di Giorgio Bona

Cento grammi di vodka e il fumo di una Kazbek a invadere le narici mentre passeggiavo lungo la Neva a Leningrado. Un invito alla calma per una due giorni di evasione dal frenetico universo moscovita.

Leningrado si preparava per la notte. Godere della sua bellezza e del suo fascino ha qualcosa di straordinario. Abitare in Russia ti porta a vedere la vita con un’ottica completamente diversa, ti invita alla riflessione.

Nella fretta della partenza – realizzai all’improvviso – non avevo effettuato il cambio di valuta: vista l’ora tarda non avevo alcuna voglia di fare code all’ufficio cambi di qualche albergo per stranieri con quelle file interminabili.

Si sa, la Russia è celebre per le sue code, per i suoi moduli da compilare, per le lungaggini della burocrazia.

Ecco tre tipi che mi stavano venendo incontro, potevano fare al caso mio. Tre farsovsiki (trafficanti) che di solito si aggirano nei pressi degli alberghi per concludere affari, soprattutto con l’attività del mercato nero.

Uno dei tre, quello che sembrava il capo, si avvicinò: “Cambiare? Un dollaro due rubli e mezzo”. Gli feci presente che a Mosca il cambio al nero era più favorevole e un dollaro si cambiava a tre rubli.

“Qui non siamo a Mosca, siamo a Leningrado. Malavita italiana malavita russa fare affari”.

Tirai fuori trenta dollari, e settantacinque rubli scivolarono velocemente nelle mie mani. A questo punto un suo compare si avvicinò, viso a viso, e mi mostrò un’audiocassetta, di quelle rudimentali, registrate in proprio. Voleva dieci dollari e io allungai la banconota per levarmeli di torno. Si dileguarono in un attimo.

Alla fine di agosto 1981, Leonid Brežnev era ancora al governo del paese. Da lì a breve sarebbe avvenuta la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Erano gli anni dell’atrofia del periodo brezneviano e del lento passaggio di potere.

Ma fu proprio nell’agosto del 1981 che in uno scantinato nella periferia di Leningrado sotto il nome di Garin i Giperboloidy (“Garin e le iperboloidi”, ispirato al racconto Le iperboloidi dell’ingegnere Garin di Aleksej Tolstoj), Viktor Coj (basso e voce), Aleksej Rybin (chitarra) e Oleg Valinskij (batteria) si incontrarono: con il tempo sarebbero stati considerati i pionieri della musica rock in Unione Sovietica. Dopo l’abbandono di Valinskij richiamato dalla coscrizione obbligatoria la band mutò nome in Kino.

Ora sette dei loro brani erano nelle mie mani, in quella rudimentale audiocassetta registrata chissà dove e che non vedevo l’ora di ascoltare.

I Kino iniziarono a suonare sulla scena underground esibendosi in piccoli appartamenti e copiando in casa le audiocassette delle loro esibizioni. Testi che rievocavano sensazione di tristezza, insoddisfazione di vivere in una società corrotta e oppressiva, senza alcuna opportunità di miglioramento, e rappresentarono per una decina d’anni la voce del malcontento di quei cittadini stanchi delle condizioni precarie in cui versavano e delle menzogne dei politici.

La loro stella smetterà di brillare quando nel 1990 il suo leader Coj morirà in un incidente d’auto in Lettonia e il gruppo abbandonerà la scena dopo aver raggiunto una grande popolarità. Nelle strade della capitale non di rado si sentono ancora oggi le canzoni dei Kino interpretate da giovanissimi musicisti di strada. La volontà è di perpetuare un messaggio avvertito come pressante nonostante lo scetticismo di molti: la perestrojka non è una moda che passa, un fenomeno ancorato ai mutamenti degli anni Ottanta, ma un grido di libertà “puro” che resta nel tempo come provocazione necessaria.

La band aveva iniziato la propria attività in uno dei luoghi simbolo del rock sovietico, il Leningradiskij Rok-Club nella Via Rubinstein, uno degli ambienti più progressivi della città: vi si riunivano i giovani devoti alle espressioni d’arte occidentali e il rock rientrava tra queste. Ovviamente in Russia non ebbe vita semplice: come una letteratura samizdat la sua caratteristica intrinseca fu la clandestinità.

45 era il titolo dell’audiocassetta in mio possesso, la prima esperienza del gruppo, un lavoro sicuramente acerbo dove più che la musica erano i testi ad attirare l’attenzione: metafore della vita borghese e del bisogno di evadere, critiche all’omologazione voluta dal governo, incantevoli paesaggi naturali che evocavano visivamente l’idea di spirito libero.

Di band che cominciavano a suonare il rock senza il guinzaglio delle autorità ne stavano nascendo diverse, costrette a restare nascoste e a esibirsi in clandestinità quasi sempre con strumenti acustici adeguati a non essere facilmente rintracciate dalla milizia.

45 uscì ufficialmente nel 1982. Due anni dopo, con un cambio di sound all’inizio dell’epoca gorbacioviana, ecco Načal’nik Kamčatki (1984), cui collaborò Boris Grebenščikov, leader e cantante di un’altra band ancora oggi attiva, gli Akvarium.

Proprio in quell’anno la musica dei Kino sollevava le complesse questioni sociali e politiche degli anni della svolta. Dichiaro la mia casa una zona denuclearizzata assurse così a canzone per eccellenza contro la guerra, un inno per i giovani inviso al KGB che ascrisse il gruppo all’elenco dei più dannosi: e Viktor Coj ne era l’emblema ufficiale.

Gruppa Krovi (Gruppo Sanguigno, 1988), il sesto album, è sicuramente quello più conosciuto del gruppo, e uno dei più significativi in clima di perestrojka: i leitmotiv sono un incitamento all’azione, al cambiamento, alla lotta. Per molto tempo Gruppa Krovi venne associato alla guerra in Afghanistan:

 

Il mio gruppo sanguigno è segnato su una manica,

C’è il mio numero ordinale segnato su una manica,

Augurami un po’ di fortuna in battaglia…

 

Questo lavoro consacrerà il gruppo oltre la cortina di ferro e la band si esibirà in Europa, anche in Italia a Melpignano in provincia di Lecce dove suonerà un paio di canzoni mentre il pubblico resta in attesa del concerto dei Litfiba: e proprio in questa occasione nascerà l’idea di uno storico tour dei Litfiba in terra sovietica.

Mi fermo qui mentre ho appena attraversato il Nevsky Prospekt in solitudine e la città si prepara per la notte.

Una pioggerellina fine accompagna il mio cammino. Accendo un’altra Kazbek e ogni tiro è una nota: Non puoi dormire qui, non puoi vivere qui. Buongiorno ultimo eroe, buongiorno a te e a quelli come te.

(1-continua)

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