di Franco Pezzini
Ci sono libri che funzionano come scatole cinesi. Leggendoli, ci accorgiamo all’improvviso che il titolo attribuito è una sorta di maschera, non falsante ma certo riduttiva. E a quel punto si tratta d’indagare il sotteso.
François Ribadeau Dumas (1904-1998), di una famiglia di avvocati, medici e arcipreti, membro – si dice – della Loggia Tradition Jacobine, è stato un esperto riconosciuto negli studi esoterici d’Oltralpe, e in Italia sono apparse varie sue opere. La più recente (Storia dell’Occultismo magico, prefaz. di Robert Kanters, Mediterranee, 2023) in realtà rimonta a parecchi decenni orsono (Histoire de la Magie, Les Productions de Paris, 1961): dedicata all’avvocato e poligrafo intrigato da occulto & mistero Maurice Garçon, viene inviata a Jean Cocteau e ne guadagna un biglietto entusiasta, riportato a p. 5 dell’edizione italiana. Il volume è monumentale, quasi 480 pagine, di godibilissima lettura e fitto di storie e immagini: certo, ha il taglio erudito di una volta, un po’ anticato ed eurocentrico, ed è inevitabile avvertire lo scarto dagli studi odierni, giustamente sostenuti da un ampio zoccolo antropologico su culture altre (si pensi solo all’Africa, oggetto qui di esigui cenni). Ma va detto che non si tratta in senso proprio, a dispetto del titolo francese, di una semplice storia della magia, come tante ce ne sono state. Infatti il suo caleidoscopio punta in una direzione molto precisa, alla cui luce livida sa presentare ondate di materiali: si tratta infatti a ben vedere di un volume che esamina la materia dal punto di vista della figura di Faust.
Non a caso parte non dall’antichità – che riprende al cap. II – ma da Praga, 1510, quando arrivano in città appunto Faust, Paracelso e Cornelio Agrippa; e questo legato faustiano l’autore insegue attraverso tutta l’illusionistica vita del magus – si esaurisca o meno nella figura del coevo ciarlatano Georgius Sabellicus Faustus junior (chi era il senior, se c’era?), un po’ come poi Cagliostro con Giuseppe Balsamo – e in un magistero postumo che attraverso spiritismo e parapsicologia arriva all’“uomo di domani”. Visto che il profilo di Faust è ampiamente oggetto di mito, si potrebbe dubitare della bontà di una chiave interpretativa tanto ambigua per un fenomeno di tale ampiezza, ma una cosa è certa: più ancora che nel richiamo a un personaggio Faust, “faustiana” è una dimensione o una chiave d’indagine a cui come moderni non possiamo rinunciare. Tanto più occupandoci di letteratura dell’immaginario.
La categoria del faustiano, infatti, non si esaurisce nel magico, ma trova la sua connotazione centrale in uno scambio d’affari, un contratto – fatale come tutti gli impegni, ma in questo caso un tantino di più – che prevede la cessione di qualcosa di cui l’uomo moderno ormai fatica a capire cosa fare, cioè l’anima. Cessione a qualcuno che invece vi pare curiosamente interessato, cioè la figura più equivoca e marginale degli studi teologici, e di cui non a caso teologi moderni si sforzeranno di demitizzare il ruolo – quella maschera e anti-persona che è appunto il diavolo. Può rilevare fino a un certo punto che patti “faustiani” connotino già storie antiche, come quelle di Teofilo e Cipriano, o – almeno in metafora – antichissime come il patto giurato dei principi achei per sostenere lo sposo scelto da Elena di Sparta contro qualsiasi minaccia al talamo (la trovata era stata di Odisseo per evitare che i rissosi pretendenti si sbudellassero sotto casa di lei, e sappiamo com’è andata a finire): un patto fatale, comunque, che si ritorcerà contro lo stesso ideatore Odisseo. Ancora, può rilevare poco che il Faust storico – almeno nel suo modello di ciarlatano quattro/cinquecentesco – viva in un’epoca in cui l’anima conosce ancora una borsa molto attiva, su cui si misurano guerre di religione e roghi, e al diavolo ci si crede eccome: il successo della figura monterà però via via in un mondo sempre più laico, che vive il faustiano come provocazione sul filo del grottesco o metafora di istanze esistenziali più o meno serie.
Anche in rapporto con un fenomeno generale. Da un certo punto di vista occidentale, la storia del mondo moderno, aggressivamente borghese fino a definirsi in Capitalocene, è anche quella di una privatizzazione dell’identità. Qualche esempio, in disordine cronologico: i campi comuni delle collettività di villaggio vengono divisi dalle enclosures; gli imperi si dividono via via in stati nazionali, con l’insorgere di nazionalismi sempre più patriotticamente asfittici ed egoistici; i corpi prima oggetto di ampia dinamica spirituale – con tanto di possibilità di ingerenze esterne, fino alla possessione da parte di intere legioni di identità alternative – si trovano laicizzati a far fronte a malattie individualissime; persino il Cielo dove un Dio Unità ma insieme Famiglia trinitaria, e brulicante di una comunità ampia e variegatissima di gerarchie angeliche e di santi in comunione, viene svuotato da ampie fasce della cultura come sede di un solitario Dio orologiaio. Certo, le grandi agenzie spirituali avranno ancora presa su numeri enormi di popolazione ma via via meno su un orizzonte intellettuale sempre più laico, e l’identità individuale finirà con l’affermarsi – nel bene e nel male – come misura di diritti e libertà borghesi. Tutto tranquillo? In realtà no: perché le crisi dell’identità ci sono eccome: uscite dalla porta, le infinite ossessioni possessioni perturbazioni rientrano dalla finestra. E non “stanno” più, a grandi numeri, blindate dalle chiavi di sicurezza delle formule dogmatiche. Due sono dunque i campi attraverso cui agiscono.
