di Sandro Moiso
Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro
In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni o con le allusioni». Affermazione fatta in un contesto in cui Bibi Netanyahu, da sempre indicato come uno degli sponsor dell’odio che portò al più importante omicidio politico della storia dello stato ebraico per mano di un ebreo di origini yemenite, si è tenuto lontano dalle celebrazioni molto probabilmente per timore delle contestazioni nei suoi confronti.
Ma ciò che qui è interessante annotare, più che il ricordo di un uomo che quando era «ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio ad opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato», come ha giustamente ricordato Giovanni Iozzoli su Carmilla il 4 novembre di quest’anno, è costituito dal fatto che l’”abisso” evocato dall’attuale presidente israeliano è prossimo a quel “precipizio” indicato per il futuro di Israele da un altro ebreo israeliano, Michel Warschawski, fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984:
Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza1.
In poche righe Warschawski, in quel testo di vent’anni or sono, anticipava ancor più che i timori espressi da Herzog i temi e le tesi esposte da Ilan Pappé nel suo testo più recente, edito da Fazi, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina.
L’autore è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, e fa parte di quel consesso di storici israeliani (Tom Segev, Shlomo Sand, Norman Finkelstein e, un tempo, Benny Morris) che per anni, spesso a rischio della vita per mano degli estremisti sionisti, hanno messo in discussione una narrazione storiografica tutta intrisa di messianismo e revanscismo basato sulla necessaria riscossione del credito politico e coloniale accumulato attraverso le sofferenze inferte al popolo ebraico dalla Shoa; tutto a danno dei diritti degli arabi palestinesi a vivere sulla propria terra in pace e con gli stessi diritti degli altri cittadini di Israele.
Oltre che del presente testo, Pappé è stato anche autore di più di una dozzina di libri tra cui La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), mentre per il medesimo editore ha anche pubblicato Palestina e Israele: che fare?, scritto insieme a Noam Chomsky (2015), La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (2022) e Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina (2024). Mentre per Einaudi ha pubblicato Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (2014) e per Temu: Dieci miti su Israele (2022). Cui vanno ancora aggiunti: Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e la Palestina, sempre con Noam Chomsky (Ponte alle grazie, 2023); Israele-Palestina. La retorica della coesistenza (Nottetempo, 2011) e Controcorrente. La lotta per la libertà accademica in Israele (Zambon, 2012).
Sempre attento, presente nel dibattito e schierato per tutto quanto riguarda la causa palestinese, Ilan Pappé non ha mai, però, separato le ragioni del popolo palestinese dalla necessità di trovare un punto di incontro con quelle frange, minoritarie ma non del tutto secondarie, del mondo ebraico, fuori e dentro Israele che da sempre o almeno fin dalla fondazione dello Stato hanno contestato l’assurdità del colonialismo sionista e proposto strade diverse per una comune convivenza su quelle stesse terre oggi totalmente rivendicate dal sionismo messianico di Bibi Netanyahu, Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich. Comunque senza mai illudersi che questo possa avvenire in mancanza di un cambiamento radicale all’interno della stessa società israeliana.
Da qui l’attenzione per la possibile “fine” di Israele.
Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve.
[…] Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di “fine” potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. [Motivo per cui] Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati d auna violenza estrema.
[…] Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto.[…] E quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione2.
L’ottica scelta pertanto è quella di individuare non soltanto le cause, ormai evidenti, del processo di disgregazione dello stato israeliano, ma anche le possibili soluzioni di una crisi quasi secolare che non potrà trovare risposta soltanto nel revanscismo arabo o nella continuazione e riaffermazione dell’espansionismo coloniale sionista. Entrambi forieri soltanto di guerre e sofferenze senza fine. Entrambi tunnel in cui, come per i soldati dell’Idf in quelli di Hamas nel sottosuolo di Gaza, sarebbe meglio non infilarsi.
