di Sandro Moiso

Alessia Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, con 62 fotografie dell’autrice, 10 di Elia Sequani e 9 di John Hwang, CIERRE edizioni, Verona 2017, pp. 149, euro 12,50

Che radici premono, quali rami crescono
Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo,
Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo
Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole,
Dove l’albero morto non ripara, il grillo non
conforta,
E la pietra riarsa non dà suono d’acqua. Solo
Con questi resti ho alzato argini
Alle mie rovine. (La terra desolata – Thomas Stearns Eliot)

Sicuramente Alessia Turri deve amare profondamente gli Stati Uniti e le infinite storie che si possono trarre dal loro paesaggio e dalle loro piccole e disperse comunità delle quali da anni è instancabile ricercatrice e fotografa. Ma è proprio questo amore, poiché è bene ripeterlo non si tratta di un invaghimento giovanile o superficiale, a spingerla a scavare nella Storia e nelle storie di quell’immenso paese per trarne non le abituali visioni monumentali (dai grattacieli ai canyon fino alle forme bizzarre delle rocce rosse e altissime della Monument Valley), cui ci hanno abituati il cinema di Hollywood nel passato e i depliant pubblicitari ancora oggi, ma altre immagini ugualmente folgoranti.

Immagini forti e coinvolgenti, sia che si tratti di fotografie o di storie raccolte sul campo oppure ancora rivissute con la forza dell’immaginazione, ispirate più alle cronache di Joan Didion o al realismo visionario di Cormac McCarthy e alle catastrofi, sia della ragione che naturali, di James Ballard che all’epica di John Ford o ai sogni “on the road” di Jack Kerouac. Storie e immagini che per forza di cose finiscono col rendere un ritratto dell’anima profonda di un’America del Nord troppo spesso idealizzata, tanto per essere ammirata quanto per essere odiata, come uniformemente ricca e agiata, ma che invece spesso nasconde contraddizioni sociali violente e forme di povertà ed emarginazione estrema.

Forme di disagio che si trasmettono anche attraverso le sue strade, i suoi luoghi di villeggiatura passati di moda e abbandonati, i laghi inquinati e una Natura che ha subito ripetutamente gli assalti dell’Uomo così come le popolazioni originarie, che con essa vivevano a stretto contatto, hanno subito prima l’invasione e i soprusi degli Spagnoli e poi degli Anglosassoni e di tutti gli altri giunti al loro seguito.

Lo fa a partire proprio dalla California, il Golden State con un PIL pari a 2.602.672 milioni di dollari nel 2016 (pari a un decimo del Pil complessivo degli Stati Uniti e superiore a quello italiano e quasi pari a quelli di Francia e Regno Unito), che vede i villaggi di tende degli homeless occupare le strade di Los Angeles e il Sunset Boulevard perché non è tutto oro quel che luccica.

Alessia ci racconta, così come ha fatto anche nel suo successivo Everland (qui), la storia e la realtà profonda di un paese destinato a segnare ancora per lungo tempo l’immaginario del mondo occidentale, non solo per scelta politica e culturale delle élite dirigenti ma, ancor di più, perché ne indica, da più di un secolo, in anticipo il destino.
Tutto questo e altro ancora ci racconta l’autrice, con le parole e le fotografie e, in entrambi i casi, lo fa molto bene.

E’ da vent’anni che le tilapie muoiono a migliaia sulle spiagge del lago Salton. Il 4 agosto del 1999 si registrò un lugubre record di 7,6 milioni di pesci morti. La temperatura altalenante dell’acqua si è rivelata fatale per i pesci tropicali, inseriti nel lago per la loro incredibile capacità di adattamento all’acqua salata. Anche le infiltrazioni di veleni agricoli nelle falde acquifere potrebbero aver causato qualche problema. Il Salton, infatti, è come un enorme livido sul viso di un deserto agricolo. Arida chiazza di morte, avvolta da una cornice di frutteti e foreste di palme. Piantagioni d’arance, limoni e pompelmi si alternano a campi di tenera lattuga, granturco profumato e alberi d’ulivo. Dalle fronde appuntite dei palmeti, grappoli di datteri maturi attraggono le api e le foglie dei pomodori verdi rinfrescano l’aria. Spruzzi d’acqua dissetano le piante, prendendosi cura di quell’oasi agricola in pieno deserto. Un progetto riuscito. Una bonifica straordinaria. Florido angolo d’orgoglio californiano.
Alle sue spalle, però, fluttuano le ceneri del fratello fallito. Quell’enorme lago salato, progettato per diventare paradiso, destinato a diventare inferno. Discarica di sogni a cielo aperto, zombie invidioso, osserva di traverso il rigoglio agricolo che gli fiorisce accanto accogliendo a bocca aperta i suoi rifiuti. Pesticidi, inquinamento, veleni. Come una spugna, il lago beve tutto per poi risputarlo sotto forma di pesci, alghe e uccelli morti.
Le sue rive sono coperte di carcasse, scheletri e rifiuti di modernariato. I suoi villaggi sono comunità devastate, corrose, dimenticate. I suoi abitanti sono pochi, accaniti sognatori che non si arrendono allo scorrere del tempo. Non temono la solitudine e nemmeno le bufere di polveri tossiche. Affrontano il caldo, le zanzare e la morte. Protestano alzando la voce, avvolti da nubi di sabbia salata.[…] Oasi di dinosauri, indiani, invasori, minatori, turisti e tilapie. Il lago più grande della California, il più inquinato, il più enigmatico. Enorme livido sul viso di un deserto agricolo.1


  1. A. Turri, Wasteland, pp. 32-33