Anzitutto le dottrine sull’uomo. Si tratti di spiritualità altre – “esoteriche” in tutte le forme possibili, dal puro simbolismo alla magia – o invece delle scoperte più avanti di una terra incognita entro l’uomo, l’inconscio, le antiche domande conoscono forme nuove. Non più perseguitato attivamente, l’esoterismo conosce nuove configurazioni: si pensi solo alle massonerie razionaliste e a quelli illuminatismi che evolvono di fianco agli illuminismi ma finiranno col tempo a porsi quale vere e proprie religioni alternative. E in prosieguo la scoperta di imbarazzanti sottoscala all’interno dell’essere umano rovescerà sugli eroi modernisti fiumi di sogni, ossessioni e crisi identitarie.
Ma poi (e vorrei dire soprattutto) letteratura e arti, che a quelle nuove dottrine si aprono, portandone le idee a un pubblico sempre più vasto. La letteratura moderna è un po’ tutta letteratura di identità. E il racconto delle sue crisi si dipana in modo paradigmatico in quei settori della letteratura che offrono peso al linguaggio del mito e dell’ombra: cioè, a partire dal gotico, tutta la letteratura fantastica e affine. Dismesso il meraviglioso devoto, è arrivato infatti il fantastico laico – che sviluppa proprio le sfide e le crisi sul tema dell’identità, individuale e collettiva. E quale categoria evoca il tema della crisi identitaria più radicalmente della faustiana, dove l’uomo si spossessa di una quota del sé – anima, ombra o quel che sia – nell’ambito di un rapporto economicistico (nello specifico di Faust), o di un valore comunque “altro” (nelle infinite declinazioni del “faustiano”)? Il mondo borghese è un mondo economico, quindi detta anche le vendite di sé.
Poi s’intenda: non è che manchino i grandi movimenti collettivi, pensiamo a certe fasi rivoluzionarie prontamente adulterate, ma la tentazione a privatizzare – dal mercato degli ideali agli accordi particulari al posto delle contrattazioni collettive – trova le sue radici in questa lunga storia spesso scellerata.
Nessuno stupore che nei decenni di definizione di un mondo nuovo Goethe dedichi a Faust un’opera-mondo (1808-1831), preceduta o preparata da una schiera di fantasisti birichini. Compaiono così Le Diable amoureux di Jacques Cazotte (1772), Vathek di William Beckford (1786, 1787), Il visionario di Friedrich Schiller (iniziato nel 1786, incompiuto), Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso (1814), le figure in senso lato faustiane di Byron ma anche di Hoffmann e Mary Shelley, il Melmoth di Maturin (1820), The Devil and Tom Walker di Washington Irving (1824), e circolano le leggende su Giuseppe Tartini, Niccolò Paganini, come sul meno noto “The Yankee Faust” Jonathan Moulton, eroe americano (1726-1787) dalle leggendarie avventure, e che avrebbe cercato di giocare il diavolo vendendogli l’anima a patto che quello gli riempisse gli stivali di monete d’oro il primo giorno di ogni mese.
Ma è solo l’inizio: Poe, grande indagatore sulle frantumazioni e crisi dell’identità, gioca sulla chiave faustiana fin dal racconto “The Duc de L’Omelette”, composto verso il 1831, avviando un intero filone grottesco sul tema del diavolo e in particolare degli “accordi” con lui, in termini da un lato di sfida e dall’altro di mercimonio dell’anima. E poi il citato Lenau (1836), Hermann Ludwig Wolfram (1839), la versione danzata di Heine (1851), Jules Verne, con il suo Maître Zacharius ou l’horloger qui avait perdu son âme (1854), ispirato a Hoffmann e allo stesso Poe, e infiniti altri narratori, poeti, musicisti, autori teatrali… Se l’uomo moderno rivendica la propria identità come fatto privato e concreto nelle arene politiche o in quelle d’affari, piace ricordare che possa perderne dei pezzi, conoscere frantumazioni (Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, di Stevenson, 1886), confrontarsi con una dual existence (così Le Fanu) che non solo permette l’apertura all’alterità sitibonda dei vampiri ma sfida con domande persino più imbarazzanti sulle nostre scimmie interiori (Green Tea, 1969).
Il maestro e Margherita di Bulgakov (1966-1967, ma scritto tra il 1928 e il 1940) e il Doktor Faustus di Mann (1947) proiettano il faustiano nel profondo del Novecento, ormai cosciente che la privatizzazione dell’identità è funzionale ad altri assetti – un neocapitalismo predatore che ha venduto l’anima e il pianeta, i nazionalismi/sovranismi campioni dell’egoismo politico, le disumanizzazioni di paradisi finti – ma rappresenta una chiave manchevole e falsante rispetto alla vita interiore. L’anti-persona – Διάβολος, diábolos, “il divisore”, insomma sempre lui – gioca a isolare e togliere speranze. L’età moderna è insomma l’età di Faust. E di un Mefistofele che ha solo l’imbarazzo di scegliersi un nome.