di Gioacchino Toni

Nadim Samman, Criptopoetica. L’arte nell’era del Tecnocene, Traduzione di Valerio Cianci, Prefazione di Valentino Catricalà, Luiss University Press, Roma 2025, pp. 248 € 24,00

Se da un lato il Tecnocene – inteso da Nadim Samman come l’era in cui le nuove tecnologie riscrivono i confini del sensibile, del pensabile e del visibile – manifesta una tendenza all’esibizione più estrema – basti pensare all’esposizione senza riserve che caratterizza i social e alla presenza sempre più massiccia di sistemi di riconoscimento e sorveglianza nelle città – è innegabile che sia al contempo caratterizzato da un’estrema opacità delle tecnologie che plasmano la quotidianità. Le dinamiche interne che guidano le tecnologie contemporanee risultano infatti inaccessibili, oscure al punto che nemmeno chi li ha progettati è in grado di comprendere e spiegare fino in fondo la logica con cui operano gli algoritmi che governano le macchine e con loro una parte sempre più estesa della vita quotidiana degli individui e delle società.

«Affrontare le dimensioni sepolte, nascoste o inaccessibili della tecnologia – mettendo in campo concetti che hanno a che fare con un interno occulto – è un prerequisito fondamentale poter discutere della condizione umana del Tecnocene, dove la formazione del soggetto si articola in relazione a siti criptati» (p. 119). La cultura digitale non manca di accumulare tracce del passato e del presente con l’intento di conservare una memoria digitale di quello che è, o è stato, dando luogo a spettri digitali che, gestiti dall’intelligenza artificiale, non si limitano a proporsi come memoria di ciò che è stato ma sembrano dotarsi di nuova e autonoma vita.

Del prendere vita autonoma dei fantasmi digitali costruiti sul trascorso degli individui si sono più volte occupati anche il cinema e la televisione. Nel primo caso basti pensare al recente The Shrouds (2024) di David Cronenberg, in cui il protagonista del film si propone di prolungare la presenza della moglie defunta non solo osservando il suo cadavere in decomposizione avvolto in uno speciale sudario tecnologico, ma anche attraverso la creazione di un suo avatar digitale gestito dall’intelligenza artificiale. Nel secondo caso si pensi ad alcuni episodi della serie televisiva Black Mirror (dal 2011) ideata da Charlie Brooker: in Torna da me (Be Right Back, 2013) si narra di un software che rielabora il materiale che un individuo ha condiviso online durante la vita, mentre in San Junipero (2016) si affronta la possibilità di trasferire la coscienza degli individui in una paradisiaca eternità virtuale capace di vincere lo scorrere del tempo.

Nonostante il digitale in ambito artistico, ma non solo, tenda ad essere presentato come sinonimo di novità intesa come tabula rasa del passato, questo ne è in realtà saturo, tanto che vi si possono scorgere fantasmi del tempo che si vuole ormai scomparso. «Nel Tecnocene, ciò che è stato sepolto, ciò che è morto, si manifesta nel presente, tanto come ciò che è (o era), così come qualcosa di nuovo»; insomma pare «contraddistinto da un’impellente necessità di stare nell’adesso» (p. 23).

Il digitale può anche essere uno spazio di ritorno, di memoria sedimentata utile non solo per creare il nuovo ma anche per riflettere su ciò che sopravvive e su quali siano i soggetti che archiviano per tutti.

Quando si guarda al digitale occorre non confondere il progresso tecnologico con quello culturale; l’universo smart che il Tecnocene invita a desiderare, di realmente smart sembrerebbe avere soprattutto l’innegabile abilità con cui le imprese tecnologiche contemporanee estendono oltremodo gli ambiti di monitoraggio, datificazione e sfruttamento degli individui rendendoli giocosamente corresponsabili.

Numerose proposte di arte digitale di carattere immersivo e/o interattivo promettono a chi si rapporta con con esse di avere il controllo ma non è affatto così; si tratta di una narrazione neoliberale che mira a confondere l’interfaccia con l’agenzia. Il fascino emotivo emanato dall’immersività e dall’interattività digitale è costruito su infrastrutture inaccessibili e oscure a cui è richiesto di assoggettarsi acriticamente.

Non si tratta di prescindere dai sistemi digitali in nome di un nostalgico ripiegamento in un’idilliaca era analogica, scrive l’autore di Criptopoetica, ma piuttosto di decidere come e a quali condizioni utilizzarli. Le pratiche artistiche contemporanee che si rapportano con le tecnologie digitali a cui guarda Samman sono quelle che smascherano tale narrazione, che rendono visibile l’illeggibile, che evidenziano i meccanismi dominanti.

Allo storytelling dominante delle Big Tech che narra di una nuova cultura della trasparenza e dell’apertura, una parte dell’arte contemporanea risponde esplorando il nascosto e l’invisibile, addentrandosi nei luoghi segreti della raccolta dati (black sites), nei sistemi tecnologici inaccessibili (black boxes) e nei vuoti informativi strategici (black holes) alla ricerca di simboli, narrazioni e forme utili ad evidenziare e raccontare l’impatto sociale, politico e spirituale della tecnosfera.

Forte della sua esperienza di critico e curatore d’arte e di autore di numerose pubblicazioni riguardanti l’arte digitale, la sorveglianza e l’estetica tecnologica, Nadim Samman si dice convinto che il compito di interpretare la contemporaneità spetti all’arte nel suo proporsi come strumento di rivelazione capace di far luce sull’oscurità dei data center e degli algoritmi. Intrecciando filosofia, politica ed universo artistico e creativo, ad essere indagata dall’autore in questo volume è quella “criptopoetica” che, nell’ultimo decennio, interroga l’invisibile che ci circonda.

Con Criptopoetica, nel proporre un panoramica sulle esperienze artistiche che nell’ultimo decennio hanno indagato i misteri della tecnologia, Samman invita a guardare nelle pieghe della cripta dei dati, in ambiti che sembrano abitati soltanto da un codice inaccessibile e incomprensibile, oltre l’interfaccia degli schermi che fa credere agli utenti di essere gli unici osservatori mentre in realtà sono loro ad essere visti, spiati e ipnotizzati. Si tratta, dunque, di una riflessione critica e poetica della contemporaneità condotta attraverso e attorno una serie di esperienze artistiche che hanno voluto confrontarsi con i misteri della tecnologia.

L’obiettivo di una poetica della criptazione è rendere l’inaccessibile virtualmente presente con le funzionalità di un vecchio sistema operativo. […] Non importa quanto sicuro sia lo spazio criptato – è sempre possibile avventurarsi seguendo la via negativa: parlando dell’insormontabile sfida di chinarlo col suo vero nome; raffigurando la farsa e non la perfezione; e, soprattutto, producendo un profluvio di immagini che rendano conto dell’esistenza incarnata delle relazioni con questa oscura interiorità (119).

Il volume è strutturato in tre sezioni dedicate rispettivamente ad altrettante modalità di relazione all’interno criptografico. Se la prima sezione (Sito nero), che si apre con una recente rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice, fa riferimento all’esperienza dell’essere rinchiusi, al tentativo di sfuggire dalla tumulazione in una tomba tecnologica, la seconda (Scatola nera) riguarda l’esclusione dal dilagare dei prodotti industriali e di consumo e propone una riflessione incentrata su un’opera cinquecentesca di Dürer, la terza (Buco nero), infine, si concentra sulla reclusione nell’inestricabile intreccio tra esterno e interno, tra aperto e chiuso intrecciando i miti del Bitcoin e di Qanon.