere nel cacciatore collettivo le remore che intende sopire.
Cause sociali dirette o indirette però esistono nella generalità dei casi. Diviene allora dovere-necessità atrofizzare la capacità percettiva sociale, emarginando le cause esterne alla preda e valutando quest’ultima solo in base ai suoi comportamenti individuali, collocati a forza nella sfera del libero arbitrio. Bisogna cioè, come Zaroff, creare la “feccia” per meglio cacciarla. E la feccia si crea negando una motivazione al suo agire che non sia strettamente personale.

E’ facile avvertire, in questo schema, nitide risonanze dei connotati colti da Weber nell’etica protestante: responsabilità non attenuabile da giustificazioni, perdizione o salvezza già scritte da Dio leggibili nella “sintomatologia” esteriore, connessione causale tra colpa e situazione di svantaggio (20).
La legittimazione del cacciatore e la colpevolizzazione della preda discendono dal radicamento, nella cultura statunitense, di una concezione che cristallizza entrambi nel proprio ruolo, senza curarsi di rilevare le cause sociali delle reciproche posizioni.
La preda è preda perché ha meritato di esserlo, e è anzi nata preda; così come il povero è povero perché lo ha meritato. Etica puritana e etica capitalistica, di cui la cultura statunitense è impregnata, rifiutano congiuntamente nessi causali riferiti alla globalità sociale, ammettendo i quali crollerebbe l’intera weltanschauung gerarchica alla cui luce contemplano l’esistenza umana.
Ma ciò rimanda a un più remoto passato europeo, e per la precisione anglo-tedesco, nel quale, secondo priorità genetiche invertite rispetto all’interpretazione weberiana, l’estendersi del modo di produzione capitalistico impose l’adozione di criteri etici che legittimassero il ricco, il dominatore, il vincente, e nel contempo colpevolizzassero il povero, il subordinato, lo sconfitto, onde eternare con saldi puntelli ideologici la società che stava prendendo forma (21).
E’ in Inghilterra, in Germania, in Svizzera che per la prima volta si condensa quell’humus ideologico-morale, atrocemente semplicistico, che, negando le coazioni esteriori e le determinazioni sociali, esalta il vincitore in quanto tale e condanna il perdente perché è tale – concedendo al primo una disponibilità quasi illimitata sul corpo del secondo, e riservando a quest’ultimo, nella sua veste di forza-lavoro, moderne forme di schiavizzazione. Lo stesso humus che, scioltosi il liquame, attraversa l’oceano, tocca le coste statunitensi, le scavalca con amplificata forza d’urto e penetra capillarmente nella società americana, innescandovi ulteriori semplificazioni morali e culturali che nell’ “era Reagan” avranno la loro apoteosi.
In quel liquame nuota il mass murderer, l’assassino incomprensibile, l’omicida senza causa e senza movente. E vi nuota sia come rozza proiezione di una società violenta che non vuole ascoltare le ragioni delle sue vittime, sia come vittima a sua volta dell’occlusione percettiva di chi rifiuta di interrogarsi sul perché, e aspira solo a seppellire un corpo con il suo carico di interrogativi irrisolti.
In Inghilterra o in Germania quest’uomo – sintesi di ogni devianza, individuale o sociale – si chiamava Jack the Ripper o Mostro di Düsseldorf. Negli Stati Uniti si chiama Zodiac, americano quanto la Statua della Libertà (22).

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2. HELTER SKELTER

Gioventù di Manson, noi siamo gioventù di Manson,
E siamo in libertà…
Ci siamo cancellati dal vostro mondo,
Nulla da spiegare dove nessun senso ha senso.
Siamo i figli di Charlie, non avete difesa…
Nessun luogo dove fuggire, dove battere.
Ricchi porci, preparatevi a morire.
Guardatevi alle spalle, fate meglio a stare in guardia,
Avete un buon motivo per essere terrorizzati.
Siamo la gioventù di Manson, siamo dovunque,
E odiamo tutto ciò in cui credete
“.

Genocide, Manson’s Youth, 1982

Zodiac commette il primo crimine di cui si ha notizia quando è, con tutta probabilità, ancora giovanissimo. Lo si scopre nell’ottobre del 1970, allorché un lettore di Riverside segnala al San Francisco Chronicle che Zodiac potrebbe essere stato l’autore dell’assassinio di una studentessa del luogo, Cheri Jo Bates, commesso il 30 ottobre 1966. La ragazza era stata attesa all’uscita di una biblioteca e quasi decapitata con un coltello.