La fine di Israele di cui parla Pappè nel suo libro è già da tempo stata individuata anche da molti altri osservatori, non obbligatoriamente di parte. Come si afferma ad esempio in un recente editoriale di «Limes»: «Lo Stato ebraico rischia la pelle perché cercando di scongiurare o ritardare la resa dei conti fra le sue fazioni, estesa alle istituzioni civili, militari e di intelligence, si è cacciato in conflitti infinibili mascherati da prologhi alla Vittoria Decisiva»3. Un’affermazione cui, sullo stesso numero della rivista di geopolitica, Giuseppe De Ruvo può aggiungere:
Nonostante Israele stia combattendo una guerra su sette fronti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Qatar, Iran – il più scottante continua ad essere quello domestico. Netanyahu ne è perfettamente consapevole, dunque agisce secondo un principio paradossale: per non perdere la guerra, quella che per gli ebrei realmente conta e che riguarda l’esistenza dello Stato di Israele, è necessario prolungare e allargare ad infinitum il conflitto che dall’ottobre 2023 vede Gerusalemme opporsi a mezzo Medio Oriente. Altro che vittoria definitiva.
[…] Solo Israele può fermare Israele. O completarne l’autodistruzione. A ritenere pericoloso il piano di Netanyahu e dei suoi alleati sono infatti interi pezzi di Stato ebraico, che vanno dalle Forze armate al Mossad. Apparati che ormai esplicitano a mezzo stampa le loro critiche, rifiutandosi di compiere operazioni che ritengono insensate e che sanno contribuire al crollo della credibilità internazionale di Israele. Autentica assicurazione sulla vita di un paese minuscolo, la cui legittimità deriva(va) dall’essere garante della sicurezza degli ebrei. Anche di quelli che non vi risiedono.
Queste tensioni, sempre meno latenti, non sono ancora esplose. L’esercito israeliano, nonostante gli scontri e i cambi al vertice, continua infatti a eseguire gli ordini di Netanyahu. E tuttavia ciò non significa che la situazione sia sotto controllo. Molto peggio. Quello cui stiamo assistendo non è infatti uno strappo dovuto al disaccordo tra Bibi e i suoi generali, ma il risultato del progressivo sfilacciamento dei rapporti di fiducia tra leadership politica, militare e securitaria. Per lo Stato ebraico, il fronte decisivo è dunque quello interno, l’ottavo. attorno al quale si combatte per l’anima e il futuro del paese [mentre] la sfiducia reciproca tra leadership civile e militare non è effetto ma causa della guerra4.
Situazione che in altra parte dell’articolo l’autore non esita a definire come un redde rationem interno o come autentiche prove di “guerra civile”. Una situazione che sottolinea la fragilità della forza e del progetto espansivo sionista, al contrario di ciò che molti analisti dell’antagonismo sociale e palestinese troppo spesso intendono come univoco e vincente. Eliminando dunque dal quadro di riferimento critico tutte le crepe e le enormi contraddizioni che ne minano gli intenti.
Compreso l’ingresso a gamba tesa di Donald Trump e della sua “politica di pace” nella Striscia di Gaza. Che, come si afferma ancora nell’editoriale di «Limes» citato più sopra, fa vincere al presidente americano, a mani basse, il premio per la migliore “fiction geopolitica” volta a redimere il Caos in Cosmo, disordine in ordine, guerra in pace. Piano che, pur essendo definito per la pace eterna e «che scioglie nodi plurimillenari in Medio Oriente a partire dal martirio dei palestinesi della Striscia da volgere in Riviera, non pare avviato a redimere la regione».
Fa bene la rivista a definire “fiction geopolitica” il piano trumpiano (?) per la Striscia poiché da diverso tempo a questa parte tutte le narrazioni che si susseguono, sia attraverso la voce o i messaggi postati da Trump su Truth oppure quelle recitate a soggetto dagli infiniti esperti solipsisti che si accorgono che la Storia volge in altra direzione da quella auspicata soltanto, e forse nemmeno allora, quando vanno a sbatterci contro, magari violentemente, ricordano sempre più quel “romanzo scritto male” di cui parlava Francesco Guccini in una sua canzone5. Oppure, rimanendo nel campo della fiction televisiva, quelle serie senza capo né coda in cui gli autori si ostinano ad andare avanti con stratagemmi sempre più banali e ripetitivi destinati a risvegliare l’attenzione di un pubblico sempre più sfinito e disattento.
