di Roberta Cospito

Gloria De Paoli, Fondali, Zona 42, pp.236, euro 15,90 stampa

Gloria De Paoli è una scrittrice esordiente che sceglie di iniziare la sua carriera letteraria con un romanzo in odor di distopia. Scelta inusuale, dal momento che la letteratura italiana femminile è piuttosto povera di titoli distopici.
Viene in mente, per esempio, Nicoletta Vallorani e il suo Avrai i mei occhi (Zona 42, 2020) ambientato in una Milano soffocata da nubi pulviscolari, divisa in zone da alte mura, nelle cui strade si incrociano ragazzini stracciati e mucchi di cadaveri e Maria Attanasio che colloca la sua storia distopica Il condominio di Via della Notte (Sellerio, 2013) in un ambiente urbano, precisamente a Nordìa. una metropoli-stato, miraggio di perfezione collettiva, fondato su disciplina, sicurezza e un consenso sociale estremo e intollerante che entusiasma la maggioranza della popolazione, spaventando chi sceglie di resistere.
Tra questi nomi si inserisce De Paoli che, invece, ci cala in una Torino riconoscibile solo dai nomi delle strade e dei palazzi, una Torino già visitata in chiave distopica sotto la guida di Giorgio Di Maria che ne Le venti giornate di Torino (Frassinelli, 2017) la descrive come una città sconvolta da fatti di sangue, in cui misteriose e spettrali figure grigie compaiono per le strade sbattendo violentemente al suolo o contro gli alberi gli umani che malauguratamente incontrano nelle notti insonni che caratterizzano quel periodo.
In Fondali la città è ormai un cumulo di macerie, ridotta così da una serie di epidemie, alluvioni, lunghi periodi di siccità e da una continua guerriglia urbana.
C’è una profonda spaccatura tra un mondo di privilegiati protetti da mura, un mondo sotterraneo dove pare prosperare un nuovo violento potere e un mondo di profughi e sbandati che hanno deciso di non sottostare alle varie regole imposte dagli altri in nome di una più probabile sopravvivenza.
La protagonista del romanzo, Rosalina, appartiene a quest’ultimo gruppo di diseredati.
“A quei tempi c’erano solo due scelte: sprangarsi in casa, o unirsi alla guerriglia. A un certo punto l’esercito è entrato in città in grande spolvero: avevano carrarmati e granate e jeep blindate e soldati in tenuta d’assalto, il pacchetto completo. Sembrava che le cose fossero tornate più o meno sotto controllo, e invece poco dopo il governo aveva smesso di esistere, fagocitato dalla sua stessa irrilevanza. I militari ne avevano approfittato, si erano messi anche loro a saccheggiare e distruggere e stuprare, gonfi di ferocia repressa. Alcuni si erano creduti più furbi, e avevano venduto ai rivoltosi tutte le armi e gli esplosivi che erano riusciti ad arraffare. Tutti contro tutti, armati fino ai denti: non poteva finire bene.”
Nonostante la devastazione tutti, in qualche modo, cercano di sopravvivere grazie anche a una piccola routine quotidiana fatta di ricerca di cibo e altri generi di prima necessità, di una qualche attività volta a procacciarsi medicine e droga, e scandita anche da momenti di condivisione del tempo libero con amici e conoscenti; per fortuna, questa piccola comunità ha ancora voglia di organizzare feste e ascoltare musica: molti di loro sono ex raver e quindi hanno vissuto per anni frequentando feste clandestine.
Il punto di forza della storia è la particolarità della protagonista che pone tutto il racconto in una prospettiva non banale. Rosalina, non è una donna giovane ed è afflitta dalla sclerosi multipla, malattia invalidante in progressione e questo, in un mondo in disfacimento e senza un futuro immaginabile, rende ancora più problematico il vivere quotidiano. Non solo, il tutto si complica quando Aron, l’amato nipote diciassettenne, scompare e lei decide di andare alla sua ricerca attraversando la città armata solo di un bastone glitterato che l’aiuta nella sua difficoltosa e spesso dolorosa deambulazione, e un piccolo coltello a serramanico.
Usando la lente della distopia, Gloria De Paoli descrive un mondo che sicuramente riconosciamo come nostro, caratterizzato da comunità relegate ai margini che faticano a sopravvivere; decisioni imposte dall’alto senza nessuna condivisione o richiesta di un parere a chi, con queste, si trova a dover convivere; dalla solitudine di chi è diverso o semplicemente non allineato; dalla necessità o voglia di fuga da una realtà difficile da capire e sopportare; da rapporti familiari tesi e minati da preconcetti; da persone trattate come merce di scambio; dalla difficile vita di chi ha una disabilità non alleggerita da grosse disponibilità economiche.
Per fortuna, ci possiamo riconoscere anche in alcuni personaggi ben descritti dall’autrice che fanno parte di un’umanità capace di solidarietà e di rendersi utile senza secondi fini, che riesce a vedere la bellezza dove oggettivamente non c’è, che trova la forza di resistere nello sguardo degli altri, che sceglie di decidere della propria vita in autonomia, nonostante le varie pressioni esterne e che riesce a trovare una giusta collocazione in un mondo in cui tutto appare sbagliato.

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