Le immediate indagini fanno emergere dettagli dimenticati. L’omicidio era stato a suo tempo rivendicato con una lettera in cui l’autore ne svelava i dettagli raccapriccianti, esordendo con le parole “Non è la prima e non sarà l’ultima”. Seguiva un bizzarro invito alla cittadinanza a non lasciar circolare sole sorelle, figlie e madri.
“Io non sono malato”, precisava l’omicida, “Sono pazzo. Ma ciò non arresterà la partita. Questa lettera dovrebbe essere pubblicata perché tutti la leggano. Potrebbe salvare quella ragazza sul viale. Ma questo è affar vostro. Resterà sulla vostra coscienza. Non sulla mia” (23).
Mesi dopo, nella biblioteca dell’Università di Riverside era stata trovata incisa su un tavolo un’allucinante poesiola, in cui qualcuno “stanco di vivere, non desideroso di morire”, preannunciava in termini cruenti un imminente delitto sessuale.
L’odio per la vittima designata – forse seduta a un altro tavolo mentre l’uomo scriveva – era evidente. La calligrafia era la stessa poi conosciuta come quella di Zodiac.
Sembra probabile che, all’epoca dell’uccisione di Cheri Jo, Zodiac fosse un coetaneo della ragazza, forse un compagno di studi. Infatti, nella lettera di rivendicazione, egli sostiene di averla uccisa per punirla dei ripetuti dinieghi da lei ricevuti. Quest’ultimo dettaglio appare però di scarsa credibilità. Convince di più l’ipotesi che Zodiac l’abbia assassinata per “punire” in lei la propria impossibilità a tentare un qualsiasi approccio. Ma tornerò sulla questione.
Sta di fatto che il giovane Zodiac è ancora un omicida sessuale del tipo più tristemente consueto. Parla già dell’assassinio come di un game, ma ancora non è giunto a erotizzare l’atto dell’uccidere fino al punto di scegliere vittime indifferenziate per sesso e per età. A Riverside siamo ancora nella “fase” delle giovani donne, venata dagli spunti moralistici che spesso connotano questo tipo di crimine. La fase successiva è quella dell’ “esecutore” indiscriminato, ebbro della propria onnipotenza e della propria inafferrabilità.

“Posso garantire che per un poliziotto non esiste incubo peggiore di quello di dover trovare un assassino che uccide per pura sete di sangue. E’ un tipo completamente diverso dell’omicida che uccide una sola volta. Questo è ossessionato e terrorizzato dall’atto commesso, mentre il primo, al contrario, a ogni nuovo delitto diventa più audace, più sicuro di sé, più astuto. Egli, diversamente dagli altri assassini, non vede in sé uno strumento di fatalità, ma si considera un arbitro del destino e uno sterminatore di diritto. Finché è in libertà, nessuno può sentirsi sicuro” (24).
Sono parole di Mattias Eynck, capo della squadra omicidi di Düsseldorf nel 1956 e autore della cattura di uno dei vari “mostri” che, in epoche diverse, hanno insanguinato quella città. La sua diagnosi trova in Zodiac una verifica esemplare. Nei primi mesi del 1970 la sfrenata sensazione di invulnerabilità del serial killer di San Francisco si dilata a dismisura, trovando espressione in una fitta sequela di messaggi inviati ai quotidiani locali e a singole autorità.
In uno di essi Zodiac comunica il proprio nome in lettere cifrate (ma la decifrazione del codice fornirà il nominativo di un redattore del Chronicle, Herb Caen); in un altro compone una sfilza di macabre strofette, da cantarsi sul leit motiv di una commedia musicale di successo; in altri ancora sfida la polizia, rivendica nuovi crimini (alcuni dei quali sicuramente commessi da altri), si produce in scherzi grotteschi, divaga insensatamente.
Il linguaggio impiegato è talora gergale, talaltra discretamente ricercato. Frequenti sono le scorrettezze ortografiche, di cui la più reiterata è la deformazione di paradise in paradice. Gli inquirenti congetturarono in merito che si tratti del riflesso grafico di una particolare pronuncia, e vagliano le diverse cadenze dialettali per determinare la provenienza geografica di Zodiac.
Azzarderei un’altra spiegazione, alla luce della propensione dell’assassino per i giochi di parole e della sua necrofilia. Dice, dadi, ha per singolare die, che significa “dado” ma anche “morire”. Sostituendo dise con dice, Zodiac intende forse introdurre nel proprio “paradiso” un riferimento alla morte. Paradice, paradiso di morte. Sarebbe in linea con il suo carattere.