Una narrazione che finge potenza e determinazione là dove tutto sembra smentire, a livello di ordine internazionale, quel nuovo ordine mondiale che l’Occidente e gli Stati Uniti si immaginavano di aver instaurato, o poter instaurare, a partire dalla fine dell’URSS e dalla globalizzazione intensiva dei commerci e dei rapporti finanziari su scala planetaria.
Una narrazione ormai fallita e rimasta farlocca proprio a partire dal centro dell’impero. Là dove un biondo (tinto) imperatore finge di poter fare ciò che vuole e rispondere a tutte le difficoltà mentre, di volta in volta, è costretto a smentirsi quasi quotidianamente per non subire del tutto le conseguenze degli eventi che hanno segnato la strada in altre direzioni da quelle previste.
Non cogliere questo elemento di forzatura rappresentativa del potere americano o sionista significherebbe soltanto accettare una narrazione tutta tesa a nascondere le difficoltà militari, economiche politiche, esterne e interne, che ne contraddistinguono ormai l’andatura sbilenca. Un’andatura sbilenca per cui, come era facile prevedere da molto tempo a questa parte, gli Stati Uniti di Trump, ma anche del futuro, non potranno più appoggiarsi soltanto su Israele per difendere i propri interessi mediorientali.
Una zoppia politico-militare che fa sì che i paesi musulmani, e non solo quelli del Golfo, debbano sostenere i bisogni americani sia geo-strategici che economici. I miliardi promessi da Qatar e Arabia Saudita indicano che questi nuovi possibili attori della scena internazionale potrebbero avere un ruolo importante per l’economia americana e non soltanto per i fondi di investimento di Trump e Kushner che già ne hanno incassato una parte. Potrebbero indicare che mentre l’attenzione nei loro confronti può costituire davvero un investimento conveniente, anche in vista di un progressivo disinvestimento cinese nei titoli di stato americani, la spesa militare per l’aiuto ad Israele potrebbe costituire in prospettiva soltanto più una perdita.
Da qui gli accordi di Abramo e il tentativo, già messo in atto durante il primo mandato di Trump, di chetare i rapporti tra tutti paesi dell’area, Iran compreso. Ma tutto ciò ha un costo, che la guerra di Gaza ha messo in rilievo: gli emirati, il Qatar, l’Egitto, la Turchia e la stessa Arabia Saudita, solo per citare alcuni dei possibili “alleati” hanno bisogno di ricevere in cambio qualcosa di consistente. Sia in termini economici che strategici, come guadagno diretto di un contratto che ha anche un suo versante politico, quello di tenere a bada masse popolari, arabe ma non solo, messe in agitazione da ciò che avviene a Gaza. In cui riconoscono il proprio destino e la necessità di giungere un giorno a rovesciare Stati e governi.
Ma lo Stato di Israele non può più, nonostante i suoi bombardamenti, le sue operazioni militari mirate, le sue stragi, costituire il garante dell’ordine sociale locale, anzi rischia di diventare con la sua sconsiderata azione il detonatore di rivolgimenti ben più vasti e incontrollabili. E anche gli Stati Uniti, dopo essersi illusi di rappresentare i garanti dell’ordine capitalistico occidentale, se non mondiale, devono oggi ammettere per bocca dello stesso Trump che «non possono più agire come gendarme internazionale».
