di Franco Pezzini

“The most unusual magazine ever published”: così veniva presentata, all’uscita mezzo secolo fa nel 1970, Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural, in forma di settimanale da edicola, probabilmente la prima e comunque la più leggendaria rivista mai apparsa in materia.

A trattare di antropologia religiosa, mitologia e appunto – in abbondanza – magia, sotto la cura di Richard Cavendish (storico inglese specializzato nel filone dell’occulto, 1930-2016), per la bellezza di un migliaio di articoli, sono più di duecento autori accademici e non, alcuni di notorietà ultraconsacrata: e scorrerne l’elenco fa un certo effetto. Vi troviamo letterati come Robert Graves e Christopher Isherwood, un’autorità dell’archeologia preistorica del calibro di Stuart Piggott, un sociologo specialista in fanatismo religioso come Norman Cohn, occultisti quali Ambelain e Kenneth Grant e studiosi di storia dell’occulto come Francis King e Ribadeau Dumas, cultori di studi arturiani come Ashe, e poi sociologi e folkloristi, criminologi e teologi, critici d’arte e botanici… e tantissimi altri, perché lo spettro tematico è giustamente ampio e gli articoli (in uno stile comprensibile al grosso pubblico) presentano comunque taglio enciclopedico.

A supportare Cavendish sono esperti di consacrata notorietà: nell’editorial advisory board figurano l’etnografo Cottie Arthur Burland del British Museum, l’archeologo gallese Glyn Daniel editor di Antiquity, il leggendario grecista E. R. Dodds (autore, per dire, del famoso I greci e l’irrazionale), l’antropologo religioso Mircea Eliade dalle brutte frequentazioni politiche ma senz’altro di immensa erudizione, e l’importante  psichiatra William Sargant; mentre quali educational board consultants sono John Symonds, esecutore testamentario di Aleister Crowley e autore della sua (discussa) prima biografia nonché di altri testi sull’occulto, R. J. Zwi Werblowsky, docente di Comparative Religion a Gerusalemme e specialista in cabala e misticismo ebraico, e il cattolico Robert Charles Zaehner, studioso di religioni orientali. Art director di una rivista oltretutto molto illustrata – dove l’ampiezza delle pagine e il molto colore annunciano il passaggio alla grafica dei Settanta – è Brian Innes, già percussionista della band The Temperance Seven attivissima nel decennio precedente.

I centododici fascicoli usciti per i tipi BPC Publishing, Ltd. verranno poi riuniti in un monumentale volume in seguito variamente riproposto (e per esempio l’edizione 1995 avrà una serie di nuovi consulenti e contributori).

Ripetiamolo, 1970: e una simile clamorosa intrapresa era stata preparata da un paio d’anni di effervescenza in tema mitico-magico su carta e sugli schermi. Fin dall’inizio degli anni Sessanta simili suggestioni avevano prosperato underground, o in forme appartate, o attraverso la libertà di riletture artistiche (letteratura compresa), quasi in controcanto alla ripresa industriale e alle paure atomiche; ma con Sessantotto, rivoluzione sessuale e diffusione di massa delle utopie, da ogni tombino o semplice fenditura del suolo occidentale era parso eruttare qualcosa di magico. L’uscita di Man, Myth & Magic rappresenta dunque una sorta di ufficiale presa d’atto di un revival epocale dell’occulto: un fenomeno il cui impatto al tempo e la cui variegata latitudine può difficilmente arrivare a percepire chi non la ricordi, tanto pervasiva era la forma assunta. Giornali di ogni tipo, infiniti volumi (sia di case editrici nate apposta, sia delle grandi che cercano di cavalcare il fenomeno senza cadute), programmi televisivi, film; e poi discorsi tra amici, sedute spiritiche… Se quella stagione di febbri dell’immaginario terminerà a fine anni Settanta, la sua eredità arriva ai giorni nostri e – al di là di maggiori o minori fortune – sembra destinata a non conoscere un’estinzione.

Ma che senso può avere parlare oggi di questi temi, tanto più su una testata come Carmilla? In questione non è certo un dato di convinzioni soggettive sulla fondatezza o meno di fenomeni “magici” (usiamo il termine con tutta la latitudine del caso) o l’adesione a una filosofia di vita che li comprenda o giustifichi. Ciò accederebbe – anche in forme alte, pensiamo a certe riflessioni di Jung – a una dimensione di idee più o meno personali nel cui merito non ha senso entrare in questa sede. O comunque in questo pezzo.

Più interessante sembra il fatto che, a prescindere dalla natura “sostanziale” di alcuni fenomeni, il linguaggio mitico-magico possa risultare congruo a esprimere realtà profonde della nostra vita interiore. Una fictio, se vogliamo, o piuttosto un efficace teatro, di volta in volta simbolico o metaforico, utile a comunicare coi nostri sottoscala, a dar parole a concetti sfuggenti o inaccettabili, a innescare reazioni del singolo o della comunità. Qualcosa che attiene all’immaginario, con tutta l’ambiguità del concetto – nel senso di immaginario subìto, agito o un misto dei due.