L’espressione ritorna in una cartolina augurale inviata il 27 ottobre 1970, incrociata con la parola slaves e attorniata dalla frasi by fire, by knife, by gun, by rope. La cartolina, contrassegnata da una croce celtica, da una Z e da un disegno indecifrabile, raffigura uno scheletro ridente che augura “Happy Halloween” (25).

Notte di fuoco, in senso letterale a Detroit, dove sei famiglie sono rimaste senza casa per gli incendi appiccati nella baldoria incendiaria che, come d’abitudine, esplode nella ‘notte del diavolo’, quella che precede Halloween. (…) Da decenni la notte che precede Halloween viene chiamata e celebrata a Detroit come la ‘notte del diavolo’, ma fino al 1980 le ‘diavolerie’ erano rimaste piuttosto inoffensive: suonate alle porte con successiva fuga, finestre imbrattate e così via. Poi, nell’ ’80, i primi fuochi. La mania incendiaria prese però veramente piede solo nell’ ’83 quando, solo nella ‘notte del diavolo’, furono appiccati 650 fuochi” (26).

Una sinistra vena goliardica sembra connotare sempre più il comportamento di Zodiac, via via che i mesi passano senza che la polizia riesca a catturarlo. Il tono delle sue missive è di volta in volta sarcastico (“Mi sento terribilmente solo quando vengo ignorato. Tanto solo che potrei fare la mia Cosa!!!”), piagnucoloso (“Vi chiedo questo, aiutatemi per favore. Non posso cercare aiuto perché la cosa che è in me non mi lascerà!”), capriccioso (“Mi piacerebbe vedere in giro per la città qualche bel distintivo di Zodiac… Mi lusingherebbe considerevolmente se vedessi un sacco di gente che porta il mio distintivo”).Si rarefanno, invece, le rivendicazioni dei crimini commessi (l’ultima è quella relativa all’aggressione, avvenuta il 22 marzo 1970, a una donna incinta e a una bambina di pochi mesi, sfuggite fortunosamente all’omicida) (27). Del resto, fin dal novembre 1969 Zodiac aveva preannunciato l’adozione di una diversa linea di condotta: “Sono piuttosto arrabbiato con la polizia per le menzogne che dice su di me. Così cambierò la mia maniera di collezionare schiavi. Non farò più annunci a nessuno. Quando commetterò i miei omicidi, sembreranno normali rapine, uccisioni dovute a collera, falsi incidenti, ecc. La polizia non mi prenderà mai, perché sono troppo intelligente per lei” (28). In effetti da allora in poi, salvo rare eccezioni, Zodiac limita le proprie comunicazioni ai messaggi burleschi, indicando però sempre, a fondo pagina, il numero degli omicidi che sostiene di aver commesso fino a quel momento. Nell’ultima comunicazione di questo tipo, giunta ai giornali il 30 gennaio 1974, la cifra è di 37. Impossibile dire se si tratti di un’esagerazione o di un dato affidabile. Il numero dei serial killers in circolazione in quel periodo è così elevato che risulta difficile attribuire il singolo crimine all’uno o all’altro. E anche i messaggi di Zodiac cessano di costituire un indizio sicuro allorché l’ispettore di polizia che indaga sul caso, David Toschi, viene accusato di essere l’autore di uno di essi, a fini di autoincensamento. E così Zodiac si dissolve. Ma non nel nulla. Egli evapora nella folla dei mass murderers, dallo “Strangolatore di Hillside”, al “Figlio di Sam”, al “Vampiro di Sacramento”, mentre un poliziotto gli contende l’identità (confermando la sostanziale similitudine tra Callaghan e Scorpio) e gruppi di giovani animano la notte di Halloween incendiando abitazioni scelte a caso. Scompare, cioè, soverchiato da uno Zodiac collettivo che dilata la propri ombra su un’intera società.

Ma è giunto il momento di interrogarsi sulla personalità di Zodiac, sulla natura della sua peculiare psicosi e sulle cause di quest’ultima. Abbozzare una biografia del “mostro” è meno difficile di quanto si possa pensare, anche in assenza di qualsiasi dato anagrafico. Il percorso che conduce alla sociopatia, se si rinuncia alle semplificazioni imbecilli cui ci sta abituando l’odierna psichiatria “biologica”, segue infatti binari abbastanza rigidi (29).
