di Chiara de Stefano
Rachel Ingalls, Benedetto è il frutto, trad. di Giovanna Granato, pp. 274, € 20, Adelphi, Milano 2025.
Nel panorama della letteratura americana contemporanea, che in autori come Wallace e Franzen s’incornicia nell’iperazionalismo scientifico, Rachel Ingalls con Benedetto è il frutto pare provenire da un Altrove mutabile, in cui l’ordinario pulsa di irrequietudine e il reale viene scosso da un’irruzione del perturbante e del metafisico.
Composta da cinque racconti, la raccolta si offre come una parabola infetta, breve e impietosa, talora asettica nella sua tessitura, ma gravida di presagi e di simbolismi oscuri. Come nei racconti di Robert Aickman o di Henry James, l’inspiegabile si deposita tra le pieghe del gesto quotidiano, dell’oggetto ordinario: un forno, una tazza, una telefonata. C’è però in Ingalls una sapienza del non detto che si avvicina a quella di Katherine Mansfield, ma la tinge delle tinte vermiglie del maleficio. L’ordinario è, dunque, un esorcismo vano.
Il titolo stesso, Benedetto il frutto, è estratto dalla liturgia mariana, ma suona qui come un versus inversus, un’eco sacrilega: il frutto del grembo, anziché salvifico, è presagio, fardello, segnale di un mondo irredimibile e fatale. Come accade nella pittura di Grünewald, la carne diviene teologica, ma decomposta, staccata dalla gloria e restituita al silenzio primordiale. L’elemento soprannaturale non irrompe mai in forma spettacolare, ma si insinua attraverso sguardi sfalsati gesti meccanici, dettagli stonati.
Nel racconto eponimo che inaugura la raccolta, Benedetto è il frutto, un giovane monaco, in seguito a un incontro carnale con l’arcangelo Gabriele, rimane incinto: il processo di femminilizzazione biologica che lo trasforma, giorno dopo giorno, in una donna, è calato in un’atmosfera che sembra mutuare l’allucinazione cristologica di Flannery O’Connor. La blasfemia è però solo apparente: ciò che conta, in realtà, è la restituzione di un corpo che si fa mistero e del mistero che si fa carne.
In Amici in campagna, invece, la tensione si articola in una struttura da incubo lynchiano: una coppia borghese accetta un invito a cena in una villa sperduta, dove ogni dettaglio si fa ambivalente e ogni gesto è ambiguo, ma carico di minaccia. Al ritorno, nella nebbia che sembra uscita da un sogno di Friedrich, i due vengono assaliti da una moltitudine di rospi carnivori. Un finale che ricorda quello del film Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson per l’impressione che il reale stesso, stanco della propria coerenza, ceda alla febbre dell’arbitrario e divori finalmente l’umanità intera.
Ma è con In flagrante che Ingalls raggiunge una delle sue vette più perturbanti: una casalinga scopre che il marito, scienziato, ha creato una bambola perfettamente umana per appagare i suoi ardori lombari. Lei, lungi dal provare indignazione, reclama un analogo giocattolo sessuale maschile. Ma una volta ottenuto, giunge all’amarissima constatazione che quel “bambolo” è, al massimo, «interessante quanto un vibratore». L’ironia è feroce, quasi swiftiana e affonda il bisturi nel cuore delle relazioni post-umane, là dove il desiderio si smarrisce nella meccanica della replica, ma la le logiche del tradimento e della vendetta rimangono immutate.
Lo stile di Ingalss è al contempo piano e straniante, domestico e spettrale: il reale, nelle sue mani, è sempre sull’orlo del disfacimento, minacciato da epifanie aberranti o da incrinature che si spalancano improvvise nell’ordito del quotidiano. Nei racconti emerge un’attenzione chirurgica alla logica dell’assurdo che si manifesta con impassibilità e lambisce sempre il sacro. C’è qualcosa di conradiano in questa discesa nella zona cieca della mente umana, ma è sempre filtrata da uno sguardo squisitamente femminile, che fa della claustrofobia domestica il teatro del soprannaturale.
Le tematiche quasi visionarie precorrono molte delle ossessioni del nostro tempo: l’ambiguità del corpo, la fluidità dell’identità, il perturbante che nasce non tanto dall’eccezionale, quanto dal familiare che si sfalda e lascia spazio all’assurdo come forma superiore della verità. Ingalls armeggia con un realismo spoglio, quasi beato nella sua povertà verbale, per slittare – senza enfasi alcuna – nell’incubo, nella zona del sacro contaminato di Rudolf Otto, dove il mysterium si fa tremendum.
Siamo dinanzi dunque a una narrativa liminale con richiami al manierismo morale latente, gnostico, attraversata altresì da un senso di separazione ontologica dal bene in cui – come nelle migliori narrazioni di genere – ciò che inquieta non è tanto l’evento in sé o la sua irruzione, quanto il modo in cui esso si deposita, silenzioso e definitivo, nella psiche del lettore.