di John E. Gedo
(Questo saggio compare come capitolo conclusivo del volume Psychoanalysis, 1973-1998, New York: The Other Press. Traduzione di Fabiano Bassi)

cyberfreud.jpgLa storia
intellettuale della psicoanalisi nel corso degli ultimi 25 anni può
essere caratterizzata altrettanto bene come la cronaca degli sviluppi di
una disciplina che si è andata spezzettando in una serie non ricomponibile
di frammenti a seguito dell’impatto con una rete di diversità filosofiche
di fondo, o come il resoconto della nascita di un nuovo paradigma che ha
finito per trascendere le differenze d’opinione così caratteristicamente
presenti nel dibattito che aveva impegnato la generazione precedente di
autori. Entrambe queste letture alternative costituiscono delle narrative
che finiscono per sottolineare lo sviluppo di un livello ineguagliato di
attenzione, sia all’interno della psicoanalisi che da parte degli studiosi
di altre discipline, per le tematiche epistemiche. La più contraddittoria
di tutte tali questioni ancora irrisolte è quella che riguarda la
natura stessa della psicoanalisi in quanto disciplina intellettuale, un
argomento che quasi sempre porta con sé anche l’altro quesito relativo
a quanto sia lecito classificare la psicoanalisi nel novero delle scienze
naturali.

La risposta a quest’ultima domanda dipende, a sua volta, da un
altro tema filosofico (intendendo con ciò un tema che non può
essere risolto su basi puramente empiriche), che è quello solitamente
denominato come la questione mente/corpo.

Un certo
numero di psicoanalisti si sentono liberi di trascurare completamente il
fatto che le funzioni mentali dipendano da un substrato somatico e affermano,
di conseguenza, che la psicoanalisi non deve essere considerata come una
branca delle scienze biologiche. Tra costoro, Gill (1994) può oramai
essere visto come l’ultimo autore che continua a credere nella possibilità
di creare una psicologia scientifica che sia fondata interamente sulla
comprensione dei contenuti mentali. La grande maggioranza degli autori
che si collocano su questa posizione mentalistica hanno sposato un punto
di vista totalmente ermeneutico, avanzato in origine da alcuni filosofi
dell’Europa continentale, cioè un punto di vista che pone la psicoanalisi
tra le Geisteswissenschaften, ossia quelle discipline intellettuali alle
quali non si applicano gli standard e gli obblighi delle scienze naturali.
Implicitamente, con la sua affermazione che la psicoanalisi può
solo limitarsi a pretendere di giungere a una qualche forma di "verità
narrativa" (piuttosto che non a una valida ricostruzione della storia personale
del soggetto), anche Spence (1982) ha dato sostegno a questa ritirata rispetto
alle ambiziose posizioni scientifiche da cui era partito Freud. Il caposcuola
riconosciuto degli psicoanalisti ermeneuti in America è stato Schafer
(1976, 1978, 1992), il quale fa coincidere l’efficacia terapeutica della
psicoanalisi con un processo di riformulazione della storia della vita
dell’analizzando compiuto usando la falsariga di una serie di "narrative
di base".

La reazione
alla sfida lanciata da questa opzione ermeneutica ha assunto due forme.
Da un lato, alcuni epistemologi come Grünbaum (1984, 1993) e Strenger (1991)
hanno respinto la finalità introdotta dalla semplice coerenza narrativa
vedendo in essa una tesi troppo semplicistica, dato che costituisce qualcosa
che può essere ottenuto anche a partire da un resoconto biografico
fondamentalmente assurdo. Se non è possibile dimostrare l’infondatezza
di nessuna interpretazione, la scelta tra punti di vista psicoanalitici
in competizione non può più essere fondata su un terreno
razionale, e la conseguenza inevitabile del tutto diventa allora il caos
intellettuale. Queste critiche, appoggiate anche da psicoanalisti come
Rubinstein (1997) e Edelson (1988), hanno inoltre dimostrato che lo sforzo
degli ermeneuti, teso a negare il fatto che la psicoanalisi possa fornire
spiegazioni causali dei fenomeni da lei osservati, costituisce un tentativo
ingiustificato di sfuggire alla necessità di convalidare scientificamente
tali ipotesi causali. Una seconda obiezione all’opzione ermeneutica, a
mio giudizio ancor più incisiva della precedente, è rappresentata
dalla considerazione, avanzata da diversi autori, dl fatto che nessuna
di queste teorie è riuscita a evitare l’esigenza di postulare una
serie di assunti biologici di base. Per esempio, quando asserisce che tutti
i fenomeni mentali sono la conseguenza di qualche scelta attiva, Schafer
postula un’ipotesi biologica, e questo è un fatto che egli manca
però di riconoscere.

A causa dell’ambiguità
(spesso deliberata) degli scritti di Lacan (1977), è difficile determinare
se la posizione di questo autore coincida di fatto con quella dei mentalisti
o non lo ponga piuttosto nel campo degli ermeneuti. Ad ogni modo, il disprezzo
mostrato da Lacan nei confronti dell’empirismo colloca chiaramente la sua
versione della psicoanalisi al di là dei confini delle scienze naturali.
Il suo impiego esplicito del lavoro di alcuni filosofi come armatura di
rinforzo per le sue teorizzazioni, inoltre, costituisce un’operazione analoga
a quella compiuta dagli ermeneuti, a loro volta intenti a ricorrere a una
cornice di riferimento simile; e anche se nelle due posizioni (lacaniana
ed ermeneutica) sono richiamate idee filosofiche differenti, entrambi i
sistemi teorici sono basati su fondamenta puramente razionaliste. Si badi
bene che un tale impegno filosofico a priori preclude la possibilità
di modificare la teoria di base anche davanti all’evidenza di una prova
empirica contraria. Ed è proprio in questo senso che all’interno
della comunità psicoanalitica hanno finito per svilupparsi una serie
di rotture non più ricomponibili: non vedo infatti nessuna possibilità di riconciliare la scuola ermeneutica o quella lacaniana con i punti di
vista psicoanalitici che aspirano invece a raggiungere lo status delle
scienze biologiche.

Sono stati
ovviamente i propugnatori della visione scientifico-naturale della psicoanalisi
a dover reggere l’urto dell’attacco portato dalla critica epistemologica
alla scientificità della disciplina. Grünbaum (1984) ha dimostrato
in modo dettagliato che i filosofi che hanno letto la psicoanalisi come
un insieme di proposizioni non soggette a confutazione da parte di una
verifica empirica, hanno dato in realtà una rappresentazione deviata
della teoria psicoanalitica esistente; egli ha però anche segnalato
che le più importanti ipotesi freudiane non sono mai state convalidate.
In specifico, Grünbaum ha attaccato l’assunto infondato tale per cui l’individuazione
di un particolare contenuto mentale sarebbe in grado di convalidare qualsiasi
proposizione causale all’interno della teoria psicoanalitica, un punto
che nessun commentatore successivo è stato capace di contraddire.
Questa critica clamorosa, proveniente in più da un difensore della
psicoanalisi, ha svolto un ruolo chiave nel favorire il ripensamento dell’intero
edificio teorico psicoanalitico.

