di Sandro Moiso

Roberto De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 205, 20 euro

La raccolta si saggi appena pubblicata dalle edizioni Mimesis traccia, utilizzando un’ampia antologia di scritti dell’autore pubblicati sul quadrimestrale Fata Morgana, di cui è direttore, e Fata Morgana Web, un interessante percorso attraverso i possibili significati attribuiti all’America, così come è stata “immaginata” nel corso del tempo, e al mito che ne è derivato, in patria e altrove. De Gaetano, che è docente di Cinema e scrittura critica presso l’Università Sapienza di Roma, affronta temi legati, come afferma già il sottotitolo, alla filosofia, alla letteratura e al cinema. Per gentile concessione dell’editore si fornisce qui un ampio stralcio dell’introduzione allo stesso testo.

Sogno, incubo, scena, stile di vita, uomo, natura, deserto, prassi, romanzo, cinema, democrazia: per tutto questo e altro l’accostamento con l’aggettivo “americano” identifica subito una forma specifica e ben individuata in cui l’essere viene a espressione. Tale espressione riguarda tutti. Sicuramente il mondo occidentale, di cui l’America ha rappresentato l’attuazione di una possibilità ulteriore, l’invenzione del nuovo, l’immaginazione di una seconda nascita.
L’America porta a espressione una vera e propria ontologia, radicata e profonda, che ha al centro l’azione, concetto che attraversa tutte queste pagine.
Le forme di vita americane mostrano all’opera nel quotidiano la ristrutturazione continua dell’esperienza, il cambio costante di regola, l’affermazione di una pura potenza di cui il denaro è simbolo. Tant’è che il denaro per gli americani – ci ha detto Margaret Mead – non è esposizione del lusso. L’austerità di abbigliamento e di costumi è il contrassegno dell’americano, anche quando è molto ricco. Il denaro non va accantonato (nessuna logica del risparmio), va fatto crescere in modo continuo. Il denaro è possibilità e tale deve restare.[…] È una vertigine del possibile che attrae e paralizza. E che non riesce a fermarsi. Lo sguardo morale con cui giudichiamo il mondo americano è spesso indicativo più di cattiva coscienza che di altro.
In gioco c’è piuttosto l’impasse di una possibilità pura. Lo stallo di tale condizione deriva dal non prevedere che la possibilità possa riguardare anche il non. Qui Melville nel suo Bartleby, con la formula I would prefer not to, lo ha immaginato nel modo più potente: non esiste potenza effettiva che non sia anche potenza di non. È il contromovimento che la grande letteratura americana ha saputo costruire e immaginare: sospendere l’azione mettendosi in pausa o in fuga. Fuga dalla società e fuga da sé stessi. Così nasce l’America, e così tale nascita viene riproposta nella vasta terra americana. D. H. Lawrence lo dice in un testo che rimane epocale, dove l’America e gli americani, visti dall’Europa, emergono nella loro differenza, e proprio attraverso la letteratura: “They came largely to get away […]. To get away. Away from what? In the long run, away from themselves. Away from everything”.
Come nel racconto di Hawthorne, Wakefield, in cui il protagonista esce di casa, abbandona la famiglia, prima di ritornarvi dopo vent’anni. O come nel racconto fondativo della narrativa americana, Rip Van Winkle di Washington Irving, in cui il personaggio si addormenta per poi risvegliarsi a Rivoluzione americana avvenuta, con il mondo radicalmente cambiato.
[…] La grande potenza della letteratura americana, di quello che Matthiessen ha chiamato il “Rinascimento americano” di metà Ottocento, risiede nell’essere stata allo stesso tempo la letteratura di una nuova nazione, capace di trovare i poeti in grado di cantarla (il poeta chiesto da Emerson), ma anche la letteratura della fuga, della linea di fuga, per mare, foresta, wilderness. Fuga nello spazio, nel tempo, nel sonno, fuga sur place, fuga dalla vita morale, per entrare in un divenire dove la comunità si fa gruppo di incontro, dove il cameratismo conta più della famiglia (marcata a fuoco dalla colpa morale come in The Scarlet Letter). A contare sono l’individuo e le sue relazioni con il compagno, la natura, l’altro. L’individuo in viaggio, dove l’essere senza radici è una precondizione per costruire quello “Spirit of Place” lontano dal “blood”, dai legami di sangue europei.
Nessuna prescrizione morale può bloccare tutto questo divenire, dove ogni inizio porta con sé una fine, dove il desiderio di fondare è accompagnato da quello di fuggire.
L’America ci mostra qualcosa della nostra condizione umana: nascere non significa entrare in un mondo dato, ma aprirne uno nuovo, fondarlo. E questo significa divenire, mettere in questione ogni identità fissa, ogni legame con una terra. Si approda a qualcosa di nuovo solo se si lascia qualcosa di vecchio. Nascere è separarsi, così come rinascere. L’Europa ha dimenticato tutto questo, i suoi imperi hanno perimetrato spazi e assoggettato popoli, rendendo impossibile il divenire.
La democrazia americana è in primo luogo la forma in cui un divenire è possibile. Il suo fondamento è al fondo anarchico.
[…] La potenza immaginaria, simbolica e reale dell’America, la perennità del suo mito, risiedono nella congiunzione all’interno della prassi dell’annuncio del Nuovo Mondo e del suo dissolversi, della fiducia che anima l’uomo nuovo (cantata da Emerson in Self-Reliance) e di quella carpita dal truffatore (che ci racconta Melville in The Confidence Man), di una natura che è romanticamente il Tutto che salva ma anche la wilderness in cui ci si perde. Il confine è sottile, i ribaltamenti possono essere repentini e imprevisti, ma senza correre il rischio di percorrere tale linea la vita faticherebbe a esprimersi.
È di questo che l’America è il nome: del contemporaneo venire a espressione, e dunque a realtà, della vita, del nuovo, della nascita, ma anche, e allo stesso tempo, della dissoluzione, della linea di fuga, della deriva. L’incubo non è qualcosa di diverso dal sogno, è la sua piega interna. La vita, proprio perché democratica, è strutturalmente anarchica, fondata su accordi e convenzioni che possono cambiare, anche velocemente.
In tutto questo, l’antiamericanismo come slogan è un epifenomeno rispetto alla portata mitica e antropologica dell’America, di chi nella immanenza creatrice della prassi ha saputo inscrivere la sua trascendenza. L’America è stata e continua comunque a essere la scena in cui vediamo la nostra vita, la vita di tutti, in tutta la sua maestosa ambivalenza e contraddittorietà1.


  1. R. De Gaetano, Di cosa l’America è il nome introduzione a R. De Gaetano, La scena americana. Filosofia, letteratura, cinema, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025, pp. 9-13.