di Gioacchino Toni

Roberta Santagostino, Le 72 stagioni del Giappone. Il calendario tradizionale scandito in attimi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 274, € 39,00

Il calendario lunisolare e il sistema delle 72 microstagioni nacquero nell’antica Cina e furono adottati in Giappone, pur in versione rimodellata secondo la cultura locale, fin dal VI secolo per subire poi una riformulazione da parte dell’astronomo Shibukawa Shunkai nel 1685 che resterà in vigore fino al 1873, quando nell’ambito del rinnovamento Meiji sarà adottato il calendario gregoriano. Anziché essere suddiviso in mesi, l’antico calendario è scandito in attimi che riflettono «i fenomeni naturali del vento, della pioggia e della neve, della fioritura delle piante, della maturazione dei frutti e del complesso comportamento degli animali, seguendo con precisione il ritmo regolare della natura, tra periodi di crescita, riposo e trasformazione». Nonostante il passaggio al calendario gregoriano, le tradizioni legate alle 72 stagioni – sostiene Roberta Santagostino nel volume riccamente illustrato che vi ha dedicato – restano ancora oggi radicate nella cultura nipponica.

La sensibilità giapponese nei confronti dei mutamenti della natura affonda le sue radici nella società aristocratica del VII secolo assumendo valenze estetiche ed intime, oltre che pratiche. «Nella ricerca di un equilibrio che potesse mitigare le durezze dell’inverno e i calori estremi dell’estate, si sviluppò un’immagine idealizzata della natura, riflessa in molte forme artistiche: dalla pittura alla poesia, dai giardini paesaggistici alla cerimonia del tè, fino all’arte floreale ikebana. Attraverso i brevi poemi waka e con le poetiche suggestioni haiku, la natura e il ritmo delle stagioni vennero codificate in una serie di immagini e riferimenti condivisi» divenute con il tempo «linguaggio, memoria, credenza locale».

Le 72 stagioni si aprono con i giorni di inizio febbraio in cui termina il grande freddo ed inizia il disgelo proseguendo poi con i primi cinguettii dell’anno degli usignoli che annunciano l’arrivo della primavera. Dunque, con lo scioglimento del ghiaccio, seguono i periodi in cui i pesci iniziano a nuotare più in superficie in attesa del tepore primaverile, l’ammorbidimento del terreno ad opera della pioggia, la foschia che avvolge il paesaggio, lo spuntare dell’erba, il germogliare degli alberi e, con l’avvicinarsi all’equinozio, la ripresa della vita da parte degli insetti, lo spuntare dei fiori di pesco a segnalare il diffondersi della primavera, dunque il mutare dei bruchi in farfalle, la preparazione dei nidi da parte dei passeri e il far capolino dei fiori di ciliegio sul finire di marzo. Seguono poi i giorni dei primi tuoni e con essi l’arrivo dei temporali, il ritorno delle rondini, la partenza delle oche selvatiche per il nord, i giorni degli arcobaleni, lo spuntare delle canne dalle acque, la crescita delle piantine di riso, la fioritura delle peonie, il diffondersi delle rane con i loro gracidii nelle risaie e negli stagni, il riemergere dei lombrichi dal terreno, lo spuntare dei germogli del bambù “moso”, la ricomparsa dei bachi da seta ecc. in un susseguirsi delle 72 stagioni che vanno a terminare, a fine gennaio, con il periodo più freddo dell’anno in cui il ghiaccio ricopre i fiumi mentre sotto di esso la vita continua a manifestarsi e, nei giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, con le galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera.

Ognuna di queste microstagioni, come detto, nella cultura nipponica assumono anche valenze estetiche e intime. Il canto dell’usignolo, ad esempio, è spesso presente nella poesia giapponese per rappresentare, oltre all’arrivo della stagione primaverile, «la consapevolezza malinconica della transitorietà delle cose» mentre la carpa, per le sue qualità di forza, vitalità e perseveranza, si ritiene possa portare fortuna, ricchezza e positività. Alla carpa è legata anche l’antica leggenda della “Porta del drago” che la celebra come esempio di forza e perseveranza necessarie al conseguimento degli obiettivi della propria vita.