Le contestazioni
di Grünbaum sono state sostenute da due analisti dalle sofisticate capacità
epistemologiche, quali Rubinstein (1997) e Strenger (1991). Quest’ultimo
ha anche aggiunto l’importante passaggio tale per cui fintantoché
la psicoanalisi vorrà continuare a pretendere di poter costituire
un programma di ricerca fertile, il bisogno di validazione dovrà
giustamente essere relegato in una posizione di minore urgenza. Questa
posizione di Strenger è in accordo con il punto di vista dell’eminente
filosofo della scienza Michael Polànyi (1974), il quale ha dimostrato
che il progresso scientifico si verifica solo molto di rado come conseguenza
di una serie di studi di validazione: al contrario, le nuove ipotesi finiscono
per prendere gradualmente il posto delle vecchie perché hanno assunto
credito presso una maggioranza dei rappresentanti di una certa disciplina
come la migliore spiegazione al momento disponibile per un certo insieme
di fenomeni. A questo proposito, la storia intellettuale della psicoanalisi
non presenta, in fondo, alcuna differenza con quella delle altre discipline
scientifiche.

A dare inizio
al ripensamento teorico che ha caratterizzato la storia recente della psicoanalisi
è stato il meticoloso lavoro di Rubinstein (ricomposto nel 1997
dopo la morte dell’autore). Pur senza dichiarare in modo esplicito l’insostenibilità
del dualismo cartesiano, Rubinstein ha dimostrato che il mentalismo (che
al dualismo cartesiano si correla) è di fatto incompatibile con
le scienze naturali, poiché le sue proposizioni sono, in ultima
analisi, inverificabili. Di conseguenza, Rubinstein ha sposato il punto
di vista monista per la soluzione del problema mente/corpo, cioè
quello che considera il cervello come un processore di informazioni. L’assunzione
di questa posizione comporta la necessità di articolare una serie
di proposizioni psicoanalitiche che possano al tempo stesso da un lato
adattarsi ai dati osservativi raccolti all’interno della situazione psicoanalitica,
e dall’altro conformarsi al nostro bagaglio di conoscenze neuropsicologiche.
(In altre parole, Rubinstein si è mostrato implicitamente d’accordo
con l’assunto di Grunbaum secondo cui le ipotesi psicoanalitiche necessitano
di una validazione extraclinica). Un altro modo per riformulare questa
posizione consiste nel dire che la psicoanalisi deve al tempo stesso spiegare
un mondo di ragioni personali e un modo di cause organismiche.

Sebbene gli
studi sul cervello non ci abbiano ancora fornito, sino a qui, prove sufficienti
per impostare in modo completo il programma di validazione caldeggiato
da Rubinstein, essi sono già comunque in grado di invalidare molti
degli assunti biologici che Freud aveva posto alla base della costruzione
della sua metapsicologia. Il punto più importante, a questo proposito,
è che il "principio di costanza" postulato da Freud si è
rivelato insostenibile. Rubinstein ha dimostrato che dalla constatazione
di questa insostenibilità discende la conclusione che il concetto
di “energia psichica" non può più essere considerato un concetto
biologico valido: e dunque, continuare a farne uso nella teoria psicanalitica
significa votarsi al ricorso a una nozione vitalistica, che contrasta con
l’impegno assoluto di Freud contro la tendenza a postulare l’esistenza
di entità non materiali. Inoltre, l’abbandono del costrutto teorico
dell’energia priva la teoria pulsionale della sua base logica e dunque
svuota del tutto anche la teoria strutturale freudiana del 1923.

Holt (1989)
ha ampliato questa critica della metapsicologia freudiana. Egli ha segnalato
che la metapsicologia si fondava sull’assunto erroneo tale per cui il sistema
nervoso centrale sarebbe passivo. Holt ha anche dimostrato che Freud non
ha mai abbandonato le ipotesi biologiche insostenibili che aveva preso
a prestito dai suoi predecessori neurologici, quali ad esempio le spiegazioni
puramente quantitative utilizzate per la comprensione del piacere e del
dispiacere, che hanno sempre continuato a mostrare la loro presenza nelle
sue teorie. Eppure, la maggior parte degli autori psicoanalitici si sono
confrontati con la metapsicologia come se questa non avesse nessun collegamento
con la fisiologia umana, e in tal modo le prove che permettevano di confutare
gli assunti biologici freudiani sono state trascurate per molto tempo.

La sfida
alla metapsicologia freudiana avanzata da Rubinstein e da Holt non è
mai stata raccolta; nel corso degli anni ’70, una serie di altri contributi
(G. Klein, 1976; Schafer, 1976; Rosenblatt e Thickstun, 1977) si sono affiancati
ai loro nel caldeggiare il ripudio di tali antichi assunti così
screditati. Questo collasso del consenso per la metapsicologia ha condotto
alla scissione tra coloro che hanno scelto di negare che fosse necessario
trovare una base per la psicoanalisi nelle scienze naturali, e coloro che,
come Rubinstein, hanno invece cercato di individuare una fondazione neuropsicologica
valida per essa. George Klein ha tentato di giungere a una soluzione di
compromesso, sviluppando cioè una teoria puramente "clinica" della
psicoanalisi, ma neanche a lui è comunque riuscito di eliminare
tutti gli assunti biologici dalla sua proposta, come ha segnalato Rubinstein
nella sua critica al lavoro di Klein.

Rosenblatt
e Thickstun hanno delineato le linee principali di una nuova metapsicologia,
centrata sul concetto secondo cui le funzioni mentali consisterebbero fondamentalmente
nella comunicazione dell’informazione. L’input informativo attiva una serie
di sottosistemi della mente/cervello (in genere senza giungere al livello
di coscienza). Le attività cerebrali hanno luogo per mezzo di un
meccanismo cibernetico (di feedback) organizzato dapprima per settori,
quindi in programmi integrati. Questi ultimi prendono la forma di una gerarchia
stabile di scopi personali dell’individuo: allo stesso tempo, quando deve
confrontarsi con un fallimento adattivo, il sistema gerarchico è
in grado di ricorrere a qualche scelta alternativa a un livello più
basso di integrazione. Il modello di Rosenblatt e Thickstun è essenzialmente
congruente con lo schema gerarchico che era stati proposto qualche anno
prima da Gedo e Goldberg (1973) a partire da una serie di considerazioni
cliniche.

L’invalidazione
della teoria pulsionale di Freud ha comportato la necessità di sostenere
la psicoanalisi con una nuova teoria della motivazione, una necessità,
questa, già riconosciuta da George Klein. Rosenblatt e Thickstun
sono stati i primi a sostenere che questa teoria motivazionale doveva conformarsi
a un modello cibernetico; secondo il loro punto di vista, gli affetti costituiscono
la componente fondamentale del meccanismo di feedback che organizza la
gamma delle motivazioni in un “sistema comportamentale”. La definizione
di una gerarchia di priorità dà luogo a un sistema sopraordinato
di controllo che Rosenblatt e Thickstun hanno chiamato “il Sé”.
(Si veda anche Gedo e Goldberg, 1973; Klein, 1976). Lichtenberg (1989)
ha fatto proprie queste proposte e ha compiuto il tentativo di specificare
meglio le varie categorie di motivazioni umane innate. Vale la pena di
notare che questo suo sforzo ha tenuto ben presente anche il forte invito
di Rubinstein circa la necessità di considerare sia le prove psicoanalitiche
che quelle neurobiologiche nella formazione della teoria. Lichtenberg ha
postulato l’esistenza di cinque sottosistemi indipendenti di motivazioni
innate: regolazione delle richieste fisiologiche, attaccamento/affiliazione,
esplorazione/asserzione, avversione e sessualità/sensualità.
(Secondo Hadley [1992], le prove neurofisiologiche suggerirebbero che la
sessualità e la sensualità costituiscono due sistemi motivazionali
separati). Nel corso successivo dello sviluppo, entrano sicuramente in
gioco anche altre categorie motivazionali.