All’origine c’é la famiglia (30) . Una madre invadente e un padre assente, oppure un clima generale di violenza, disamore ed estraneità, attivano nel bambino che un giorno chiamerà se stesso “Zodiac” spontanei meccanismi di difesa, destinati nel suo caso a sfuggire a ogni controllo. Fin dai primi anni di vita egli, vittima e non ancora carnefice, apprende a temere il prossimo e a tentare di evitarne le aggressioni fisiche e psicologiche, limitando il più possibile i contatti con l’ “altro”.
E’ un bambino chiuso, diffidente in forma esasperata, propenso a isolarsi, dominato da un costante desiderio di non farsi notare. La famiglia gli ha insegnato che qualsiasi abbassamento di guardia può significare una violenza fatta al suo corpo o, soprattutto, ai suoi pensieri, alla sua individualità. Meglio la solitudine, meglio la mancanza di comunicazione: solo nel più radicale isolamento egli riesce a trovare la propria libertà e un lenimento alle sofferenze che gli sono inflitte.
Perché Zodiac soffre. Non solo per i tentativi di “rubargli i pensieri” cui si sente sottoposto, ma anche perché coltiva al proprio interno una carica di affettività che è impotente a esternare. Ciò causa in lui un accumulo di aggressività. Quando guarda i coetanei dedicarsi a giochi di gruppo cui è impossibilitato a partecipare, i suoi occhi sono pieni di rancore, di invidia, di frustrazione.
Fin qui, la patologia è ancora di là da venire. Il bambino ha semplicemente maturato una “personalità schizoide”, incrinata e tuttavia suscettibile di ogni evoluzione, incluse quelle positive (31). Ma la violenza (ripeto, anche solo morale) subita dal piccolo Zodiac dev’essere ben grande, se gli spontanei meccanismi di difesa che agiscono in lui divengono rapidamente meccanismi impazziti, fonti essi stessi di sofferenza.
Alle soglie della pubertà Zodiac è già un borderline, pericolosamente affacciato sull’abisso della schizofrenia. Forse una situazione traumatica che si protrae nel tempo, forse la semplice perpetuazione delle condizioni familiari e sociali all’origine delle sue turbe, fanno sì che egli compia il passo successivo. Per quanto le apparenze esteriori della normalità si incrinino appena, dentro Zodiac si spalanca uno spaventoso vuoto emozionale che recide anche gli ultimi legami col mondo esterno – e ciò proprio nell’età puberale, quando la spinta alla socialità si manifesta con maggior vigore. In quel vuoto i riflessi di ciò che sta fuori giungono alterati, reinterpretati, deformati come da uno specchio ondulato.
Barlumi di rancore per ciò che avrebbe voluto e non ha potuto ottenere, ma che nemmeno può più identificare, si succedono a eccessi di odio e di cosmica paura – il tutto sovrastato da un sentimento di onnipotenza che è il portato diretto dell’autarchia prima carezzata, poi subita, e ora semplicemente vissuta. Ma anche la percezione che Zodiac ha di se stesso ha ormai sfumato i suoi contorni, essendo il processo di individuazione un processo sociale (32).
Ne risulta una creatura pietrificata in un’angoscia inimmaginabile, la cui intelligenza non è compromessa (anzi, è forse acuita), ma i cui rapporti col mondo sono sistematicamente distorti. L’impossibilità di sfogare all’esterno gli impulsi emotivi traduce questi ultimi in altrettanti impulsi aggressivi, che altro non sono che un triste succedaneo dei primi. Così la spontanea attrazione per l’altro sesso viene filtrata, in Zodiac adolescente, dall’impotenza a comunicarla, e convertita nella tendenza all’aggressione. Ciò anche perché egli interpreta distortamente la propria paralisi emotiva come una negazione oppostagli dall’oggetto del desiderio, e questo suscita in lui una volontà di vendetta scambiata per rudimentale giustizia.
L’assassinio di Cheri Jo Bates – se è davvero il primo di Zodiac – schiude a questo “strano” giovane la via a insospettate consolazioni. Poiché in lui l’atto dell’aggredire è un sostituto del contatto, poiché l’impulso aggressivo è un surrogato del sentimento, egli ricava dall’omicidio, per la prima volta nella sua vita, lo stesso senso di gratificazione che ad altri darebbe l’avere contatti emotivi e il manifestare i propri sentimenti. Zodiac scopre in tal modo che può anch’egli comunicare, ma solo aggredendo; che, creatura pietrificata, può anch’egli avere rapporti emozionali, ma solo con esseri pietrificati quanto lui nel rigor mortis. Senza contare la soddisfazione supplementare di sentirsi inafferrabile, imprendibile, invisibile, come ha sempre aspirato a essere per eludere l ‘ “altro” che tanto teme.