Gli imperi declinano, poi crollano. L’impero americano è crollato prima di finir di declinare. Giacché nessun impero esiste per moto proprio ma a due condizioni: se può volerlo e se è riconosciuto tale dagli altri imperi e dalle potenze che contano. Oggi l’egemone che si ostentava globale, garante degli amici e nemesi per i nemici, non si vuole più tale perché stanco di mondo e nostalgico di nazione. Fra la vita e la morte gli americani scelgono l’America. Per conseguenza, né i suoi imbaldanziti avversari né i satelliti in panico abbandonico lo considerano più superiore gestore dell’ordine planetario6.
Fatto rilevabile nella crescente sfiducia che gli alleati arabi del Golfo hanno nei confronti di entrambi, soprattutto dopo l’attacco, fallimentare negli intenti dichiarati, condotto dall’IDF in Qatar. Una sfiducia apertamente manifestata dal principe saudita Mohammad bin Salman che non ha esitato a rivolgersi al Pakistan, altro paese musulmano, per mettersi al riparo di un ombrello nucleare che gli Stati Uniti sembrano non poter più garantire7. E anche se quest’ultimo fatto potrebbe fare parte di una strategia volta ad ottenere di più dal governo americano in occasione del prossimo viaggio del principe saudita a Washington, certamente è uno dei fattori che hanno “costretto” Trump a dichiarare la possibile ripresa dei test nucleari (soprattutto dopo il fallimento dell’azione militare americana nei confronti dei siti nucleari iraniani, confermato anche dalla stessa intelligence statunitense).
Ma tutto ciò non basta ancora: se è vero, infatti, che gli investimenti a Gaza per la ricostruzione rappresentano per le finanze arabe una magnifica occasione di guadagno, è altresì vero che tali investimenti dovranno essere “garantiti”. Senza inoltre contare che gli stessi paesi arabi stanno opponendo forti resistenze a una proposta sostenuta dagli Stati Uniti di ricostruire una ‘nuova’ Gaza esclusivamente nella metà dell’enclave attualmente posta sotto il controllo di Israele, visto che sia Israele che Washington hanno escluso che i fondi possano essere destinati alle aree sotto Hamas.
I sauditi sono abituati a mescolare assieme politica e affari, proprio nello stile preferito dal presidente Usa. Hanno anche un’innata simpatia per quest’ultimo che ha sempre scelto il loro paese per i suoi interventi e le sue prime visite ufficiali. Ma ora il vento è cambiato e la “parentela” Usa-Israele pare a Riad troppo limitante e senza garanzie di successo (o di guadagno). Basta far riferimento all’Ue: quanti milioni ha buttato in Cisgiordana e a Gaza che Israele non si è affrettata a distruggere in tante guerre? L’Israele di Netanyahu e della destra estrema oggi al potere è un paese spaccato, intriso d’odio e diviso al suo interno. E’ anche un paese imprevedibile: troppi luoghi di potere contrapposti e in competizione permanente fra di loro [e] certamente gli americani faranno fatica a spiegare ai sauditi chi comanda davvero a Tel Aviv. La fiducia dei sauditi si è notevolmente ridotta con possibili lunghe e amare ripercussioni8.
Ecco allora che la presenza di un contingente internazionale a Gaza, magari di paesi islamici, più che al disarmo di Hamas sarebbe rivolto, prima di tutto a garantire gli investimenti arabi nella Striscia. Come già ha ben compreso il governo israeliano, tutto rivolto ad evitare una governance mandataria americana nei confronti delle sue azioni e ad impedire la presenza dei militari turchi a Gaza. Considerato che la Turchia, proprio grazie all’azione disgregatrice di Israele, è giunta alle porte dello Stato ebraico attraverso la Siria oggi governata da Mohammed al-Bashir, l’ex-jihadista fortemente sponsorizzato dallo stesso Recep Tayyip Erdoğan, capo dello stato turco e teorico del rilancio degli interessi ottomani in tutta l’area mediorientale.