Lo sviluppo
di una nuova metateoria, biologicamente più sana, è stato
perseguito anche da una serie di studiosi che hanno cercato di correlare
gli sviluppi più recenti delle ricerche sul cervello con i dati
psicoanalitici. Levin (1991) ha suggerito che gli ambiti della comunicazione
e della cognizione potrebbero essere considerati come due campi intermedi
di studio, in coincidenza dei quali i risultati della psicoanalisi e della
neurofisiologia possono intersecarsi. Egli ha anche sottolineato che l’acquisizione
del linguaggio ha un ruolo organizzativo rispetto allo sviluppo del cervello.
Questa intuizione introduce la possibilità di pensare che le modalità
pre e protolinguistiche di funzionamento rimangano potenzialmente disponibili
per tutto il corso della vita come “modelli inferiori di integrazione”
all’interno della gerarchia funzionale. Questi aspetti del repertorio adattivo
operano in modo automatico e inconscio, a un livello che risulta meglio
comprensibile in termini fisiologici. (Hadley [1989] ha spiegato in questi
stessi termini il fenomeno della coazione a ripetere).

Levin ha
poi segnalato che l’organizzazione gerarchica del cervello in evoluzione
implica che anche il modello psicoanalitico del funzionamento mentale debba
a sua volta seguire un principio gerarchico, un punto che, nell’opinione
di Levin, sarebbe stato per la prima volta soddisfatto dal lavoro di Gedo
e Goldberg (1973; si veda anche Gedo, 1979, 1988, 1996). Il fattore gerarchico
sul quale Levin si concentra è quello dei “potenziali-del-Sé-nel-mondo”
dell’individuo, la cui mappa originaria viene inizialmente stabilita nel
cervelletto per poi essere ritrascritta nei gangli basali e nella corteccia
parietale centrale. Giunta lì, la rappresentazione comincerebbe
poi a far parte della memoria a lungo termine, e quello sarebbe il punto
in cui si stabilisce anche la coesione del Sé.

Le ricerche
più recenti sul cervello hanno dimostrato il ruolo delle esperienze
infantili nell’influenzamento della strutturazione del sistema nervoso
centrale. Schore (1994) ha fornito un resoconto dettagliato di questi sviluppi,
in particolare per quel che riguarda le strutture prefrontali cruciali
per l’esperienza emozionale e per la regolazione del sistema nervoso autonomo.
Attraverso una serie di meccanismi endocrini, queste strutture attivano
i centri del piacere e del dolore. Circuiti di feedback che partono da
questi centri e da altre strutture formatesi come risultato delle proibizioni
materne producono un livello crescente di autonomia nell’autoregolamentazione
dei comportamenti. In questo modo, Schore è stato in grado di dimostrare
che la neuro-chimica sta alla base della psicologia.

Schore sancisce
dunque ufficialmente il punto di vista gerarchico dell’organizzazione neurale,
e di conseguenza di quella psichica. Nel suo schema, l’organizzazione del
Sé si stabilisce a partire dai 18 mesi di età, quando si
rendono disponibili una serie di capacità simboliche significative,
l’emisfero cerebrale sinistro acquista predominanza e gli affetti cominciano
a operare come segnali. Questa riorganizzazione, per altro, non è
sicuramente quella definitiva: Levin postula che l’aumentata integrazione
interemisferica, risultante dalla mielinizzazione del corpo calloso (all’età
di 3 anni e mezzo), costituisca il punto nodale successivo per lo sviluppo
del sistema nervoso centrale. Reiser (1984) concorda con questa visione
dell’organizzazione neurale (e psichica) come gerarchia di modalità
multiple all’interno della quale è dato di attendersi cambiamenti
radicali di stato.

Secondo la
Bucci (1997), gli ambiti della psicoanalisi e delle neuroscienze possono
avere il loro grado massimo di integrazione sul terreno intermedio della
psicologia cognitiva. La Bucci ha proposto un modello dello sviluppo cognitivo
congruente con la scienza contemporanea del cervello, esattamente il tipo
di ipotesi che Rubinstein aveva così auspicato che la psicoanalisi
arrivasse a proporre. In questa gerarchia, la modalità più
precoce è quella della processazione subsimbolica, che consiste
in canali percettivi paralleli che in seguito possono o meno diventare
collegati all’interno del linguaggio. Una seconda modalità, di processazione
simbolica mediante immagini e parole, sopravviene dopo che il bambino ha
cominciato a deambulare. Una terza modalità si stabilisce poi quando
le connessioni tra processazione subsimbolica e simbolica cominciano a
organizzarsi, un processo che la Bucci chiama “attività referenziale”.

La revisione
della psicologia cognitiva proposta dalla Bucci chiama in causa il modello
cognitivo implicito nelle precedenti teorie psicoanalitiche, cioè
il modello fondato sull’esistenza di un singolo codice comune di base,
paragonabile al linguaggio, il che altro non è che la teoria sostenuta
in modo esplicito da Lacan (1977). I dati neurofisiologici supportano la
posizione della Bucci: esistono infatti dei sistemi separati di memoria
per la processazione simbolica e subsimbolica, cioè dei sistemi,
rispettivamente, dichiarativi e procedurali. (Questo spiega perché
il cambiamento comportamentale è contingente rispetto all’aumento
delle capacità procedurali ottenuto tramite misure che devono riuscire
ad andare al di là del semplice confronto con contenuti mentali
verbalizzabili. Per i dettagli, si veda Gedo, 1995, 1997).

La Bucci
considera l’emozione come un sistema di risposta che serve da guida per
l’azione, senza dover necessariamente giungere fino al livello di coscienza.
Ella segnala che il nucleo della nostra affettività è legato
a schemi percettivi non verbali, cioè a ricordi precoci che costituiscono
la base del nostro senso del Sé. E dunque, la Bucci ritiene che
il compito della psicoanalisi sia quello di produrre un aumento dell’attività
referenziale al fine di rendere questi ricordi non verbali disponibili
per la processazione verbale. La tecnica standard della psicoanalisi non
ha prestato attenzione sufficiente alla necessità di sviluppare
modalità differenziate di intervento (che vadano “al di là
dell’interpretazione”, per usare le parole con cui le ho definite io [Gedo,
1979]) per ogni grado della gerarchia cognitiva. Nei casi di aprassia cognitiva,
potrebbe essere necessario assistere il paziente affinché egli possa,
per la prima volta, acquisire un codice simbolico utile per confrontarsi
con determinate materie (Gedo, 1988).

Secondo il
punto di vista della Bucci, i sintomi, i passaggi all’atto e i sogni costituiscono
tutti dei tentativi di processare il significato dell’esperienza umana
a un livello non verbale. Ella postula che l’immaginario onirico rappresenti
semplicemente uno schema emozionale subsimbolico che viene attivato durante
il sonno. Quello che Freud chiamava “lavoro onirico” non sarebbe altro
che la modalità standard di processazione subsimbolica; in altre
parole, la Bucci nega che i “pensieri latenti” codificati verbalmente possano
essere trasformati nelle immagini del sogno (si veda anche Bollas, 1987).

Anche Dorpat
e Miller (1992) sono giunti alla conclusione che i dati offerti dalle neuroscienze
possano permettere di confutare gli assunti freudiani sulla percezione,
la cognizione e la coscienza, soprattutto la equivalenza da lui proposta
tra percezione e coscienza. È oramai chiaro che sia la percezione
che la memoria sono dapprima costruite e poi continuamente ricostruite.
I sogni e le allucinazioni sono avvenimenti neurali: non sono causati da
desideri inconsci. Il processo primario, secondo Dorpat e Miller, è
una delle scoperte cardinali di Freud che sono state sostanziate dalla
neurobiologia: esso è un sistema cognitivo che analizza le interazioni
dell’individuo con l’ambiente. In altre parole, questi autori concordano
con la Bucci nel ritenere che l’attività mentale del processo primario
non distorce razionalmente i pensieri ordinati: essa è semplicemente
il codice naturale del cervello destro. Tale attività costituisce
un livello di capacità procedurale che viene gradualmente appreso
e che , con la pratica, può diventare automatizzato; con la maturazione,
essa può porsi alla base del fenomeno della creatività. Se
a seguito della loro scissione i processi primari restano invece inalterati
dall’esperienza, essi persisteranno allora in una qualche forma arcaica.

