A VOLTE RITORNANO

di Danilo Arona

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Cristiano Serici era ventenne quando morì in un tragico e spettacolare incidente motociclistico che a Bassavilla qualcuno ricorda ancora con raccapriccio. Era la fine degli anni Sessanta, insomma quel periodo lì, e Cristiano guardava il futuro con la certezza che la sua sarebbe stata una vita importante. Invece morì. All’improvviso e stupidamente, sbalzato dal sellino posteriore di una moto lanciata ad alta velocità in pieno centro. Morì mentre amava la sua ragazza, i genitori, gli amici e i giubbotti di pelle. E soprattutto la sua casa.
Cristiano fu sepolto molto lontano, al sud, dove andavano a riposare per sempre i membri della famiglia. Casa sua, nel centro storico, venne data in affitto. Per oltre vent’anni, sino al 1993, vi transitarono altrettanti affittuari, una media oltre ogni statistica. La famiglia con cui mi capitò d’interloquire in quell’anno era composta da padre, madre e due figli, un maschio e una femmina sui vent’anni. Si trattava della famiglia che viveva nella casa di Cristiano.

I genitori svolgevano un’attività commerciale, i figli studiavano. Mi raccontarono che, dopo qualche settimana dall’insediamento, il ragazzo stava facendo la doccia e, oltre il vetro annebbiato dall’umidità, aveva scorto una figura umana sulla panca appoggiata alla parete.
“Accidenti”, pensò, “i miei devono avere lasciato aperta la porta d’ingresso e forse è entrato un vagabondo”. Tanto per intenderci, il giovane era un marcantonio di un metro e ottanta, più incline a intimidire che a farsi spaventare. Così fece scorrere il ripiano di vetro e, tra i fumi del vapore, vide un altro ragazzo più o meno della sua età, vestito con un giubbotto di pelle e dallo sguardo triste. Stava per chiedergli spiegazioni, ma quello lo precedette dicendogli con voce roca e tono mite: “Non avere paura. Io una volta abitavo qui. Amo questo posto. Mi permetterai ogni tanto di tornarci?”
Senza un motivo logico il giovanotto uscito dalla doccia si sentì rizzare i capelli in testa per la paura. Si voltò allora per afferrare un accappatoio, perché nel frattempo si era reso conto di starsene nudo davanti a uno sconosciuto. Ma, quando tornò con gli occhi alla panca, la vide vuota. Percorse il corridoio, supponendo che il tipo si stava dirigendo verso l’uscio che aveva poco prima di certo imboccato per entrare in casa. Ma non trovò nessuno e la sorpresa degenerò in panico quando verificò che la porta di casa era stata chiusa dall’esterno dall’ultima persona uscita.
Cominciò allora, frastornato tanto dall’ira che dall’incredulità, a ispezionare la casa, un grande alloggio di cinque o sei camere in cui poteva risultare facile nascondersi. La casa però appariva deserta e in ordine. Solo nella stanza della sorella c’era uno strano particolare al quale lui non diede sul momento eccessiva importanza: faceva freddo, troppo freddo per essere giugno. Ma forse la causa stava nella circostanza della scarsa esposizione di quella camera al sole.
Il ragazzo si vestì in fretta e furia e raggiunse in negozio la madre. Costei, che l’aveva visto arrivare pallido come un cencio, dopo avere ascoltato il suo racconto, decise di concretizzare un’idea che le era venuta sin dal primo giorno che aveva messo piede nella casa. All’indomani si recò durante la pausa pranzo dalla vicina che viveva sotto di lei, al secondo piano, una signora poco più che trentenne che aveva abitato nella casa di Cristiano sino all’anno prima, decidendo di traslocare al secondo piano non appena se ne era presentata l’occasione. A questa la commerciante chiese senza preamboli se mai aveva notato qualcosa di strano durante la sua permanenza al terzo piano. La coinquilina dapprima nicchiò, ma poi si lasciò scappare: “Noi no, ma mia figlia ci diceva sempre del suo amico invisibile che la andava a trovare in camera da letto, quella dove non batte mai il sole. Io accostavo l’orecchio e la sentivo parlare. A me non l’ha mai voluto dire. E non l’ha detto nemmeno alla psicologa da cui l’ho portata un sacco di volte, ma ho sentito che lo chiamava Cristiano.”
Una sorta di luce si accese nel cervello della donna che abitava al terzo piano, un groviglio di dati e notizie che giaceva sepolto nell’inconscio, forse un tragico riferimento a eventi di tanti anni prima. Lo stesso pomeriggio, dal negozio lei telefonò all’agenzia dalla quale aveva preso l’alloggio in affitto e chiese: “A chi appartiene la casa, per favore?”
