di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Pietra nera, Nottetempo, Milano, 2019, € 18, 50, pp. 278.

L’ultimo romanzo di Alessandro Bertante, Pietra nera, ci presenta un viaggio attraverso un’Italia del futuro, uno spazio devastato da una non meglio definita “Sciagura” occorsa diversi anni prima. Ma non si può definire un romanzo distopico in quanto l’ambiente non appare distrutto o inaridito, come dopo una catastrofe, bensì assistiamo a una vera e propria rinascita della natura. A fronte di un mondo industrializzato che si è autodistrutto per il suo cinismo e la sua superficialità, la natura ha ripreso il sopravvento: le città sono ormai abbandonate e il loro asfalto ricoperto di erba, le strade non esistono più, asserragliate dalla crescita smisurata di piante e alberi, come dopo la caduta dell’Impero romano, le automobili sono ormai dei vecchi rottami ferrosi avvolti dalle piante. Semmai, allora, si potrebbe parlare di utopia: un mondo nuovo in cui la natura risorge, ‘vendicandosi’, se così si può dire, del precedente sfacelo creato da un cieco sviluppo. La distopia, semmai, c’era prima, in un mondo in cui la natura non contava per niente ma contavano soltanto il profitto e l’economia, un mondo saturo di beni superflui.

L’umanità sopravvissuta si divide in due: in chi, cioè, è nato prima della Sciagura e conosce il mondo industrializzato di prima e chi, invece, è nato dopo. Il protagonista del romanzo, Alessio, è nato dopo, e sarà lui a intraprendere il viaggio che lo porterà lontano dal paesino montano di Piedimulo, verso la grande pianura e verso altre montagne, più vicine al mare. La vicenda di Pietra nera si ricollega a un precedente romanzo dell’autore, Nina dei lupi (2011) in cui si assisteva – sempre con toni sfumati e indefiniti – all’avvenimento della Sciagura (forse dovuta a una crisi economica) e al progressivo abbandono e declino delle città. La comunità di Piedimulo, aggredita da una banda di predoni, era stata difesa da un altro coraggioso Alessio che, in un duello all’ultimo sangue, dopo essersi stretto intorno al collo il fazzoletto rosso e nero del nonno anarchico che aveva combattuto nella guerra civile spagnola, era riuscito a sconfiggere i violenti e cinici assalitori, i peggiori, ultimi figli di un mondo basato sul possesso e sul capitale. Il nuovo Alessio (nome che portano quasi tutti i protagonisti dei romanzi di Bertante, vero e proprio alter ego dell’autore) è suo figlio e, nel viaggio che intraprende, si configura come una sorta di cavaliere errante che deve affrontare una serie di prove e di peripezie in uno schema narrativo basato sull’avventura e sulla dinamica dell’incontro (l’incontro con sempre nuovi personaggi durante il viaggio è un importante elemento narrativo che fa progredire la trama).

Del resto, il medesimo schema lo presentano anche altri romanzi dell’autore: si pensi a Gli ultimi ragazzi del secolo (2016), di stampo più autobiografico, in cui l’io narrante compie diversi viaggi, sia nella “Milano metropoli degli anni Ottanta”, sia nei territori martoriati dalla guerra in ex Jugoslavia. Ma si pensi anche a Estate crudele (2013), in cui un altro Alessio, uno spacciatore che vive a Milano nella zona di via Padova, compie inusitati percorsi urbani a piedi trasformandosi anch’egli in un cavaliere errante diretto verso la sua eroica missione. La narrativa di Bertante, nella rappresentazione di questi personaggi ossessionati dal movimento continuo, connotati da veri e propri spostamenti picareschi, presenta in forma pregnante la tematica del nomadismo, il quale appare come la forma principale di una nuova soggettività decentrata e deterritorializzata (sul nomadismo come significativa rappresentazione della contemporaneità hanno scritto pagine illuminanti Gilles Deleuze e Félix Guattari, Rosi Braidotti, Michel Maffesoli).