Vale la pena
di notare che i dati dell’osservazione infantile raccolti dagli studiosi
che non si ispirano a nessun punto di vista psicoanalitico, sono perfettamente
congruenti con quelli ottenuti dalle neuroscienze e dalla psicologia cognitiva.
La sinossi di tutti questi studi offerta da Lichtenberg (1983), descrive
il bambino come un essere continuamente attivo, orientato verso l’oggetto
e teso alla ricerca di stimoli. Il bambino possiede capacità di
adattamento che si conformano a tutto ciò che chi si prende cura
di lui è in grado di offrirgli. Nei neonati, i processi che hanno
luogo nel sistema nervoso centrale producono gli stati di attenzione, pianto,
quiescenza e sonno. La capacità di programmare il comportamento
si sviluppa ben prima dell’acquisizione delle capacità simboliche
e di riflessione. Questi segni di organizzazione a livello biologico sono
sufficienti per confutare le antiche ipotesi evolutive, come quelle di
Winnicott, della Mahler o di Melanie Klein, che adultomorfizzavano il bambino.
Lichtenberg conclude che il trattamento psicoanalitico dovrebbe essere
ridisegnato per confrontarsi con i derivati delle fasi presimboliche dello
sviluppo, quali i deficit regolatori di base, i deficit cognitivi, e così
via.

Stern (1985)
ha utilizzato i dati delle sue ricerche di osservazione del bambino per
costruire uno schema gerarchico epigenetico dello sviluppo del senso del
Sé. (Questo è l’aspetto soggettivo della “organizzazione
del Sé” sottolineato dalla maggior parte degli altri autori i cui
contributi sono già stati citati). Stern è anche giunto alla
conclusione che tutti gli schemi evolutivi proposti in passato dalla psicoanalisi
erano insostenibili perché attribuivano al bambino capacità
simboliche (la capacità di avere fantasie). Stern descrive diverse
fasi evolutive nel corso dei primi 18 mesi di vita precedenti l’acquisizione
del linguaggio, e i derivati di queste prime fasi costituiscono delle componenti
importanti del funzionamento dell’individuo adulto. Lungo queste stesse
linee, Freedman (1997) ha richiamato l’attenzione sul fatto che i neonati
non hanno relazioni oggettuali: essi hanno invece esperienze che coinvolgono
altri esseri umani, esperienze che producono cambiamenti nel cervello i
quali, a loro volta, funzionano come una “attività mentale inconscia”.
Per come la mette Freedman, il solo concetto freudiano riguardante lo sviluppo
precoce che avrebbe trovato sostegno nella biologia sarebbe quello di bisessualità!

Permettetemi
ora di riassumere brevemente la storia della rivoluzione teorica che ho
passato in rassegna fino a qui. Essa è sorta come conseguenza della
comprensione del fatto che il sistema nervoso centrale è in primo
luogo un processore di informazioni, una funzione, questa, che non comporta
un trasferimento di energia particolarmente rilevante. I dettagli delle
scoperte scientifiche sul funzionamento del cervello hanno così
invalidato alcuni dei principali assunti metapsicologici proposti da Freud.
In Nord America, la comunità psicoanalitica (va detto a suo credito)
ha risposto con prontezza a questi sviluppi abbandonando la metapsicologia
che, per quasi un secolo, aveva tenuto insieme la struttura teorica della
disciplina.

Ed è
stato proprio il problema di trovare un rimpiazzo per la cornice di riferimento
biologica stabilita da Freud attorno al 1890 a produrre le recenti spaccature
all’interno della psicoanalisi americana. Il modo più semplice per
descrivere questo fenomeno è quello di distinguere da un lato i
tentativi tesi a delineare un sostituto biologico sostenibile, e dall’altro
le soluzioni mentaliste che cercano di confinare la psicoanalisi allo studio
dei contenuti psichici. Tra queste ultime, fino a qui mi sono occupato
soltanto dell’opzione ermeneutica, poiché i suoi sostenitori hanno
espresso in modo esplicito i loro assunti epistemici; esistono anche altre
alternative mentaliste che evitano semplicemente questi problemi teorici
di fondo e che possono perciò essere discusse soltanto nei termini
delle loro conseguenze cliniche. La versione esclusivamente ermeneutica
della psicoanalisi è stata esaminata per esteso da una serie di
epistemologi psicoanaliticamente informati: c’è un accordo di base
tra costoro nel ritenere che il rifiuto ermeneutico dell’affiliazione al
campo delle scienze naturali potrebbe portare la psicoanalisi verso una
condizione di anarchia intellettuale, per limitarsi a citare solo la più
rilevante delle loro critiche.

Se si vuole
ricollocare la psicoanalisi su delle fondamenta biologiche modernamente
valide è necessario rendere le sue ipotesi conformi con il piano
di conoscenze già raggiunto a tutt’oggi dalle neuroscienze, dalla
psicologia cognitiva e dall’osservazione del bambino (preverbale).
È al tempo stesso ragguardevole e altamente incoraggiante notare
come le prove più evidenti espresse da ciascuna di queste discipline
risultino del tutto congruenti a una verifica incrociata. Ai fini del loro
confronto con la teoria psicoanalitica, è molto importante sottolineare
come tutti e tre questi campi di indagine abbiano organizzato i loro dati
sulla base di una serie di princìpi evolutivi gerarchici ed epigenetici:
ne consegue che sarebbe alquanto utile che anche le funzioni mentali venissero
concettualizzate in questa stessa maniera.

Un tale punto
di vista epigenetico mette in rilievo l’elemento della disponibilità
permanente, lungo tutto il corso della vita, di alcune modalità
arcaiche di organizzazione del comportamento rimaste ferme a livelli presimbolici.
Stante che, nel corso medio prevedibile di uno sviluppo favorevole, questo
nucleo biopsicologico della personalità acquista livelli crescenti
di strutturazione quando viene ritrascritto in forma simbolica (una volta
che la corteccia cerebrale sia divenuta sufficientemente matura), tutti
gli autori che hanno lavorato nel tentativo di integrare la psicoanalisi
con le altre discipline biologiche hanno puntato la loro attenzione su
questo processo di “organizzazione del Sé”, individuando in esso
il punto cruciale su cui fondare una teoria psicoanalitica solida dello
sviluppo della personalità. Per dirla in altri termini, abbiamo
raggiunto un accordo sulla conclusione tale per cui una certa mole di dati
provenienti da discipline affini hanno invalidato tutte le ipotesi psicoanalitiche
precedenti sul primo sviluppo infantile, evidenziando come esse fossero
state dotate di caratteri eccessivamente adultomorfici e patomorfici: il
bambino preverbale si è rivelato, di fatto, non paragonabile con
l’adulto disturbato.

Discuterò
più avanti le implicazioni delle conclusioni teoriche su espresse
per la teoria clinica e la teoria della tecnica, non prima, però,
di aver passato in rassegna i contributi più recenti che hanno per
oggetto questi due temi teorici.