Ciò che non riguarda soltanto l’etnopsichiatria o gli studi antropologici su terre remote (peraltro nell’insidioso rapporto tra osservatore e fenomeno): si tratta di realtà che impattano sul sentire dell’uomo comune qui e ora. Del resto lo sappiamo, per esprimere alcune realtà abbiamo bisogno di linguaggio mitico-magico: se parliamo d’amore non possiamo ricorrere al gergo delle neuroscienze, mentre ne utilizziamo un fortemente simbolico, pieno di mito e di magia. La discesa negli inferi di cui prima o poi quasi tutti facciamo esperienza ben prima della morte fisica è una realtà psicologica – ma vorrei dire esistenziale – serissima e molto concreta. Ma gli esempi sono infiniti, e una certa ritualità appartiene a prassi di liberazione che riguardano anzitutto il nostro modo profondo di comunicare. “Siamo simboli e viviamo in essi” ha scritto da qualche parte Emerson.

Un certo linguaggio offre parole-chiave potenti, metafore che ne fanno scattare altre a profondità diverse del nostro cervello, in chiave di vere e proprie macchine per pensare. Cifre linguistiche adeguate per definire poteri che dominano singoli o masse umane, e non sono riproducibili tout court in laboratorio; per denunciare fantasmi che restano insidiosi anche se la loro natura è diversa da quella postulata dai medium, e non infestano soltanto l’interiorità del singolo ma intere società; per sottolineare l’azione di vampiri che succhiano energie vitali – e ai fini pratici poco importa se si tratti di chissà quali misteriose risacche energetiche o invece di qualcosa molto più banale, psicologico o magari socioeconomico. O ancora, ci permette di parlare di certi entusiasmi: e badiamo che il termine entusiasmo già la dice lunga, perché etimologicamente implica un’idea di possessione (ἐνθουσιασμός, cioè ἐν/“in”, θεός/“dio” e οὐσία/“essenza”, insomma l’essere posseduti dall’essenza di un nume, come Apollo o Dioniso). Quindi magia come linguaggio efficace, potente, con tutte le traslazioni metaforiche del caso. In ciò la fictio mitico-magica è un po’ simile a quella della letteratura o del teatro: per rivelarci verità sostanziali, umanissime, queste arti devono mentire, o almeno recitare bene una parte. Altrimenti non coinvolgono le aree giuste del cervello, o – forse meglio – le giuste emozioni.

Il che d’altra parte traghetta anche a dimensioni più storiche, sociologiche e persino politiche. Il pensiero mitico-magico e la sua storia hanno un peso serissimo a livello culturale, e coinvolgono da un lato scienza e arti (letteratura compresa) e dall’altro ideologie e dinamiche di una vita collettiva. Possiamo e dobbiamo essere orgogliosi di una serie di categorie del pensiero illuminista, ma solo una versione inaccettabilmente asfittica sottovaluta oggi il peso concreto di alcuni fenomeni: studi sul Sabba o sui benandanti come quelli di Carlo Ginzburg – per fare solo un nome tra i tanti – hanno scrostato un certo provincialismo di approccio, che peraltro non è estinto. Un’opera come Il mattino dei maghi (affascinante, per quanto datata e non priva di alcune ambiguità) ha fatto conoscere al grande pubblico il rapporto che il nazismo aveva coltivato con il magico; anche se a quel punto si è banalizzato il tutto in chiave Indiana Jones, dimenticando per esempio la persecuzione scatenata dal regime, da una certa fase in poi, contro lo stesso sottomondo esoterico. Ciò per dire che i rapporti dei fascismi col magico sono meno idilliaci di quanto a volte ci venga fatto credere.

Resta il fatto che l’approccio rigoroso e problematico di un Ginzburg non è, su grandi numeri, quello numericamente prevalente per esempio in certa pubblicistica italiota, tra banalizzazioni New Age e tentativi ideologici di annessione del magico tout court da parte dell’ultradestra. Se fenomeni culturali mitico-magici non sono storicamente estranei a prassi libertarie o decisamente di liberazione (si pensi solo ai vari sincretismi magico-religiosi frutto dell’incontro di culture diverse tra i due lati dell’Atlantico), il revival magico degli anni Settanta si legava a grandi numeri – in forme anche confuse e velleitarie, per carità – proprio a movimenti antiautoritari.

Con le ambiguità che ne costituiscono anche il fascino e impongono un approccio consapevole, il linguaggio magico impatta comunque sull’intero ventaglio delle arti – tutte a loro modo forme di magia, dicono gli occultisti. E accantonando per il momento la grande storia dell’arte visionaria del passato, tra i mille possibili esempi vorrei in questa sede considerare il lavoro di una eccellente fotografa di giovane generazione. Un’artista cioè che all’epoca del revival magico non era nata, e il cui lavoro comunque non è confinato entro rigide barriere tematiche – non è tout court un’artista “esoterica”. Ma le sue fotografie rendono splendidamente un magico come anzitutto linguaggio, simbolo, metafora, al di là di qualunque significato ulteriore.