Una pausa all’altro capo e un uomo che le disse con uno strano tono che intendeva essere rassicurante, ma che suonava persino rassegnato: “Perché vuol saperlo, signora?”
Lei insistette. In quella casa si sentivano tutti un po’ a disagio, disse, e i suoi figli vedevano cose.
Così l’uomo, che alla firma del contratto si era dimostrato chiuso e taciturno, si lasciò andare a un fiume di parole, una piena straripante per nulla incastonata dalla cosiddetta “logica stringente”:
“Massì, avrei dovuto parlarne io per primo. In quella casa nessuno si è fermato più di tanto. Prima o poi la gente se ne accorge. Sissignora, credo di capire che mi vuole chiedere. Ha ragione, io non le ho affittato solo una casa. Lì c’è un valore aggiunto che non riuscirei mai a definire. Mi paghi pure l’affitto quando lo desidera. Anche ogni tre mesi, se si ritiene danneggiata. Io che ci posso fare? I padroni si chiamano Serici e si sono trasferiti in Campania dalla morte del figlio. Io non li sento mai. Forse ricorderei loro questa città e una parte della loro vita che oggi reputano insopportabile.”
Quando depose il telefono la donna ricordò l’incidente, le sue modalità cruente. Rammentò persino il viso strano e corrucciato di quel ragazzo la cui foto era apparsa sui giornali.
“Possibile? Possibile che sia lui?”
Quella signora ci credeva un po’ nei fantasmi. Era una di quelle persone le cui antenne si sintonizzavano con più facilità su quegli eventi che, per comodità di definizione, battezziamo “misteri”. Per qualcuno era una medium. E forse parte delle sue facoltà si erano trasmesse per via naturale ai figli.
Per un paio di settimane non successe più nulla. Poi un giorno arrivò un divano che la famiglia non sapeva dove piazzare. La figlia propose di metterlo nella sua camera da letto. Così avvenne.
La prima notte con quel divano vicino fu per la ragazza un susseguirsi di incubi. Sogni che le procuravano angoscia, terrore allo stato puro. Al risveglio non li ricordò. Sapeva solo che raffiguravano il volto della paura. La madre era entrata ed era andata a tirare su le tapparelle.
“Ti sei agitata stranotte. Sentivo che ti lamentavi. Hai fatto brutti sogni?”, le chiese, sedendosi sulla sponda del letto.
“Sì”, rispose la figlia. “Ma non ricordo nulla. So solo che…”
Ma s’interruppe con la bocca semiaperta e negli occhi un’espressione che raggelava, lo sguardo fisso sul divano letto posto sotto una finestra. Guardò anche la madre. Pure lei restò sconvolta. Sul quel divano, inequivocabile, appariva ben visibile l’impronta di un corpo umano rannicchiato in posizione fetale. I due cuscini che la sera prima si trovavano al centro ora stavano scomposti e schiacciati sull’estremità di destra, come se qualcuno li avesse usati per ore a mo’ di guanciale per dormirci sopra.
La signora si sentì invadere da sentimenti brucianti e persino incoerenti: risentimento per la violazione del proprio spazio, paura per la figlia e un’infinita tristezza che non trovava spiegazione. Madre e figlia si guardarono senza parlare, spiegandosi ogni cosa con gli occhi. Poi venne anche il resto della famiglia a contemplare l’impronta sul divano. Il padre scrollò la testa: era una razionalista sfegatato, che voleva vivere la sua vita lontano dai fantasmi. E non ci riusciva. Colpa della moglie, sosteneva.
In seguito la madre andò a rileggersi ogni articolo che uscì ai tempi dell’incidente. Persino dalle aride cronache dei giornalisti d’allora scaturiva come Cristiano fosse inguaribilmente innamorato della vita e in particolare di quella bella casa nel centro storico. Una casa che riempiva di ogni atomo di sé e della sua voglia di futuro.
Quei commercianti ci hanno vissuto sino a due anni fa. I figli nel frattempo si sono sposati e hanno lasciato Bassavilla. Padre e madre hanno chiuso l’attività e si sono ritirati sulla riviera ligure. E’ stata la famiglia che più ha soggiornato tra quelle mura. Se ne sono fatti una ragione: in fin dei conti gli intrusi erano loro.
Il mese scorso la casa di Cristiano è stata abbattuta. Tutto si trasforma, qualcuno dice in meglio. Il centro storico va “svecchiato”. Largo agli alveari, ai supermercati, agli orrori a forma di parallelepipedo. E via con la ruspa che produce macerie. Tra i mattoni sbrecciati e accatastati in disordine l’uno sull’altro, dentro la voragine dove si ergeva la dimora di Cristiano Serici, i muratori hanno trovato un vecchio, sdrucito giubbotto di pelle. L’hanno portato all’agenzia immobiliare. Nessuno vuole indossarlo.