Il Discorso Clinico: 1973-1998


Se confrontate con la rapidità del cambiamento subìto dalla teoria psicoanalitica
di base, le proposizioni cliniche della psicoanalisi (e la sua teoria della
tecnica) sono rimaste relativamente invariate. Questo dato risulta particolarmente
evidente se si sceglie di puntare l’attenzione sulle varie scuole di pensiero
che si sono contese il primato nell’arena psicoanalitica. Alcune delle
monografie più autorevoli pubblicate in questi ultimi anni dai rappresentanti
di questi diversi gruppi che si dedicano all’osservazione della psicoanalisi
dall’interno, si sono semplicemente limitate a riaffermare l’ortodossia
da sempre prevalente nella tradizione delle singole scuole. Due esempi
di particolare rilevanza a conferma di questo fenomeno sono l’edizione
aggiornata delle opere della Segal (1974), rappresentante di spicco della
psicoanalisi kleiniana, e i contenuti scelti da Lacan (1977) per la presentazione
dei suoi scritti al pubblico di lingua inglese.


Si potrebbe dare un giudizio di tenore fondamentalmente simile anche a proposito del
modo utilizzato da Brenner (1982) per descrivere la psicologia dell’Io
contemporanea, se si eccettua il fatto che Brenner ha comunque preso atto
delle obiezioni epistemologiche avanzate nei confronti della metapsicologia
freudiana. In conseguenza di ciò, Brenner ha elaborato una teoria
clinica che non postula più l’esistenza dell’energia psichica e
ha ridotto il suo campo di indagine ai conflitti intrapsichici provocati
dai desideri (infantili) di natura sessuale o aggressiva. Pur senza quasi
mai negare l’importanza delle vicissitudini pregenitali, la versione brenneriana
della psicologia dell’Io risulta, de facto, interamente focalizzata sui
derivati della fase edipica. In altre parole, la sua monografia cerca di
mantenere le posizioni cliniche tradizionali della corrente principale
della psicoanalisi americana, rifiutandosi di prestare attenzione a qualunque
possibile contingenza per la cui spiegazione tali posizioni risultino di
scarsa applicabilità.


Il fatto che, in pratica, questo riduzionismo sia destinato a portare a conseguenze
disastrose è stato documentato in modo esteso da una notevole serie
di pubblicazioni che hanno riportato i risultati di ben articolati studi
di follow-up (Firestein, 1978; Schlessinger e Robbins, 1983; Wallerstein,
1986). Questi studi presentano i risultati di trattamenti analitici condotti
in maniera tradizionale (in una cornice di riferimento riconducibile alla
psicologia dell’Io),in tre diverse località (New York, Chicago e
Topeka). Tutti e tre mostrano un grado notevole di ottimismo prognostico
da parte del terapeuta che ha condotto le analisi in oggetto. Wallerstein,
il cui campione comprendeva la proporzione più ampia di pazienti
che presentavano disturbi gravi, giunge alla conclusione che l’impiego
della psicoanalisi “classica” (cioè dell’analisi che si limita all’uso
di una tecnica interpretativa) nei casi in cui siano presenti “indicazioni
eroiche” è una scelta poco saggia, e mi limito a usare un eufemismo.


Anche nel lavoro con pazienti chiaramente meno disturbati, il materiale clinico dettagliato
presentato in questi studi documenta il raggiungimento di risultati quanto
meno deludenti: nel migliore dei casi, si assiste a progressi terapeutici
modesti. Schlessinger e Robbins dimostrano che, al follow-up, le problematiche
pregenitali irrisolte continuavano a interferire con l’adattamento dei
pazienti i cui trattamenti avevano avuto come obiettivo esclusivo l’analisi
dei conflitti edipici. In altre parole, l’assunto ampiamente condiviso
secondo cui una nuova soluzione dei problemi edipici dovrebbe riuscire
a modificare anche le disposizioni pregenitali, si è rivelato insostenibile.
Questi autori concludono che gli attributi caratterologici cruciali per
l’adattamento hanno la loro genesi in un’epoca evolutiva più precoce
di quella edipica. Wallerstein arriva anche ad attribuire alcuni dei risultati
clinici più deludenti all’attenzione insufficiente prestata alle
tematiche più arcaiche.


Non ci sorprende dunque quasi per nulla che, per rispondere a questa insoddisfazione terapeutica,
la generazione psicoanalitica precedente abbia dovuto sopportare la comparsa
e/o la crescita di un certo numero di movimenti dissidenti all’interno
della psicoanalisi americana. Tra questi, i più influenti sono stati
quelli della psicologia del Sé e del punto di vista relazionale.
Quest’ultimo combina insieme la cornice di riferimento proposta dalla teoria
delle relazioni oggettuali, importata dalla Gran Bretagna, con il nostro
orientamento interpersonale indigeno. Gli autori che hanno registrato la
storia di questi sviluppi (Greenberg e Mitchell, 1983; Bacal e Newman,
1990; Summers, 1994) ritengono che la psicologia del Sé di Kohut
possa anche essere efficacemente compresa come una forma speciale di teoria
delle relazioni oggettuali, che riserva un’attenzione particolare alle
relazioni con gli oggetti che svolgono funzioni essenziali per l’adattamento
dell’individuo e per il suo futuro sviluppo.


Sia quel che sia, la psicologia del Sé non è stata articolata da Kohut,
nel corso della sua vita, come un sistema psicoanalitico onnicomprensivo,
ma ha ricevuto una tale organizzazione solo nel volume pubblicato postumo
nel 1984, dopo la sua morte. In quel testo, Kohut affiancava infine il
suo nome a quello degli autori che, prima di lui, avevano già ripudiato
la metapsicologia di Freud, pur non arrivando a dirci in modo specifico
se pensava di poter sottoscrivere qualcuna delle proposte alternative di
assunto biologico. Come risultato di ciò, i suoi seguaci sembrano
aver adottato una cornice di riferimento mentalista e una posizione che
attribuisce il destino personale dell’individuo interamente agli effetti
delle cause naturali. In questo sistema, l’unica fonte di maladattamento
è rappresentata da qualche disturbo delle relazioni Sé-oggetto-Sé.
Questo concetto ha portato allo sviluppo dell’assunto tale per cui il fatto
di fornire al paziente “accettazione empatica” sarebbe di per sé
sufficiente per far ripartire lo sviluppo della struttura psichica e, inoltre,
per giungere a una ridefinizione degli scopi del trattamento in termini
di semplici miglioramenti adattivi, ottenuti mediante l’identificazione
con l’analista.


Tutto questo, tuttavia, non aggiunge quasi niente alla teoria psicoanalitica; al massimo,
può costituire un elenco più o meno coerente di linee guida
pratiche per la conduzione del trattamento in un’atmosfera umana, accompagnato
da un invito a sperare per il meglio. La sua proverbiale semplicità
ha probabilmente fatto sì che esso diventasse un sistema popolare,
soprattutto tra chi pratica la psicoterapia. Gli psicologi di Sé
che scelgono di condurre le loro analisi nella maniera descritta da Goldberg
(1978) nel suo manuale clinico, per quanto tali analisi possano essere
incomplete alla luce dei nostri criteri abituali, sicuramente non causano
alcun danno ai loro pazienti, per non dire che, grazie all’attenzione da
loro posta sui temi aventi a che fare con l’autostima, possono anche raggiungere
dei risultati significativi in termini di adattamento. La sottolineatura
univoca di Kohut sull’aspetto soggettivo della vita mentale ha avuto un
effetto salutare nel richiamare l’attenzione dei clinici sulle conseguenze
della loro interazione coi pazienti, una prospettiva sulle transazioni
psicoanalitiche, questa, che è poi stata popolarizzata sotto l’etichetta
di “punto di vista intersoggettivo” (vedi Stolorow e Atwood, 1990).