Nei tempi antichi la foschia primaverile che avvolge i piedi delle montagne veniva paragonata all’orlo del kimono indossato da Sao-hime, la giovane dea della primavera immaginata nella sua veste candida e soffice come la nebbia primaverile. Le suggestioni del paesaggio avvolto nella foschia primaverile, scrive Santagostino, richiamano il termine yūgen che allude al mistero e all’ambiguità delle cose rarefatte, indistinte, incerte di cui è pervasa la natura. «Yūgen è la bellezza che possiamo percepire in un oggetto, anche se non immediatamente riconoscibile e non vista direttamente. Yūgen è suggestione, memoria persistente, retrogusto o implicazione». Nella cultura zen si ricorre a tale termine per il suo «comunicare naturalezza, effimera bellezza e mutevolezza, così come il vento che si sente soffiare ma non si vede e l’acqua che scorrendo cambia continuamente stato e forma. Yūgen è bellezza latente che va scoperta con l’immaginazione». Nel mondo giapponese il concetto di yūgen ha influenzato la letteratura, la pittura, il teatro e l’architettura, finendo per divenire un termine di uso comune nella cultura nipponica.

A proposito della microstagione in cui i bruchi iniziano a trasformarsi in farfalle come la comparsa dal nulla di queste ultime è stata vista in Orente , fin dall’antichità, come simbolo di rinascita e come incarnazione dell’anima. In Giappone, ricorda Santagostino, antiche credenze popolari vogliono che gli spiriti dei defunti assumano proprio la forma di una farfalla nel loro viaggio verso l’altro mondo, oppure che gli spiriti dei morti vengano guidati dalle farfalle nel loro percorso. Nella cultura giapponese, per la sua grazia e bellezza, la farfalla è anche associata alla femminilità, e non manca di essere vista come segno di buna fortuna per incontrare l’anima gemella. Il motivo della farfalla lo si ritrova spesso nelle decorazioni per i matrimoni e sugli yukata e sui kimono delle giovani. Nel periodo Edo, il soggetto della farfalla è ricorrente nelle opere degli artisti ukiyo-e come Utagawa Hiroshige, Kubo Shunman, Yanagawa Shigenobu, Totoya Hokkei e Utagawa Toyokuni.

Se la comparsa primaverile dei fiori di ciliegio si lega all’antica tradizione hanami (visione dei fiori di ciliegio), è nel periodo Heian (794-1185) che, negli ambienti aristocratici, si iniziò a guardare ad essi come simbolo dei fiori primaverili, tanto da venire celebrati attraverso poesie waka e feste dedicate alla fioritura che avrebbero poi condotto, nel corso della società dei samurai, alla “visione dei fiori di ciliegio” che, nel periodo Edo, sarebbe poi divenuta parte della cultura popolare. «Ciò che i giapponesi ammirano dei fiori di ciliegio», sottolinea Santagostino, «non è solo la bellezza, ma anche la loro transitorietà, per questo l’hanami porta con sé un vago senso di malinconia e rimpianto per la fugacità della vita, per il passare inesorabile del tempo e per l’impermanenza di ogni cosa».

Per ognuna delle 72 stagioni, la studiosa si sofferma sulle cerimonie, le feste popolari e le rappresentazioni artistiche che le caratterizzano e per i colori che in qualche modo le caratterizzano, segandone non solo gli aspetti simbolici, ma anche le pratiche per ottenerli in modo da poter essere utilizzati nei dipinti e nei tessuti. Con riferimento alla quarantaduesima stagione (Nogi sunawachi minoru), tra il 2 ed il 7 settembre, ad esempio, quando si giunge alla maturazione del riso e ci si avvicina al raccolto, e i campi si colorano di giallo, la studiosa si sofferma sul colore azzurro dei fiori mattutini della tsuyukusa, o “erba della rugiada” che compare a chiazze sulle rive dei torrenti e ai lati delle strade, utilizzati in passato per tingere la stoffa e per ottenere il pigmento blu che si ritrova in numerose xilografie Ukiyo-e del XVIII e XIX secolo.

