di Sara Picardi e Franco Pezzini

Ho sempre vissuto nel presente, nel qui e ora. Non mi sono mai preoccupata di vocazioni o carriere, né ho fatto proiezioni nel futuro. Amo dipingere. Ho dipinto. Perciò ero una pittrice. Quando la gente mi chiede: “Come lo fai?”, io rispondo: “Io sono”.

 

Leonor Fini, nata nel 1907 e attiva fino alla sua morte nel 1996, è stata una pittrice, e più in generale una creativa, straordinariamente virtuosa, capace di attraversare tutto il Novecento sperimentando attraverso stili e tecniche diversi. Eppure, ancora oggi, è necessario introdurla, come se fosse rimasta ai margini della narrazione ufficiale dell’arte.

Un paradosso, se si considera che Fini ha costruito un’intera carriera, e un universo estetico coerente e riconoscibile, attorno alla rappresentazione di sé. Un lavoro costante, ossessivo, quasi maniacale. In questo senso, appare anacronistico doverla “presentare”: l’artista si racconta perfettamente attraverso la vastità e la forza simbolica del proprio lavoro. Ma a questo tipo di paradosso risponde felicemente la sontuosa mostra Io sono Leonor Fini a Milano, Palazzo Reale (dal 26 febbraio al 22 giugno). Curata da Tere Arcq e Carlos Martín, l’esposizione non rappresenta un mero tributo a una delle artiste eccellenti assurte anche tramite i social a idoli pop di facile moda (oltre a Fini, si pensi ai casi delle colleghe Leonora Carrington e Remedios Varo): in questione non è solo la proposta di celeberrime opere d’arte – magari quelle tavole più note ripresentate sui social di continuo e che avvicinate in originale, sia chiaro, rappresentano esperienze straordinarie. L’aspetto piuttosto che colpisce di più è costituito non solo dall’ampiezza di sguardo sulla sua produzione, di cui nella mostra si ripropone il complesso itinerario (periodi diversi, ispirazioni differenti, opere anche meno note), ma dal focus attento sullo spirito dell’artista e il senso della sua ricerca, anche grazie al ricorso a molte foto, vecchi video con interviste e auto-ostensioni di sé a mezzo tra il teatro e il rito. Merita tra l’altro lodare la scelta di comunicazione di presentare Io sono Leonor Fini attraverso lo splendido Autoportrait au chapeau rouge (1968), preallertando gli spettatori alla ricerca, nel resto della mostra, degli incomparabili arancioni e azzurri dell’autrice.

Istrionica ma capace di riflettere in profondità sul senso del proprio epifanizzare – in costumi, maschere e ornamenti di rara spettacolarità a feste che diventano liturgie –, liberissima ma non carente di sistematicità – basti pensare alle tavole d’illustrazione da lei dedicate a testi visionari come Satyricon e Carmilla, ma anche Histoire d’O e Justine –, aperta al gioco con tutta la serietà del gioco dei bambini, Fini mira a stupire gli altri e forse ancor più se stessa, a dare cioè ragione di un proprio stupore fondamentale, di un linguaggio onirico e mitopoietico. Affascinata come Carrington e Varo dalle ragioni del magico, lo utilizza in modo sottilmente diverso, meno tecnico e più mediato attraverso i linguaggi del mito e del sogno. Come d’altra parte nelle due colleghe citate (le cui vite trattengono peraltro una misura di dramma più marcata), alla particolarità dei suoi esiti artistici contribuisce il cosmopolitismo della sua formazione: a partire dalla Buenos Aires di un’immigrata e dal crogiolo di Trieste, insieme italiana e mitteleuropea, poi a Milano e a Parigi sua patria di adozione (Max Ernst definirà Leonor “la furia italiana a Parigi”), a New York, nel sud e poi nel nord della Francia e a Montecarlo, a Roma, a Venezia… le tappe del suo vagare sono sempre punti di raccordo di interlocutori dalla cultura eclettica. Mentre d’estate l’artista si ritira con alcune anime affini presso luoghi semiabbandonati dove disegnare, dipingere, fotografare e camuffarsi: un’antica torre di avvistamento sul lungomare di Anzio, il monastero abbandonato di Nonza in Corsica…