Il tipo di indeterminatezza che caratterizza la posizione epistemica di Kohut non
è affatto inusuale tra coloro che aderiscono all’opzione relazionale.
Nessuno dei più importanti rappresentanti di questo punto di vista
ha mai articolato un’ipotesi generale sulla natura delle operazioni mentali;
quasi, parrebbe, per mancanza d’altro, molti di loro sembrano rientrare
in una posizione mentalista: come dice Summers (1994), essi fanno ricorso
a una “psicologia pura”. Winnicott, ad esempio, si mostrò particolarmente
poco propenso a sistematizzare le sue idee, molte delle quali sono diventate
moneta comune utilizzata per la proposizione di svariate riflessioni cliniche.
Secondo Summers, i contenuti introdotti da Winnicott trascendono, di fatto,
il regno delle relazioni oggettuali. A questo proposito, Bacal e Newman
(1990) sottolineano l’enfasi posta da Winnicott sullo sviluppo di un “senso
del Sé” e sulla possibilità di una scissione tra un “vero
Sé” e un “falso Sé”. (Vorrei aggiungere anche la sua descrizione
di “esperienze transizionali” che coinvolgerebbero soltanto il corpo del
bambino per indicare un altro esempio di formazione strutturale che va
al di là del contesto relazionale).


Queste considerazioni mettono in dubbio la validità storica del tentativo di Greenberg
e Mitchell (1983) di individuare una dicotomia nelle teorie psicoanalitiche,
distinguendo tra quelle basate sul sistema pulsione/struttura e quelle
da loro definite “relazionali”. Nella delineazione della loro tesi, questi
autori hanno chiaramente mancato di notare la forte spinta in termini di
innovazione teorica rappresentata dalle ipotesi emerse negli anni ’70 (da
me passate in rassegna nella prima parte di questo scritto), cioè
la costruzione di teorie della mente basate sul concetto biologico di organizzazione
del Sé. Pur non potendo affatto concordare con il punto di vista
storico di Summers, secondo il quale le teorie delle relazioni oggettuali
avrebbero funto da veri e propri gradini della scala che ha permesso di
giungere alla comprensione della strutturalizzazione del “Sé”, credo
comunque che questa sua stessa valutazione esagerata sia un indice del
fatto che il paradigma relazionale ha oramai esaurito la sua utilità.
Persino Mitchell (1988), coinventore dell’etichetta “relazionale”, ha cominciato
a utilizzare il concetto di organizzazione del Sé, sebbene egli
cerchi (a mio avviso erroneamente) di iscriverlo sotto la voce “relazioni
oggettuali”. Mitchell, tuttavia, comprende bene che la fondazione dell’organizzazione
del Sé limita, per conseguenza, la flessibilità individuale:
in altre parole, la strutturalizzazione diminuisce l’influenza attuale
delle relazioni oggettuali.


Greenberg (1991) si è spinto ancor più in là del suo precedente
collaboratore, giungendo sino a ripudiare l’opzione relazionale: egli si
è reso conto che le teorie relazionali hanno in comune il falso
assunto secondo cui l’attaccamento potrebbe essere stabilito anche senza
l’attività di una serie di vettori innati e "pre-esperienziali".
Greenberg segnala che un tale assunto corrisponde in tutto e per tutto
al postulato illegittimo di un processo biologico: il “bisogno di oggetto-Sé”
di Kohut corrisponde al concetto freudiano di Trieb. In altre parole, la
psicoanalisi deve possedere una teoria che veda nelle motivazioni endogene
un fatto costituzionale (vedi Lichtenberg, 1989).


Deviazioni dal solco delle idee consolidate hanno avuto luogo anche all’interno della
tradizione psicoanalitica kleiniana. Già nel 1978, Meltzer si era
accorto che la Klein si era sbagliata quando aveva cercato di forzare le
sue osservazioni cliniche del tutto nuove nel modello teorico di riferimento
di Freud; secondo Meltzer, la maggior parte dell’attività teorica
della Klein poteva essere caratterizzata come la promulgazione di un vocabolario
esoterico. A suo avviso, le conclusioni cliniche kleiniane sulla scissione,
l’identificazione proiettiva, le difese maniacali e la riparazione, costituivano
il nucleo centrale e valido del contributo di questa autrice. Seguendo
Bion, Meltzer criticava la scelta terminologica “anatomica” che portò
la Klein a ipotizzare che il bambino si relazioni con “oggetti parziali”;
secondo Bion e Meltzer, la posta in gioco è l’approvvigionamento
di funzioni che il bambino non possiede. Sempre seguendo Bion, Meltzer
solleva più di un dubbio sull’universalità degli atteggiamenti
onnipotenti e onniscienti.


La critica di Ogden (1986) al pensiero della Klein in quanto teorica è ancor
più radicale. A suo giudizio, l’attenzione esclusiva della Klein
per i contenuti mentali è insufficiente ai fini teorici (cfr. Rubinstein,
1997). Inoltre, Ogden segnala che la Klein ha introdotto una certa quota
di confusione nel suo sistema quando ha esasperato i punti di vista dinamico
e strutturale. Egli ha poi espresso perplessità anche a proposito
della cronologia molto accelerata dello sviluppo psichico prevista dalla
Klein, nonché (in modo tacito) a proposito della sua adesione aprioristica
all’assunto dell’esistenza di idee innate. Ogden riconosce che, prima dell’epoca
del controllo psicologico, i bambini passano attraverso un periodo caratterizzato
dalla regolazione puramente biologica del loro comportamento. Infine, egli
accenna alla possibilità che la “posizione schizo-paranoide” della
Klein possa cristallizzarsi solo come risultato di qualche sviluppo patologico
e propone di pensare che la modalità di organizzazione chiamata
dalla Klein “posizione depressiva” sia resa possibile dalla costituzione
di un sistema mnestico organizzato in maniera sequenziale, e dunque preferisce
chiamare questa posizione “storica”. Chiaramente, la versione di Ogden
della psicoanalisi kleiniana non equivale certo a un’impresa settaria.


Questa determinazione a riconsiderare le ortodossie che sembravano durevolmente stabilite si
è manifestata in modo molto diffuso tra una serie di autori che
appartengono alle più svariate scuole psicoanalitiche, quanto meno
nel mondo anglofono. Questa è la ragione per cui mi spingo ad asserire
che, nonostante le conseguenze devastanti di questi diversi impegni epistemici,
una forte tendenza ecumenica è andata pian piano prendendo il sopravvento
all’interno della psicoanalisi contemporanea. Probabilmente, l’affermazione
più cogente della base logica che sta dietro a questo movimento
è quella offerta da Levenson (1983, 1995). Partendo dall’osservazione
del fatto che schemi interpretativi differenti delle varie scuole psicoanalitiche
possono risultare egualmente efficaci, Levenson conclude che le teorie
della tecnica che attribuiscono il cambiamento all’influenza esercitata
dall’informazione comunicata al paziente non possono essere valide.


Levenson propone una spiegazione alternativa, e cioè che il fattore terapeutico
di base sia intrinseco a qualche procedimento che tutte le scuole psicoanalitiche
possiedono in comune, e precisamente, che siano le regole semiotiche della
psicoanalisi (cioè a dire, il processo stesso di comunicazione che
ha luogo nella situazione analitica) a costituire lo strumento che spiega
l’influenza svolta dall’analista. Questo comporta, allo stesso tempo, che
la patogenesi abbia luogo come conseguenza del mancato sviluppo di capacità
semiotiche e cognitive nel corso dell’infanzia; e dunque, il compito terapeutico
della psicoanalisi sarebbe quello di correggere la confusione che permane
come lascito delle vicissitudini intervenute durante l’infanzia. Levenson
definisce correttamente la psicoanalisi come un metodo tramite cui raggiungiamo
delle conclusioni valide sulle funzioni della mente, un metodo svolgendo
il quale il paziente acquisisce capacità cognitive e semiotiche
che sino a quel punto gli erano mancate (vedi anche Gedo, 1988). Da tutto
questo consegue che, sino ad oggi, il successo analitico è dipeso
dall’abilità mostrata dall’analista nello schivare l’influsso delle
teorie scorrette che tentavano comunque, sulla base della loro validità
presunta, di dirigerne l’attività.