A proposito della cinquantasettesima stagione (Kinsenka saku), tra il 17 ed il 21 novembre, caratterizzata dalla fioritura del narciso, il “fiore nella neve” elegante e dalla tenue fragranza, che compare all’inizio dell’inverno, apprezzato nell’arte dell’ikebana, Santagostino si sofferma sul colore delle “foglie verdi marcite” (Aokuchiba), «una sfumatura tra verde opaco e marrone giallastro, molto usata nei tessuti e nelle pitture tradizionali», spesso presente nelle vesti di corte del periodo Heian, «considerato un colore elegante e malinconico citato negli antichi elenchi cromatici per la stratificazione dei colori nei kimono di corte».

Riferendosi alla sessantaseiesima stagione (Yuki watarite mugi nobiru), 1-4 gennaio, caratterizzata dal germogliare del grano sotto a neve, l’autrice del volume si sofferma sulla prima raccolta di illustrazioni dedicata all’osservazione dei fiocchi di neve (Sekka Zusetsu) sul finire del periodo Edo, realizzata da Toshitsura Doi. «Il metodo che utilizzava per osservare la neve era sorprendentemente raffinato per l’epoca. La notte prima di una prevista nevicata, faceva raffreddare all’esterno un telo di stoffa nera. Durante la caduta della neve, i fiocchi si adagiavano delicatamente su questa superficie scura. Poi, con estrema cura, Toshitsura li prelevava con una pinzetta e li disponeva su una tavoletta nera laccata per aumentarne il contrasto. L’osservazione avveniva tramite uno strumento importato dai Paesi Bassi: il “Lan Mirror”, un microscopio occidentale che permetteva di ammirare i minimi dettagli delle strutture cristalline». La catalogazione di Toshitsura, “il Signore dei fiori di neve”, oltre che rivelarsi un’attenta opera di osservazione scientifica, mostra anche «come la bellezza della natura abbia influenzato profondamente il gusto estetico e la moda del Giappone premoderno».

Affrontando l’ultima delle 72 stagioni (Niwatori hajimete toya ni tsuku), tra il 30 gennaio ed il 3 di febbraio, caratterizzata dalle galline che covano le uova in attesa del ritorno della primavera, Santagostino ricorda come, prima dell’industrializzazione dell’avicoltura, in condizioni naturali le galline tendessero a rallentare, quando non a sospendere, la deposizione di uova in inverno, dunque le poche uova raccolte nei mesi più freddi fossero considerate particolarmente preziose. In particolare, le uova deposte il primo giorno del “Freddo maggiore” venivano considerate di buon auspicio. «Fin dall’antichità, le galline sono state considerate uccelli sacri perché annunciano l’alba, segnando il passaggio dalla notte, tempo degli dèi e degli spiriti, al giorno, in cui l’attività umana riprende. Proprio per questo motivo, sono simbolicamente perfette per annunciare anche la fine del lungo inverno».

Per quanto i cambiamenti climatici abbiano scombussolato i ritmi naturali su cui era stato pensato l’antico calendario delle 72 stagioni ha ancora oggi molto da dirci e il volume di Roberta Santagostino, impreziosito da una miriade di illustrazioni, ha il merito non solo di esporre al lettore occidentale un universo culturale lontano e poco conosciuto, ma anche quello di suggerire la necessità impellente di un approccio alla natura altro rispetto a quello dello sfruttamento sconsiderato e (auto)distruttivo contemporaneo. Il calendario tradizionale scandito in attimi della tradizione nipponica suggerisce la necessità di imparare nuovamente ad aprire gli occhi e prestare ascolto alla natura e ai suoi ritmi, oltre le distese di asfalto, di cemento armato e di schermi in cui si è finiti a vivere.