di Valentina Cabiale
A causa del riscaldamento climatico le masse glaciali si riducono di decine di metri e lasciano affiorare tutto quello che hanno conservato e nascosto per decenni: i corpi dei soldati, resti di apprestamenti e di baracche, reperti mobili e molte cose di cui forse neppure ci si accorge, in luoghi ad alte quote non tanto frequentati. C’è la possibilità di conservare tutto questo o il grosso è destinato a deteriorarsi rapidamente una volta esposto?
Dipende dalle condizioni. I ghiacciai sono contesti dinamici, il ghiaccio si muove, avanza e retrocede, si spacca e butta fuori cose. Quello che sta dentro un po’ alla volta tornerà fuori, ma anche in tutt’altro punto rispetto a dov’era. Magari a fondovalle finiscono elmetti e altri reperti della Prima Guerra mondiale, insieme a pezzi di vecchi impianti sciistici. Fino a un po’ di anni fa il ghiacciaio e i crepacci erano un immondezzaio, si buttava roba dentro pensando che tanto non l’avrebbe più vista nessuno. Così, dentro il ghiacciaio c’è immondizia di tutti i tipi e tutti i tempi. Su un ghiacciaio nella zona dell’Adamello, ad esempio, sono emersi pezzi di eternit, che durante la Prima guerra mondiale si usava per le costruzioni, insieme a resti di esplosivi. A volte è il crepaccio, dove il ghiaccio è più stabile, a buttare fuori i resti delle strutture, e dei soldati che sono caduti o sono stati buttati dentro. Succede ogni anno. Il problema è che come escono, poi questi resti ritornano nel ghiacciaio, da dove ne riescono nuovamente magari non l’anno successivo ma quello dopo ancora – e questa continua uscita e rientrata li riduce drammaticamente. Quindi tutto dipende dai tempi degli avvistamenti e delle segnalazioni.
Il recupero e la tumulazione dei resti umani sono competenza specifica del Ministero della difesa ma qui in Trentino sono riuscito a gestire una collaborazione con l’ufficio Onorcaduti così da fare, quando si tratta dei resti di soldati, un recupero di tipo archeologico. Chiunque trovi dei resti deve avvisare le forze pubbliche che avvisano il magistrato, perché ci potrebbe essere evidenza di reato; se durante il sopralluogo con i carabinieri si nota che i corpi hanno, ad esempio, le uniformi della Prima guerra mondiale, il magistrato dà il nulla osta e procediamo noi con il recupero archeologico. Recuperiamo con cautela i resti annotando tutti gli elementi che possono essere utili, controlliamo anche l’area circostante e poi portiamo la salma al cimitero di Trento dove io e l’antropologo Daniel Gaudio facciamo l’indagine autoptica: lui bioantropologica, io archeologica.
Una segnalazione può arrivare giorni dopo che i resti sono usciti dal ghiaccio. A volte inoltre non è così facile raggiungere il luogo – sulle alte quote si arriva in elicottero – possono passare alcuni giorni, e le condizioni dei resti cambiano rapidamente.
Il corpo di Rodolfo Beretta era molto ben riconoscibile, rannicchiato vicino a una roccia: non sapremo mai se era in quella posizione perché rotolando sotto la valanga aveva istintivamente messo le braccia a protezione del viso, oppure se avesse trovato una bolla d’aria. La prima ipotesi sembra più probabile: era completamente svestito nella parte inferiore del corpo, aveva solo la giacca e gli indumenti intimi, il resto lo deve aver perso quando è stato trascinato dalla valanga. Ma l’anno successivo, mentre ero sul posto per la realizzazione di un video-documentario, vicino a dove era stato trovato il suo corpo (lo scopritore ha lasciato, in quella pietraia, un fiore di plastica, a segnalare il luogo esatto) abbiamo ritrovato alcuni frammenti di tessuto, che poi ricomposti in laboratorio si sono rivelati essere quello che restava del suo cappotto.
Questo ti fa capire che il ghiacciaio restituisce quello che vuole quando vuole. È come il mare. Non ci sono regole. E noi recuperiamo quello che possiamo. Senz’altro i ghiacciai stanno regredendo in maniera drammatica, per quanto in modo diverso. Ci sono dei percorsi dove fino a qualche decennio fa dovevi fare dei passaggi sulla neve e sul ghiaccio, mentre adesso ti devi arrampicare sulla roccia per decine di metri. Il ghiacciaio della Marmolada sta sparendo. Anche il ghiacciaio dei Forni è molto calato. Calano le coltri, si ritirano le lingue. Il destino è segnato per molti ghiacciai delle Alpi, alcuni tra 30-40 anni non ci saranno più, chi vive sulle montagne ne è consapevole e vive una forte ansia ecologica. Chi vedeva negli anni ‘80 il ghiacciaio in un certo modo e oggi non lo vede più, capisce che sta succedendo qualcosa di brutto, perché in buona parte è causato da noi. Sopra la piazza dove siamo ora, in passato si sono alternati tre ghiacciai alti mille metri; quindi, il punto non è il futuro della Terra: il punto è come la Terra diventerà per noi. Poi è anche un discorso di tempistiche: da un periodo glaciale a uno interglaciale passavano decine di migliaia di anni, adesso vediamo nel breve tempo umano dei cambiamenti enormi e questo destabilizza le nostre certezze, ci rende fragili.