Punti di vista come questo hanno finito gradualmente per permeare la letteratura
psicoanalitica sui fattori terapeutici di base. Per esempio, Friedman (1988)
ha denunciato le qualità irrealistiche delle antiche teorie della
tecnica, indicando i punti deboli sui quali si è cercato di stendere
un velo pietoso tramite il suggerimento dell’esistenza di qualche livello
di “alleanza” che avrebbe luogo tra i partecipanti all’impresa analitica.
Friedman segnala che questi concetti trovano qualche giustificazione nel
fatto che l’apprendimento ha luogo in modo ottimale quando si situa nel
contesto di una relazione positiva. La sua personale teoria della tecnica
assegna importanza equivalente a tre diversi ruoli terapeutici che all’analista
tocca di ricoprire: quello di lettore, quello di storico e quello di operatore.
In quanto lettore, l’analista coglie la gestalt delle narrative del paziente
(cfr. Schafer, 1992); in quanto storico, opera una ricontestualizzazione
del significato degli avvenimenti menti passati del paziente tramite le
sue ricostruzioni (vedi anche Wallace, 1983); in quanto operatore, l’analista
funge da modello, educatore e oggetto di attaccamento.  È il
ruolo dell’analista in quanto operatore che è stato trascurato dalle
precedenti teorie della tecnica, ed è la delineazione dei parametri
adeguati di tale ruolo a costituire il compito più urgente che attende
la psicoanalisi clinica.


In un lavoro che aveva l’intento di affermare il primato tecnico dell’interpretazione
del transfert (nel “qui e ora”), Gill (1982) ha di fatto dimostrato l’insensatezza
di tutte le scelte tecniche basate sulla non responsività dell’analista,
fondate razionalmente sull’idea illusoria che in tal modo si sarebbe quasi
potuto azzerare il rischio della “contaminazione” del transfert. Gill mostra
come, dato che niente di quello che accade nella situazione analitica possiede
un significato transferale agli occhi del paziente, non ci sia nessuna
speranza di evitare tali reazioni semplicemente rifiutandosi di impegnarsi
in attività operazionali. In altre parole, Gill ha persuasivamente
concluso che l’inazione da parte del terapeuta non equivale certo alla
neutralità: non c’è nessuna speranza che l’analista possa
essere trasformato in uno “schermo bianco”. Gill conclude che la miglior
politica possibile è dunque semplicemente quella di comportarsi
in modo umano.


Credo che l’esposizione più dettagliata e consistente della varietà
e della fondazione logica dei diversi interventi operativi sia stata offerta
dai miei stessi scritti (Gedo e Goldberg, 1973; Gedo, 1979 e passim), ma
resisterò alla tentazione di fornire qui un resoconto di quei miei
lavoro. (I lettori interessati possono consultare Gedo, 1997b, capp. 15
e 18; si vedano anche Rodgers, 1994; Shane e Shane, 1994). Voglio, tuttavia,
differenziare la teoria della tecnica da me proposta da quella di Pine
(1990), che è stata talvolta interpretata erroneamente come un’ipotesi
paragonabile a quella avanzata da me. Pine si affianca alle mie posizioni
quando ripudia il punto di vista tradizionale, prevalente nella psicoanalisi
americana, ma prosegue poi sottolineando l’importanza soltanto di quegli
interventi che Friedman ha contraddistinto come utili per allargare la
gamma di scelta di narrative guida alle quali è necessario, per
il terapeuta, prestare attenzione. (Pine nota acutamente che l’attenzione
esclusiva per una, o al massimo due, di queste narrative ha caratterizzato
la quasi totalità delle fazioni ideologiche che si muovono all’interno
del nostro campo). Pine, però, non auspica l’introduzione di nessuna
misura che vada “al di là dell’interpretazione”, e neppure indica
alcuna regola che faciliti la transizione necessaria per spostare l’attenzione
terapeutica da una narrativa guida a un’altra.


A mio giudizio, l’argomentazione migliore a sostegno della necessità di operare
un cambiamento di rotta nella nostra attenzione tecnica è stata
avanzata da Gardner (1983), che ha ridefinito il processo analitico ideale
come un processo caratterizzato da un lavoro di “autoindagine assistita”
[assisted self-inquiry]. Gardner vuole dire che l’elemento centrale dell’efficacia
analitica è rappresentato dal fatto di aiutare il paziente a diventare
padrone dei metodi di autoindagine, e non dalla delucidazione di qualche
contenuto mentale particolare. Il successo analitico deriva comunque in
modo contingente dalla possibilità di concentrare l’attenzione su
temi di contenuto che risultino tollerabili per entrambi i partecipanti.
L’analista può aiutare il paziente a esplorare queste tematiche
prestando attenzione non soltanto a questi contenuti, ma anche alla forma
assunta dall’interscambio comunicativo. Secondo Gardner, il processo analitico
è inevitabilmente un processo all’insegna del confronto tra le soggettività
dei due partecipanti. (A mio modo di vedere, questa è la migliore
esposizione dell’importanza dell’intersoggettività che è
dato di trovare nella letteratura psicoanalitica). L’implicazione di questo
cambiamento di attenzione all’interno del trattamento è che la conclusione
dello stesso risulta fattibile nel momento in cui il paziente ha imparato
a eseguire la propria autoindagine senza aver più bisogno di aiuto.


Gardner ha anche segnalato le costrizioni epistemiche al cui peso la psicoanalisi
si trova esposta in ragione del suo formato diadico: da un lato, l’analista
è in grado di aiutare il paziente a scoprire soltanto ciò
che egli analista ha già avuto la possibilità di scoprire
riguardo a se stesso; dall’altro, la relazione analitica porta inevitabilmente
al centro dell’attenzione i tratti del funzionamento del paziente all’interno
di una situazione caratterizzata da una fondamentale reciprocità.
In altre parole, l’analisi non è particolarmente ben congegnata
per la delucidazione delle condizioni che si verificano in una condizione
di solitudine: ne consegue che l’acquisizione della capacità di
autoindagine risulta peculiarmente cruciale al fine di permettere al paziente
di occuparsi per suo conto delle tematiche collegate con gli stati di solitudine,
in genere dopo la conclusione del trattamento.


Fianco a fianco con queste modificazioni dei punti di vista sugli aspetti terapeutici
di base, una serie di contributi più radicali (Ehrenberg, 1992,
Gedo, 1979, 1993; Jacobs, 1991; Modell, 1990; Rosenfeld, 1987; Searles,
1986) hanno aperto la via a un movimento verso un consenso circa la necessità
di assumere una nuova teoria della tecnica. Anche il modo in cui Gray (1994)
ha ridefinito la teoria tradizionale all’interno della psicologia dell’Io
fa capire in modo esplicito che l’approccio utilizzato da questa corrente
psicoanalitica classica può essere ritenuto adeguato soltanto quando
ci si confronta con le “nevrosi” (intese nel senso più stretto possibile;
si veda anche Gedo e Goldberg, 1973), o, per meglio dire, soltanto con
i transfert edipici. Influenzato dal lavoro di Gardner, Gray afferma che
le resistenze non dovrebbero essere scavalcate, ma piuttosto analizzate
in modo funzionale, cioè al fine di capire sempre meglio il modo
in cui opera la mente del paziente. Anche Gray auspica che si compiano
sforzi sistematici per promuovere la crescita delle capacità di
autosservazione del paziente, usando una modalità francamente educativa,
comprendente fin anche il ricorso a dimostrazioni, da parte dell’analista,
di come dovrebbe svolgersi tale operazione.