Il movimento che più si avvicina alla sua poetica è senza dubbio il Surrealismo. Sarà lei stessa a definire l’incontro con il movimento come “logico”, a conferma di un’affinità profonda che però non diventa mai una completa adesione, e la vede smarcarsi e porre distinguo. Partecipa ad alcune esposizioni surrealiste, tra cui la storica International Surrealist Exhibition del 1936, alle New Burlington Galleries di Londra, dove furono presentate opere come L’Arme Blanche (1935) e Les Initiales / Jeu des jambes dans la clé du rêve (1935). Ma nonostante tali legami, Fini mantiene sempre una certa distanza critica dal movimento, in particolare dalla figura un po’ ingombrante e quasi dogmatica del suo fondatore, André Breton:

Quando sono arrivata a Parigi ho incontrato alcuni surrealisti, che pensavano potessi far parte del movimento. Non ho mai aderito. Avevano troppe regole, costrizioni, cose con cui non potevo convivere. Ma ero amica di alcuni surrealisti che mi piacevano molto, come Max Ernst, Eluard e altri.

 

Del resto certe cose le sente dall’infanzia, spiega Leonor, molto prima della fondazione di un movimento surrealista; e comunque le va stretta la rigidità dell’approccio di Breton & soci, anche e proprio in una dimensione per Fini fondamentale, la sessualità (sul punto dovremo tornare). Poi certo si può parlare in senso lato di surrealtà per indicare le ragioni dell’onirico e del visionario delle tavole finiane, e una panoramica sul surrealismo femminile sarebbe mutila senza considerare l’eresia della sua opera: ma è chiaro che si tratta di esiti liberissimi e originali, declinati oltretutto in una varietà di campi, da disegno e pittura – d’illustrazione o meno – a scenografia e costume anche per il cinema, a fotografia e scrittura di romanzi, ai legami con il teatro e in generale a tutta una vita concepita come opera d’arte fin nell’apparizione in costume alle feste.

Proprio il contatto con il Surrealismo, d’altra parte, le permette di entrare in relazione con diverse artiste donne, tra cui Dorothea Tanning, Meret Oppenheim e Leonora Carrington. Con quest’ultima, in particolare, condividerà l’interesse per l’alchimia e un immaginario al tempo stesso magico e di esplorazione. Ne nasce una rete di solidarietà femminile fondamentale per lo sviluppo di una poetica autonoma, libera e profondamente visionaria.

Non a caso, il mondo creativo di Leonor Fini è popolato da figure femminili solidali e sovrane: creature androgine, sfingi, streghe, gatte. Queste non si limitano a sedurre: esercitano potere, e lo fanno con consapevolezza e piena autonomia. Inoltre sono d’esempio l’una per l’altra. Sul comodino della sua camera da letto, Fini tiene la riproduzione di un disegno di Michelangelo raffigurante Cleopatra, un volto enigmatico, assorto, imbronciato ma non sconfitto e piuttosto superiore.

Nel suo universo personale, il potere femminile assume una connotazione esoterica, misteriosa e sacrale che forse affonda le proprie radici in una verità biologica: che la donna è una creatura capace non solo di generare la vita, ma anche di dominarla quanto meno per un certo lasso di tempo, in quanto la vita che nasce da lei è da lei, in una certa fase, completamente dipendente.

Emblema di questo pensiero è la sfinge, leitmotiv della sua opera e alter ego dell’artista stessa. Come dichiarerà:

Volevo essere forte ed eterna, essere una sfinge vivente. Poi ho capito che la combinazione uomo-animale rappresentava uno stato ideale. Mi identificavo con l’ibrido. La sfinge è un essere che domina con calma gli uomini e prova pietà per loro. Ma può essere anche molto pericolosa.