Isabella Quaranta nasce a Torino nel 1985, e dopo gli studi avvia un’attivissima carriera di fotografa. Pur concentrando una parte importante del proprio lavoro sull’autoritratto e il ritratto, e inseguendo il filo conduttore di una ricerca interiore, persegue parallelamente anche altre declinazioni professionali, come fotografa di scena e di eventi. Collaborando tra l’altro dal 2014 con il TOHorror Film Fest – e in questo contesto chi scrive ha potuto conoscere la sua attività.

Quaranta ha pubblicato su varie riviste ed esposto sia in Italia che all’estero. Tra gli otto artisti selezionati per rappresentare l’Italia alla Biennale JCE (Jeune création européenne) 2019-2021, oltre a una serie di collettive ancora negli ultimi mesi, ha tenuto una bipersonale nel 2019 al Duomo di Pietrasanta e una personale – Physikà kai Mystikà a cura di Enzo Biffi Gentili – tra dicembre e gennaio ultimi presso il Muses, Museo delle essenze di Savigliano. Sue opere sono presenti in collezioni anche pubbliche, e vanta parecchi riconoscimenti e premi al proprio attivo.

Ma al di là di tale aspetti scintillanti di curriculum, ciò che interessa in questa sede è il contenuto di un lavoro. Dove la fotografia quasi sfuma nella pittura (anche per un senso del colore che accentua le profondità) e nella narrazione, aprendo ipotesi sulle storie evocate dalle singole tavole. E ciò attraverso effetti visivi di grande interesse, ma senza compiacimenti facili o manierismi estetizzanti: anche le soluzioni elaborate non risultano forzate. In scena è spesso una figura femminile, per cui si avvale di amiche danzatrici tra cui con frequenza l’ottima Elisa Spagone, che proprio sul corpo gioca nei propri spettacoli e qui asseconda fluidamente il progetto; in altri casi è la stessa autrice che si autoriprende. I corpi in scena – che restano tali, con una loro avvertibile fisicità, al di là del contesto onirico in cui possono essere collocati – sono comunque offerti all’obiettivo fotografico con grande delicatezza e pudore.

I soggetti variano sensibilmente. Tutto un filone di immagini suggerisce situazioni d’immersione in chiave onirica e visionaria nell’esperienza della natura, in una profondità di selve, vento vorticoso, acque profonde, barbagli di luce in un bosco: ma la chiave offerta, badiamo, non è un facile New Age. Per chi ama un certo filone letterario, è possibile pensare ad alcuni romanzi tra fine Otto e primi decenni del Novecento, dove giovani protagoniste si scoprono improvvisamente parte del flusso naturale, e vi si abbandonano smarcandosi dai rigori sociali (post)vittoriani in un vago trasalire di potenze elementali. Ma si può andare anche più indietro, visto che una sorta di lezione preraffaellita – più suggestioni tematiche, in realtà, che citazioni – emerge in più di una tavola, tra Ophelie e incantatrici danzanti. Tuttavia la lettura non è necessariamente retro, e la natura evocata potrebbe essere persino quella in pieno trouble dell’odierno Chthulucene (come lo chiama Donna Haraway nei suoi studi sul pianeta infetto), a suggerire poeticamente forme di con-vivenza tra specie, trasformazioni danzate in radici o in ragni.

In altre serie, il riferimento all’identità è offerto attraverso giochi di maschere, di bozzoli o crisalidi: certo qui il nesso con la ricerca interiore è anche più diretto – ma la suggestione ha la libertà di un linguaggio musicale, e la tavola ci è offerta quasi come uno specchio onirico, per interpellare su una risposta che riguarda anzitutto noi. Anche qui il riferimento al magico e al simbolico è molto forte: in particolare nell’allusione – lieve ma avvertibile – a elementi di ritualità, in suggestioni di veggenza, in echi di pratiche incantatorie.

In altri casi ancora, le coordinate ambientali sono quelle di costruzioni antiche e magari fatiscenti, cappelle in rovina o muri stretti dal sapor di labirinto. Per esempio, la serie Quarantine feelings, realizzata proprio durante la clausura pandemica rielaborando immagini e autoscatti precedentemente realizzati (tranne un paio di tavole realizzate ad aprile 2020), evoca con efficacia una serie di emozioni, di angosce e speranze, di un tempo sospeso, di fantasmi che inabitano il lockdown.

Ecco, di fronte a queste tavole dalla liberissima poetica recuperiamo anche un po’ il sogno di quel revival lontano all’insegna di Man, Myth & Magic: non solo titolo di rivista ma cifra e tipo d’approccio. Non insomma le rivoluzioni conservatrici di certo esoterismo da strapaese, i tradizionalismi pelosi, l’arruolamento asfittico della magia in nome di vecchi poteri, ma il recupero creativo di un linguaggio che richiama alla complessità e parla a dimensioni profonde di noi, in chiave di libertà.

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