Il percorso del sociopatico è da questo momento tracciato. Uccidere è per lui un sostituto dell’eros, o, per meglio dire, una sua diretta espressione. Presto l’oggetto del suo erotismo si fa aspecifico: vittime non sono più solo giovani donne, ma persone di ogni sesso ed età, conformemente al bisogno di Zodiac di poter comunicare con chiunque e alla sua impossibilità di poter comunicare con chicchessia, se vivo.
Allorché in Zodiac la necessità di esprimersi diviene impellente, sia perché la solitudine si fa intollerabile, sia per l’esigenza di affermare la propria superiorità, il messaggio dev’essere il meno diretto possibile. Di qui l’adozione di astrusi codici simbolici, di labirintici sistemi di crittografia al cui centro sta il riverbero di un’identità intricata, o percepita come tale. Pagine e pagine di segni bizzarri in cui una chiave interpretativa rinvia a un’altra, ore di lavoro per allontanare il più possibile l’ipotesi stessa di un contatto diretto, sia pure affidato alla parola scritta.
Nella crittografia adottata da Zodiac è riflessa tutta la tormentata biografia dello schizofrenico, la cui sintesi è affidata al simbolo di cui sono fregiate le missive. Come scopre un collaboratore del Chronicle, divenuto poi il biografo del “mostro”, i delitti di questi ricorrono in momenti astrali determinati, la cui raffigurazione zodiacale forma una croce celtica (33). Ancora un messaggio a distanza di un uomo morto dentro, che un’angoscia inenarrabile condanna a circondarsi di cose morte. Le uniche cui possa parlare.

Dicevo che all’origine di tutto è la famiglia. In essa fioriscono i germi delle patologie psichiche che, come quella descritta, si radicano fin dalla prima infanzia, allorché il bambino reagisce come può alle invasioni e alle aggressioni cui la sua personalità è sottoposta. Di conseguenza, il problema del numero esorbitante degli “omicidi senza scopo” che si verificano negli Stati Uniti – fino a poco tempo fa largamente eccedente quello degli episodi analoghi registrati in qualsiasi altro paese – rinvia a un altro problema, e cioè quello del numero altissimo di famiglie statunitensi tanto intimamente malate da generare una gamma di “mostri” di cui l’assassinio sociopatico rappresenta solo l’esempio estremo.
Ma nemmeno questa riformulazione del tema risulta pienamente soddisfacente. Infatti la famiglia, contrariamente a quanto riteneva la scuola psicoanalitica classica, non è mai una monade esaminabile isolatamente. Essa è “determinata dalla classe e dalle strutture sociali”, costituendo “un ‘agente della società’ la cui funzione è di trasmettere il carattere della società al neonato prima che questi abbia neppure un contatto diretto con la società stessa. Questo è frutto dell’allevamento e dell’educazione dei primi anni oltre che del carattere dei genitori che è di per sé prodotto sociale” (34).
E’ dunque alla società, e alla maniera in cui modella ai propri fini l’istituto familiare, che occorre volgere lo sguardo per cercare i fattori patogeni all’origine della proliferazione dei serial killers.
Sappiamo che l’affezione di cui questi ultimi sono l’espressione estrema – la schizofrenia in tutte le sue varianti, e in particolare quella paranoide – è, nella più tipica delle sue varie genesi, il portato di una situazione familiare in cui la figura materna deborda e prevarica con un accesso di affetto o con un eccesso di freddezza, mentre la figura paterna è distante ed evanescente (35). Ebbene, proprio questo è il connotato da tempo individuato come centrale nella configurazione della famiglia americana – connotato che nella giornata del Mother’s day trova la propria celebrazione, il proprio “triste monumento” (36).
L’ “evanescenza” paterna deve però essere assai pronunciata perché l’impostazione matriarcale del nucleo familiare produca nei figli devastazioni gravi quanto la psicosi. Essa deve cioè configurarsi quale assenza o abbandono veri e propri, oppure quale drastica contrazione della funzione paterna, nata col costituirsi della famiglia borghese, di introduzione alle forme che l’autorità assume nel sociale, o, in altri termini, di prefigurazione in ambito domestico della struttura gerarchica che informa la società circostante (37) .
Entrambe le condizioni si verificano nel contesto statunitense. “Più di ogni altro paese, l’America esemplifica le tendenze del ‘pieno capitalismo’, nel senso che vi è il maggior numero di uomini e donne soli, o divorziati, di donne che crescono i figli da sole” (38) , mentre il numero di coppie separate è stato “limitato soltanto dalla dimensione totale della popolazione adulta” (39) .