Diversamente da Gray, gli altri autori di cui qui stiamo discutendo non ritengono che
l’analista possa completare con successo il suo lavoro se la sua attenzione
rimane focalizzata esclusivamente sulle vicissitudini edipiche. Per esempio,
Searles segnala in modo documentato il fatto che tutti i suoi pazienti
hanno risposto al trattamento analitico (cioè allo stile specifico
con cui egli lo conduce) sviluppando dei transfert arcaici che egli chiama
“borderline”. Quando sopravvengono questi stati regressivi, la comunicazione
all’interno della situazione analitica non può più avere
luogo in modo efficace se la si mantiene confinata all’uso del linguaggio,
che è la modalità tipica del processo secondario. Nel tentativo
di superare queste complicazioni, la Ehrenberg, la cui monografia è
strettamente limitata alla discussione di punti pragmatici, delinea una
serie di regole pratiche applicabili al lavoro analitico. Il suo algoritmo
(cfr. Levenson, 1983) comprende l’invito a prestare un’attenzione marcata
alla semiotica non verbale, il monitoraggio della soggettività dell’analista
e l’impiego delle reazioni controtransferali come dati utili per la definizione
delle aspettative reciproche del paziente, la forte coloritura affettiva
della comunicazione, l’evitamento dei passaggi all’atto distruttivi da
parte di entrambi i partecipanti, e l’assunzione di responsabilità
per quanto riguarda l’individuazione di una soluzione utile al superamento
delle impasse terapeutiche.


Trovo molto incoraggiante la considerazione del fatto che a questo consenso tecnico
tuttora crescente portino il loro contributo una serie di analisti che
derivano la loro formazione da una vasta gamma delle tradizioni prevalenti
nella cultura psicoanalitica dell’epoca precedente a quella che è
qui in esame. Ecco quindi che Jacobs (uno psicologo dell’Io) riecheggia,
col suo pensiero, molte delle raccomandazioni proposte dalla Ehrenberg
(un’interpersonalista), ed entrambi mostrano un accordo piuttosto allargato
con le posizioni di Rosenfeld (un kleiniano). Ritengo, inoltre, che il
consenso che mi sembra di cogliere tra questi diversi autori sia già
stato articolato in modo esteso nei miei stessi scritti aventi per oggetto
la teoria della tecnica. Ancora, la teoria della tecnica da me proposta
è del tutto congruente con quella di Modell. Quest’ultimo definisce
il succo dell’azione terapeutica come la ritrascrizione della ripetizione
transferale delle esperienze traumatiche nei termini di nuovi significati,
e come l’eliminazione della scissione nell’organizzazione del Sé.
Modell ritiene che lo snodo centrale del trattamento sia la rieducazione
affettiva, che porta a un migliore padroneggiamento ottenuto tramite ripetizione
e ricontestualizzazione. In altre parole, per spiegare la psicopatologia
Modell pone l’accento sulle tematiche biologiche, piuttosto che non sui
contenuti mentali. Ne deriva che il compito della terapia consiste nell’acquisizione
di nuove capacità psicologiche.


Conclusione

L’ampia rassegna, sin qui presentata, delle monografie psicoanalitiche più significative
prodotte dall’ultima generazione di autori, sembra suggerire che le attuali
differenze teoriche all’interno del campo paiano in realtà basarsi
su un disaccordo fondamentale circa l’individuazione della metodologia
più appropriata ai fini del raggiungimento della conoscenza. La
più rigida di queste dispute epistemiche è quella che contrappone
coloro che indicano come centrale il bisogno di empirismo a coloro che
invece seguono un percorso prevalentemente razionale. Il primo gruppo concepisce
la psicoanalisi come una branca delle scienze naturali; gli autori del
secondo, viceversa, ripudiano in modo esplicito tale appartenenza, oppure
si limitano a riconoscerla in modo superficiale, dando comunque priorità
all’approfondimento di qualche dottrina filosofica. A differenza delle
scienze naturali, le discipline che impiegano un’epistemologia razionalista
mancano di una griglia di standard condivisi che confermino la validità
della disciplina stessa; di conseguenza, le scuole psicoanalitiche che
aderiscono al razionalismo possono mantenere i loro punti di vista in modo
aprioristico, prescindendo da qualunque tipo di prova empirica che possa
nel frattempo venire alla luce.


Una simile impervietà al confronto con i dati freschi (soprattutto quelli che
provengono dalle fonti extracliniche) ha caratterizzato un gran numero
di tradizioni psicoanalitiche che considerano la metapsicologia freudiana,
vecchia di un secolo, non come una teoria scientifica oramai confutata,
ma come una filosofia della mente che mantiene tuttora una sua affidabilità.
Un punto di vista di questo tipo è particolarmente evidente nel
caso di Lacan, le cui innovazioni sono state esplicitamente basate sul
lavoro di alcuni filosofi, tra cui ad esempio Hegel e Heidegger. A mio
giudizio, questo fenomeno riesce a spiegare anche la perdurante adesione,
da parte di molti kleiniani e mahleriani, alla metapsicologia del 1890,
sebbene tali autori non abbiano fornito alcuna giustificazione filosofica
che dia ragione della loro scelta di campo.


E’ invece più difficile comprendere la recente emergenza di una scuola di
pensiero (esclusivamente) ermeneutica all’interno della psicoanalisi, dato
che lo sviluppo di questa corrente è stato indubitabilmente precipitato
dall’invalidazione della metapsicologia freudiana ad opera dei dati forniti
delle moderne neuroscienze. E tuttavia, proprio questo fatto ha portato
un certo numero di autori a concludere che la psicoanalisi non è
una scienza naturale: con la loro adozione di un punto di vista puramente
ermeneutico, questi autori hanno cercato, dal quel momento in poi, di liberarsi
completamente dell’obbligo di prestare orecchio alle eventuali presentazioni
di nuovi dati empirici. Come ben più di un epistemologo ha già
dimostrato, una tale decisione filosofica non può che condurre a
uno stato di anarchia intellettuale, dato che non fornisce a chi la intraprende
nessuna base logica su cui fondare la scelta tra spiegazioni diverse in
reciproca competizione.


Tra gli autori che hanno contribuito in modo più attivo al discorso psicoanalitico,
la stragrande maggioranza ha optato per l’affiliazione della disciplina
alle scienze naturali e al metodo empirista già appoggiato dai molti
epistemologi che si interessano a loro volta di psicoanalisi. Tra le fila
di questi autori, tuttavia, si segnala un’ulteriore divisione a proposito
del problema mente/corpo, che porta la schiera a dividersi tra monisti
e dualisti. Nessun epistemologo psicoanalitico aderisce alla posizione
dualista, e neppure nessuno psicoanalista si è spinto a sostenere
apertamente una posizione così fuori moda, ma molti di questi ultimi
trascurano comunque in modo patente tutto ciò che non siano i contenuti
mentali: in altre parole, costoro, di fatto, fanno ricorso a presupposti
eminentemente mentalisti. Tra i testi che ho passato in rassegna in queste
pagine, ritengo di poter classificare come mentalista il lavoro della quasi
totalità degli autori che fanno riferimento alla scuola relazionale
(compresi gli psicologi del Sé).