Durante il suo viaggio disseminato di pericoli, il ‘cavaliere errante’ Alessio incontrerà Zara, una ragazza anch’ella nata dopo la Sciagura, del tutto ignara del ‘vecchio’ mondo, la quale diverrà la sua compagna, quasi anima e corpo da lui inseparabile per affrontare la lotta per un nuovo futuro. Emblematica è, infatti, la frase che li connota: “Noi siamo ogni futuro”, a voler rappresentare la possibilità di una rinascita a costo però di una dura lotta. Alessio, il Figlio dei lupi, appunto perché figlio del vecchio e coraggioso Alessio e di “Nina dei lupi”, è un personaggio dotato di connotazioni sciamaniche, in sinergia con la natura e lotterà per cercare di espandere, di allargare questa sinergia ormai perduta, di estenderla all’umanità sopravvissuta e resistente. Come afferma la “strega dei boschi” (personaggio riconducibile all’antica figura dell’indovina e della profetessa oracolare), “quel giovane uomo parlava alle bestie, conosceva le erbe, sapeva evocare le parole dei poeti”, forse gli unici che, nel ‘vecchio’ mondo, riuscivano a percepire la realtà e la natura senza la benda dell’economia e del profitto. E, sempre la strega, rivolgendosi a Alessio e Zara, così afferma: “Osserverete il mondo ancora bambino e il suo falso nome non sarà più pronunciato”. Alessio e Zara saranno capaci di guardare un mondo “bambino”, in cui la natura non deve essere assoggettata ed eliminata, ma considerata quasi come una parte di se stessi. I personaggi compiranno un viaggio in nome dell’arcaica sapienza, del mito e della saggezza per smascherare un mondo ormai deturpato dalla violenza, dal cinismo, affondato nelle più profonde devastazioni operate dallo sviluppo capitalistico. Alessio e Zara, forse, sono metaforicamente le nuove generazioni che desiderano “un mondo ancora bambino”, che si battono per un ambiente dal quale sia cancellata ogni forma di inquinamento, per un ambiente non deturpato dai falsi miti degli interessi economici.

Nell’attraversamento della grande città, una Milano ormai in stato di abbandono, Alessio e Zara vedono i segni della nostra civiltà decaduta, un mondo che per loro è sconosciuto e alieno, terribile e fantastico: “Palazzi di acciaio alti fino alle nuvole, luci tanto potenti da illuminare le strade di notte, case riscaldate da gas invisibile e inestinguibile, velocissimi treni sotterranei impegnati giorno e notte a spostare la gente ovunque, ed erano milioni di persone, non migliaia, milioni di persone”; e poi: “milioni di donne e di uomini costretti tutti i giorni a lavorare senza produrre niente, senza vedere mai il frutto della propria fatica, quegli stessi uomini e donne che poi la sera si rinchiudevano in appartamenti costruiti come alveari a guardare schermi piccoli e grandi, accesi da un’energia infinita e sconosciuta […] E poi c’erano le automobili. Automobili in ogni luogo ad ammorbare l’aria già satura di fumo e polvere; e c’erano gli aeroplani che volavano in continuazione sopra le nuvole, trasportando le persone dove e quando volevano, ignorando l’immensità della distanza che è esplorazione e fatica, ma anche sopraffazione e guerra”.

I ragazzi percorrono una città devastata, nella quale la natura sta ricominciando a vivere: quella stessa città che Bertante ci racconta in un romanzo breve dal titolo La magnifica orda (2012). Qui, il protagonista, per recarsi a un colloquio di lavoro in città dall’hinterland milanese, attraversa un mondo devastato dalle industrie e dall’inquinamento, dalla sporcizia, dall’edilizia selvaggia mentre le persone che si recano al lavoro al mattino sembrano tanti automi, tanti ‘zombie’ ormai deprivati della loro condizione di esseri umani. Lo spazio urbano de La magnifica orda appare veramente tratteggiato in modo distopico come, appunto, se la nostra quotidianità, se l’Italia contemporanea fosse già un’ambientazione ‘postapocalittica’. Dopo la Sciagura di Nina dei lupi e di Pietra nera, quello che era uno spazio disumanizzato dalle dinamiche sociali dell’economia, è ormai soltanto la reliquia di se stesso mentre, utopisticamente, una nuova natura sta prendendo il sopravvento.

Questo avventuroso viaggio del ‘cavaliere errante’ Alessio, il Figlio dei Lupi, e della sua compagna Zara, è narrato da una scrittura mitopoietica – capace, cioè, di creare un nuovo racconto mitico – caratterizzata dalla lentezza e dalle iterazioni delle antiche narrazioni orali, tesa verso la solennità e la ripetitività formulare dell’epica. Contemporaneamente, si tratta anche di una scrittura estremamente fisica e corporea, caratterizzata da uno stile che ci fa avvertire la realtà in tutta la sua turgida fisicità e sordidezza. Ed è a tratti anche espressionistica, tesa e rappresa nel figurare situazioni e immagini molto violente: scontri, duelli, uccisioni, ferite, sangue. Una scrittura che è essa stessa viaggio nomadico, scoperta e avventura: un viaggio fra mille insidie e fra mille incontri per restare umani, nonostante tutto.