James O’Connor, autore delle frasi citate, spiega il fenomeno con l’aumento dei costi di riproduzione della forza-lavoro tipico del “pieno capitalismo” e col tradizionale individualismo americano giunto alla sua espressione più parossistica. La spiegazione sembra però necessitare di integrazioni.
Una società di “pieno capitalismo” è anzitutto una società dominata dalla cultura dell’ipercompetitività, a sua volta fondata sulle norme già viste dell’addestramento alla caccia, della glorificazione del vincitore, dell’annientamento anche morale del perdente. In una società del genere chi intenda conquistare posizione e privilegio deve inserirsi negli spietati meccanismi selettivi allestiti dal sistema, battersi contro sempre nuovi rivali, difendere a ogni istante ciò che ha faticosamente strappato, dedicare al gioco crudele del successo ogni propria energia.
Per chi scelga di far propria questa logorante condizione esistenziale la famiglia finisce con l’essere un peso, un fardello di irrazionalità in un terreno di gara che richiede tutte le risorse della propria ragione per continuare ad avanzare, per carpire qualcosa agli altri e impedire che altri sottraggano quanto già guadagnato.
In questo feroce rollerball, nel quale che è più libero da legami gode di un vantaggio sugli avversari, è inevitabile che nei confronti della famiglia si instauri un clima di anaffettività che può culminare nel distacco, ma che può anche comportare un rapporto fuggevole e distratto coi congiunti, che i più deboli fra questi – i bambini – avvertono benissimo e soffrono a fondo.
Ciò vale per entrambi i genitori, ma soprattutto per il padre; sia perché la madre tende naturalmente a mantenere coi figli un rapporto più intimo e protettivo (40)(o almeno tendeva, visto che, come si dirà tra poco, il neoliberismo le sta strappando anche quest’ultima prerogativa), sia perché una società orientata alla guerra interindividuale pone all’uomo le richieste più pressanti.
Ma il padre è anche colui che più duramente sconta, nei confronti del figlio, fallimenti e sconfitte. Nella famiglia borghese tradizionale egli “rappresenta la legge e l’ordine stabilito dall’uomo, le norme sociali e i doveri, ed è l’unico che punisce e ricompensa” (41). Il figlio deve “cercare instancabilmente di ottenerne la soddisfazione” e contrassegnarlo come “forte e potente” quali che siano le sue effettive qualità (42), apprendendo per suo tramite il rapporto sociale di autorità. Ma nella società di “pieno capitalismo” la figura maschile ideale viene proposta non dall’interno di una famiglia irrimediabilmente in crisi, bensì dall’esterno, e risponde al modello dell’uomo di successo imposto socialmente dalla cultura dell’ipercompetitività.
E’ di per sé un padre mutilo delle sue più classiche funzioni regolatrici, quello con cui il bambino deve ora confrontarsi; e se poi questo padre non ha retto allo sforzo del combattimento sociale, non ha conquistato una posizione brillante, non ha dimostrato di avere la vocazione e l’energia del conquistatore, il figlio è immediatamente indotto a paragonarlo col modello arrogante e aggressivo che il “pieno capitalismo” gli propone, e a vederlo circondato da quell’alone di disprezzo che la società ipercompetitiva riserva al vinto.
Una famiglia così ridisegnata è in sé schizogena; ma essa stessa è il prodotto di un contesto sociale permeato dai connotati schizoidi della freddezza, della chiusura in se stessi, della reciproca ostilità e diffidenza, presentati non come patologie ma come valori.
A ciò si deve aggiungere la vera e propria guerra che il neoliberismo sta combattendo contro la maternità, in ogni parte del mondo. All’assenza paterna potrebbe infatti sopperire l’affettuosità materna, come lenimento alle sofferenze del bambino. Il taglio delle spese sociali, la costrizione al lavoro della partoriente subito prima e subito dopo la nascita del figlio (negli USA le donne lavoratrici hanno diritto a due sole settimane di congedo!), l’indifferenza della comunità – quando una comunità ancora esiste – condannano la madre povera e sola a fornire al bambino un’assistenza, materiale ed emotiva, assoluta-mente inadeguata.
In un ambito del genere, l’apparizione di Zodiac non è per nulla un caso.

L’identità di Zodiac è stata infine individuata con notevole grado di sicurezza. L’ha scoperta un giornalista, il menzionato Robert Graysmith, passando al vaglio un gruppo di indiziati. Uno di questi – un commesso di negozio di Vallejo, cacciatore e appassionato d’armi, figlio di una donna abbandonata dal marito e da allora divenuta ostile a tutti gli uomini – era stato arrestato nel 1975 per molestie sessuali a bambini e rilasciato nel 1978 (in quel periodo non era pervenuto alcun messaggio di Zodiac).