 

L’immaginario di Fini è profondamente intrecciato alla sua biografia, a partire da esperienze traumatiche rielaborate in chiave positiva. La sua passione per i travestimenti, ad esempio, nasce da un episodio dell’infanzia: quando i genitori si separarono, il padre tentò di rapirla per sottrarla alla madre. Dopo averla recuperata, la madre iniziò a vestirla da maschio per proteggerla da eventuali nuovi tentativi di rapimento.

Anche in questo episodio si ritrova un motivo ricorrente nell’opera di Fini: il mondo maschile come forza minacciosa da esorcizzare con un depotenzialmento rispetto alla propria brutalità, mentre il femminile è uno spazio di protezione, astuzia e trasformazione.

I due universi, maschile e femminile, si intrecciano in modo misterioso in un’altra immagine chiave della sua iconografia: quella dell’uomo dormiente, vegliato da una donna, figura insieme protettiva e voluttuosa.

Fini raccontò che la prima volta che vide un corpo maschile nudo fu all’obitorio di Trieste: un giovane gitano bellissimo, identificato con il nome suggestivo di “Mario La Vita”, scritto sul cartellino al dito. Il custode, accompagnandola, le disse che: “Era bello, e tutti i bambini devono vedere ciò che è bello”. Tale visione perturbante e sensuale  lasciò in Leonor un’impronta profonda, e  forse anche il fatto che a farla scaturire fosse stato lo slancio di un maschio adulto avrebbe lasciato un segno su di lei.

Uno dei primi dipinti in cui questo ricordo riemerge è L’alcôve (Autoportrait avec Nico Papatakis, 1941), in cui l’artista si ritrae accanto a un corpo maschile dormiente. Il motivo, poi ripetuto più volte nella sua carriera (si pensi al celebre Femme assise sur un homme nu, 1942, o a Divinité Chtonienne guettant le sommeil d’un jeune homme, 1946), richiama le immagini classiche di Selene e Endimione: la divinità femminile che veglia sull’amato addormentato. Ma è anche un ribaltamento radicale del tradizionale rapporto artista/modella: qui è la donna ad agire, osservare, dominare; l’uomo è oggetto dello sguardo e del desiderio femminile, affidato al suo vegliare, alla sua cura potente (come in Autoportrait avec Constantin Jelenski, 1952, dove lei lo guida con autorevolezza da Sibilla). Ancora una volta, Fini sembra cioè “proteggersi” attraverso il potere: “La gente dice che amo dominare. Non ne ho bisogno. È un fatto” dichiara ridendo in un documentario del 1966 a lei dedicato.

Tuttavia, ad uno sguardo più attento, è evidente che nel regno simbolico di Fini, l’incontro-scontro tra i sessi non è drammatico né tragico: è piuttosto una rivolta giocosa contro l’idea che i generi debbano rimanere imprigionati in sovrastrutture ridicole. E infatti del Surrealismo Leonor criticava soprattutto la misoginia e l’omofobia nascoste sotto la superficie. E nelle proprie osservazioni, denunciava la “virilità tossica” molto prima che questa espressione, ormai comune, esistesse:

 

Gli uomini sono meno virili di quanto credano o fingano di credere. È un atavismo che li porta ad accentuare certi tratti a scapito di altri, più profondi. Io sono a favore di un mondo di sessi non differenziati.

 

L’eco della pulsione di morte riecheggia in una simbologia di cui l’opera Stryges Amaouri (1947) è manifesto: l’edera avvolge un uomo inerme, alle cui spalle sorgono una figura femminile misteriosa col capo adornato da un teschio, spaventosamente somigliante all’artista, che fissa lo spettatore, e, centrale, come a fare da ponte, una strana creatura pelosa ibrida, ideale intermediaria tra poli opposti: maschile e femminile, eros e dissoluzione, vita e morte.

E proprio un concetto raggelante come la morte assume nuovi connotati, che ribaltano l’emozione finale. L’inquietudine è superata dalla fascinazione, o meglio: l’inquietudine stessa si trasforma in eccitazione. Fa tutto parte di un gioco seduttivo, quel potere ambiguo e irresistibile che attraversa tutta l’opera creativa di Leonor Fini. Un’arte che è al contempo affermazione e disfacimento, travestimento e rivelazione.