Una politica che negli ultimi tempi ha fatto sì che la Procura generale di Istanbul abbia emesso 37 mandati di arresto per altrettanti dirigenti politici e militari israeliani con l’accusa, documentata, di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza. Tra i trentasette spiccano i nome di Bibi Netanyahu, di Itamar Ben-Gvir, di quello del Capo di stato maggiore Eyal Zamir e del ministro della Difesa Israel Katz. Questa provocazione causerà sicuramente qualche problema per Trump, considerata la sua predilezione per il capo di stato turco. Il quale ha anche ospitato ad Istanbul un vertice dei ministri degli Esteri di dieci paesi musulmani per coordinare la pressione per la forza multinazionale di stabilizzazione per Gaza, con il chiaro intento di mettersi a capo della stessa9.
E’ in mezzo a questo mare tempestoso che si deve muovere Donald Trump che, in un non lontano futuro, potrebbe scegliere di abbandonare oppure di affidarsi decisamente di meno alle scelte di un governo condannato, per non affondare insieme ad esso e mantenere quel minimo di influenza politica nei confronti degli alleati arabi. E se qualcuno, in un tale contesto, volesse ancora fare riferimento esclusivamente alla volontà di potenza sionista o alla determinazione imperialista statunitense per comprendere ciò che avviene sul campo, lo faccia pure, ma sapendo che gli errori, soprattutto di valutazione, prima o poi si pagano sempre.
E’ allora forse utile ricordare un’affermazione di Hannah Arendt, espressa nel 1948, ma ancora valida oggi a giudizio di chi scrive, secondo la quale: «Il modo più realistico per valutare il costo degli avvenimenti […] per i popoli del Vicino Oriente, non è costituito dalla perdita di vite umane, dai danni economici, dalla distruzione provocata dalla guerra o dalle vittorie militari, ma dai mutamenti politici». Quei mutamenti politici, ieri, erano rappresentati, sempre secondo la filosofa ebrea, dalla « creazione di una nuova categoria di persone senzapatria, i profughi arabi», cosa che non faceva altro che confermare l’assunto secondo il quale «gli ebrei miravano semplicemente a cacciare gli arabi dalle loro case».
Oggi, pur rimanendo evidente l’intento colonialista e liquidazionista della destra ebraica, i mutamenti politici si sono fatti più evidenti su scala mondiale, in un contesto in cui, come si è già detto prima lo Stato di Israele, con la sua azione spintasi ben oltre Gaza, sembra aver perso qualsiasi aspetto di legittimità davanti agli occhi della maggioranza della popolazione mondiale. Ben oltre i confini del mondo arabo in cui tale percezione condivisa era principalmente limitata prima del conflitto degli ultimi due anni. Una rimessa in discussione non solo dei principi che ne hanno validato l’esistenza per decenni, ma che costringono anche ad una progressiva, ancor che lenta agli occhi di molti, revisione delle alleanze che ne hanno garantito la sopravvivenza fino ad ora. Ed è a questo punto che occorre ritornare al testo di Pappé, là dove afferma, ad esempio:
Non sorprende che la guerra scoppiata nel 2023 tra Israele e Hamas sia vista da alcuni come preludio dell’Armageddon. Ma è possibile andare oltre la semplice visione apocalittica e presentare invece una valutazione più ottimistica di un potenziale esito di quello che sembra essere una disintegrazione inevitabile, caotica e violenta dello Stato ebraico.
[Infatti] diversi processi che si svolgevano davanti ai miei occhi mi hanno portato a concludere, non come attivista politico o visionario bensì come accademico, che stiamo assistendo alla fine dello Stato di Israele, o se non altro del progetto sionista come lo conosciamo. Benché promossi dalle azioni di gruppi di individui e organizzazioni, oggi questi processi hanno raggiunto una dimensione tale che la loro spinta è inarrestabile e condurrà a un cambiamento sul campo davvero fondamentale, rivoluzionario, in quelli che attualmente sono Israele, la Cisgiordania occupata e la striscia di Gaza distrutta10.
Però, per fare sì che queste affermazioni non rappresentino soltanto delle semplici e utopiche speranze, l’autore si preoccupa di aggiungere subito dopo:
Come molti miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce anche innumerevoli esempi in cui le lotte di per la liberazione e la decolonizzazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.
Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare la fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare a una transizione […] che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente..
Per riassumere quanto detto fin qui: il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa non è una pia illusione né lo scenatio cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. E’ qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla11.
Spesso anche negli ambienti dell’antagonismo, abituati da decenni di vittimizzazione a non aspirare ad altro che ad una vendetta. Dimenticando che il dio della vendetta è esattamente quello esaltato dalla destra israeliana ed evangelica e che la vendetta non può mai costituire un buon metro di giudizio o di programmazione per il futuro. Una cecità che impedisce di cogliere crepe importanti non soltanto ai vertici dell’intelligence e delle forze di difesa dello Stato di Israele, come la mancata riuscita del bombardamento dei vertici di Hamas a Doha oppure la vicenda dell’avvocato generale militare, Yifat Tomer-Yerushalmi, arrestata per aver diffuso un video che mostra gli abusi dei soldati su un detenuto palestinese e ancora rinchiusa in carcere per aver fatto tale scelta, già mettono in evidenza .
Crepe che si manifestano nel rifiuto dei riservisti di tornare sul fronte di Gaza oppure nelle manifestazioni dei parenti degli ostaggi che, anche se spesso sono state rivolte soltanto alla salvezza dei propri cari oppure alla richiesta di un’azione più energica nei confronti di Hamas, talvolta sono sfociate in dichiarazioni individuali o collettive tese alla ricerca di un nuovo modus vivendi con la popolazione arabo-palestinese12.
Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverà.
[…] Per riassumere, il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa ccettare o rifiutare. E’ un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi -come facciamo noi- sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere.
Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. E’ riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda o terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. L’unica speranza per il futuro degli ebrei sarà data dalla loro disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno13.
Tutto il testo di Pappé, diviso in tre parti, è teso a individuare le contraddizioni e le formule politiche e sociali che potranno contribuire al raggiungimento di un tale risultato, ben diverso e lontano dalla tanto sbandierata ed inefficace soluzione dei “due popoli due stati”. Formula che conviene tanto ai sionisti quanto ai paesi occidentali e arabi e ai loro governi per mantenere divisi e in stato di inimicizia costante palestinesi ed ebrei.
Anche se, per chi scrive, un percorso di guerra civile sembra delinearsi come un passaggio obbligato all’interno della società israeliana, sarà comunque soltanto cercando un’unità di lotta dal basso tra i due popoli che si potrebbe giungere al superamento dell’oppressione di tutti coloro che vivono in Palestina, al di là delle troppo facili retoriche della lotta di classe e dei suoi miracolosi effetti sulla psiche collettiva oppure, ancor peggio, di quelle vuote, pericolose e razziste della vendetta antisemita.
M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 115-124. ↩
I. Pappé, Prefazione a I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 11-13. ↩
Zero Stati?, editoriale del n°9, 2025 di «Limes» dal titolo Gli Stati di Israele, p. 10. ↩
G. De Ruvo, L’ottavo fronte di Israele in «Limes» n°9/2025, pp. 41-42. ↩
F. Guccini, Incontro, nell’album Radici del 1972. ↩
L. Caracciolo, Il declino dell’impero americano, “la Repubblica”, 8 novembre 2025. ↩
Si veda: M. Giro, Il tycoon e la variabile saudita. Riad non si fida più degli Usa, «Domani» 4 novembre 2025. ↩
M. Giro, Riad non si fida più degli Usa, cit. ↩
F. Magri, Nuovo mandato d’arresto per Netanyahu. La Turchia accusa Israele di genocidio, “La Stampa”, 8 novembre 2025. ↩
I. Pappé, op. cit., p.14. ↩
Ibidem, pp. 15-16. ↩
Si veda su tutto questo: F. Borri, Israele contro Israele, in «Limes» n°9/2025, pp. 97-101. ↩
Ivi, pp. 16-18. ↩