Egli aveva direttamente confessato al fratello di essere Zodiac; era stato visto dalla sorella mentre componeva messaggi cifrati diretti ai giornali; fin dal 1966 aveva preannunciato ai cugini, suoi compagni di battute, che un giorno avrebbe cacciato l’uomo – “la preda più pericolosa”, secondo le sue stesse parole – col nome di Zodiac (43). Malgrado la gravità degli indizi era stato lasciato in libertà, sia perché i testimoni a suo carico erano dei congiunti, sia perché le polizie dei vari distretti non erano venute a conoscenza dei risultati delle rispettive indagini – per cui dettagli decisivi, come il fatto che il sospettato avesse studiato a Riverside all’epoca dell’omicidio di Cheri Jo Bates, erano stati trascurati.
Oggi quell’uomo con tutta probabilità non è più in condizione di nuocere. Del resto, gli omicidi firmati Zodiac sono cessati da un pezzo. Ma centinaia di serial killers altrettanto pericolosi sono nel frattempo apparsi non solo negli Stati Uniti (44), ma anche in paesi che ne avevano avuto esperienza scarsa e sporadica, tra cui l’Italia. Non a caso: l’etica protestante è stata imposta dovunque nelle forme della pensée unique, l’ipercompetitività è divenuta più dogma che regola, la funzione materna è insidiata ovunque, il disprezzo per il perdente e il diritto del cacciatore sono ormai condivisi sotto ogni latitudine.
L’America ha vinto la propria battaglia e ha rimodellato il mondo a sua immagine e somiglianza, facendone un paradiso.
Anzi, un paradice.

1) V. Zucconi, Si fa presto a dire America, Milano, 1989, p. 180.
2) R. Graysmith, Zodiac, New York, 1987, pp. 48-49.(^)
3) Il fenomeno ebbe, all’epoca, ampio rilievo sulla stampa di tutto il mondo. Baso le mie note sui numerosi servizi televisivi dedicati all’argomento dall’emittente statunitense CNN.
4) R. Connell, Lo sport più pericoloso, in “Frankenstein & Company”, a cura di O. Volta, Milano, 1965, p. 609. Sui significati psicologici della pellicola tratta dal racconto di Connell – in Italia La pericolosa partita (1932), di E. B. Schoedsack – cfr. M. Caen, The whole pleasure is mine…, in “Midi-minuit Fantastique”, 1965, n. 6.
5) R. Graysmith, op. cit., pp. 54-55. L’uso dell’espressione The most dangerous animal indusse gli investigatori a indagare tra i cinefili, potenzialmente al corrente dell’esistenza di un film intitolato The most dangerous game.
6) Ivi, pp. 6-7.
7) Ivi, pp. 25-28.
8) Molestava le colleghe. Licenziato, fa una strage, in “La Repubblica”, 18 febbraio 1988.
9) R. Graysmith, op. cit., p. 55.
10) R. Connell, op. cit., p. 609.
11) Cfr. le acute considerazioni sul sadismo svolte da E. Fromm. Psicoanalisi dell’amore, Roma, 1988, pp. 42-43; Id., Fuga dalla libertà, Milano, 1987, pp. 132 ss.
12) E’ ben nota la credenza di talune popolazioni cannibali di poter acquisire le virtù dei nemici uccisi e divorati, sommandole alle proprie. Cfr. S. Freud, Totem e tabù, Roma, 1976, p. 93.
13) S. M. Willhelm, Uomo rosso, uomo nero, bianca America, Milano, 1971, pp. 21-22.(^)
14) Un esempio significativo di caccia al sindacalista da parte di un’intera comunità – il linciaggio di Wesley Everest, avvenuto a Centralia l’11 novembre 1919 – è descritto in P. Renshaw, Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Uniti, Bari, 1970, pp. 176-177; E. Gurley Flynn, La ribelle, vol. II, Milano, 1976, pp. 265-269; W. D. Haywood, La storia di Big Bill, Milano, 1977, cap. XXIII. Un’efficace testimonianza diretta sul trattamento riservato negli Stati Uniti, a cavallo del secolo, a vagabondi e disoccupati è in J. London, Les vagabonds du rail, Paris, 1973, specie pp. 123 ss.
15) R. Graysmith, op. cit., pp. 62-72.
16) Ivi, p. 102.
17) M. Galvani, Una TV di Denver filma l’ “esecuzione” di un rapinatore, in “Il Manifesto”, 11 febbraio 1988.
18) R. Graysmith, op. cit., p. 260. Edmund Emil Kemper uccise da ragazzo i nonni, proseguì da adulto assassinando sei persone e terminò con l’omicidio della madre.
19) Sulla vicenda di Bernard Goetz cfr. L. B. Rubin, Il giustiziere del metrò, Milano, 1987. Il libro è anteriore alla conclusione del processo Goetz, che ha visto l’assoluzione del “giustiziere”.
20) Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, 1970, specie alle pp. 172-174; 200-201; 208-209.
21) Cfr., quale esempio di fruttuoso rovesciamento della prospettiva weberiana, G. P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, Milano, 1979, pp. 172-177.
22) Non sono mancati, ovviamente, esempi di serial killers operanti in paesi con tradizione culturale diversa da quella capitalistico-protestante (si pensi, per l’Italia, a Girolimoni, alla Cianciulli, al “mostro di Firenze”). La frequenza con cui l’omicidio seriale si manifestava nei paesi latini era però, fino a qualche anno fa, decisamente inferiore a quella rilevabile nel mondo anglosassone o in quello germanico. Si consideri, tra l’altro, che non esistono in italiano, francese o spagnolo termini che traducano con efficacia le espressioni inglesi serial killer o mass murderer. O l’equivalente tedesco massenmörderer, che in una vecchia collana di romanzetti popolari fu tradotto, in mancanza di meglio, con un bizzarro “distruttore di masse” (cfr. Monk Eastman, distruttore di masse, in “Petrosino, il grande poliziotto italo-americano”, Firenze, 1934, n. 2).
23) R. Graysmith, op. cit., p. 169.
24)M. Eynck, Omicida per moralità, in M. Singer, “Crime omnibus. Delitti e delinquenti”, Milano, 1962, p. 339.
25) Cfr. R. Graysmith, op. cit., pp. 158-160 (e le illustrazioni che corredano il volume).
26) Centinaia di incendi a Detroit, in “Il Manifesto”, 1 novembre 1989.
27) Cfr. R. Graysmith, op. cit., pp. 134-141; per la rivendicazione cfr. p. 152.
28) Ivi, p. 122.
29) Baso le considerazioni che seguono, salvo esplicite indicazioni contrarie, su B. Caldironi Seminari di psicopatologia e psicoterapia, Ravenna, 1993, parte II, cap. IV, nonché sulla vastissima letteratura psicologica e psicoanalitica che ha trattato il tema (in particolare Kernberg, Searls, Resnik). Se l’impianto metodologico è desunto da quelle fonti, le conclusioni sono ovviamente mie.
30) Non è certo un caso se oggi, in Italia, le associazioni di familiari di pazienti schizofrenici e autistici sono ferventi sostenitrici dell’ipotesi di un’origine genetica della malattia mentale. Si tratta di vincere un senso di colpa, ahimé, ineliminabile (e di liberarsi del proprio fardello rivendicando il ritorno alla psichiatria coercitiva). Sulle stesse linee si muove l’ultraconservatrice Organizzazione Mondiale della Sanità.
31) Cfr. F. Riemann, Grundformen der Angst, München-Basel, 1985, cap. I, “Die schizoiden Persö-nalichkeiten”.
32) Cfr. G. Jervis, Manuale critico di psichiatria, Milano, 1987, pp. 335-336.
33) Cfr. R. Graysmith, op. cit., pp. 248-252.
34) E. Fromm, Grandezza e limiti del pensiero di Freud, Milano, 1985, p. 90.
35) Cfr. H. F. Searles, Scritti sulla schizofrenia, Torino, 1989, specie capp. I e VII.
36) Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, Lezioni di sociologia, a cura di M.Horkheimer e T.W.Adorno, Torino, 1966, p. 158.
37) Cfr. W. Reich, La rivoluzione sessuale, Roma, 1992, pp. 146 ss.
38) J. O’ Connor, Individualismo e crisi dell’accumulazione, Bari, 1986, p. 230.
39) Ivi, p. 229.
40) Cfr. E. Fromm, Psicoanalisi dell’amore, cit., p. 135.
41) Ivi, p. 136.
42) Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, op. cit., p. 154.
43) Cfr. R. Graysmith, op. cit., capp. XVII, XVIII, XIX.
44) Tra cui altri due Zodiac, entrambi operanti a New York. Uno di essi è stato catturato nel giugno 1996.