Tornando ai ghiacciai, probabilmente riusciremo a recuperare in quantità minima quello che uscirà, perché come il ghiaccio conserva perfettamente anche l’odore e i materiali organici, appena il materiale esce da quello stato di equilibrio e viene esposto, si degrada molto rapidamente. A Punta Linke lavoravamo quotidianamente con i restauratori, che mettevano subito i reperti in una grande sala aerata con tutti gli accorgimenti per la conservazione. Se prendi uno delle decine di copriscarponi ritrovati a Punta Linke e li metti al sole, dopo due ore hai solo paglia tritata.
Quindi tutto dipende dai tempi delle segnalazioni. In Svizzera hanno fatto una app, si chiama IceWatcher, prodotta dall’Ufficio Archeologico Cantonale del Vallese, tramite la quale si può fare la foto del rinvenimento, mettere le coordinate del luogo e in automatico segnalare il ritrovamento. Temo però che se lo facessimo qui da noi, arriverebbero centinaia di segnalazioni al giorno, non gestibili. Ci vorrebbe una task force, qualcuno che riceva le segnalazioni e delle guide alpine che salgano ogni volta a controllare. Ho ricevuto per anni la stessa telefonata in cui mi dicevano che avevano trovato i resti del capitano Arnaldo Berni su Punta San Matteo – sappiamo che morì lì nella battaglia del 1918. Ogni anno in realtà erano sempre le stesse ossa di animali.
In Trentino, in questo mi sento un po’ sfortunato, sui ghiacci non abbiamo trovato nulla di età pre- e protostorica. In Alto Adige, invece, in area glaciale e periglaciale sono stati ritrovati resti di tessuti dell’età del Ferro, delle scandole – ovvero tegole di legno – molto antiche, una ciaspola del Neolitico. Qui nulla. Non sappiamo come mai, stiamo cercando di ricostruire, con dei colleghi glaciologici, qual era la morfologia dei luoghi in quelle epoche antiche, per sapere dove andare a cercare queste tracce.
Sulle vette molto alte non ha senso cercare resti antropici, a meno che non si sia sull’Everest, dove di recente hanno ritrovato uno scarpone di Sandy Irvine, che scomparve con George Mallory nel 1924 mentre tentavano di raggiungere per primi la vetta. In quello scarpone c’era ancora un calzino con il suo nome cucito sopra. Il corpo di Mallory era già stato trovato una ventina di anni fa. In realtà non si sa se siano arrivati alla cima e stessero già scendendo, oppure se fossero ancora in fase di salita; quello che ora si cerca è la loro famosa macchina fotografica, che potrebbe conservare le prove del loro percorso.
Ma qui in Trentino, per ritrovare le tracce più antiche, dovremmo cercare quali erano i percorsi e quali passi potessero essere frequentati in antico. In Svizzera, ad esempio, lo Schnidejoch è un passo che nei momenti più caldi era transitabile e dove hanno trovato resti del tardo Neolitico, di età romana, medievale e le pallottole dell’esercito svizzero degli anni ‘50. Tra i reperti poco più recenti dell’età di Ötzi hanno trovato alcune cose molto interessanti, tra le quali una faretra in legno di betulla alta più di un metro e mezzo, un arco e dei pantaloni: speravano di rinvenire anche un corpo, gli avevano anche già preparato un nome (Schnidi), ma non l’hanno trovato. Non credo che di Ötzi ce ne siano tanti.
In ogni caso, per quanto i ghiacciai abbiano costituito una parte limitata degli ambienti frequentati dall’uomo, certamente sono stati frequentati da epoche molto antiche e quello che è rimasto dentro si è conservato. I due ragazzi austro-ungarici ritrovati sul ghiacciaio del Presena, intorno ai 3000 m di altezza, erano stati sepolti insieme dentro un crepaccio: nel 1918 il ghiacciaio era 100 metri più alto, eppure i due corpi sono scesi di quota insieme al ghiacciaio e sono riapparsi, ancora uno accanto all’altro, nei primi anni Duemila.
Riguardo a questo fatto che il ghiacciaio sfalsa un po’ la stratigrafia, ti pongo una domanda su Ötzi, che abbiamo già citato più volte, la mummia di un uomo vissuto 5000 anni fa ritrovata nel 1991 sul ghiacciaio del Similaun in Alto Adige. L’ipotesi che sia stato rinvenuto sul luogo del suo omicidio ti convince del tutto? Soprattutto rispetto all’ipotesi, formulata da alcuni studiosi, che egli sia invece stato sepolto con un ricco corredo (quindi i tantissimi manufatti esposti nel museo non sarebbero quelli che Ötzi portava con sé al momento della morte, ma quelli che sono stati deposti come corredo nella sua tomba). Il museo segue esclusivamente l’ipotesi che il corpo sia stato trovato dove è caduto colpito dalla freccia.
Il recupero di Ötzi e dei suoi oggetti non è stato archeologico; quindi, le notizie che abbiamo ci sono state riferite da coloro che l’hanno ritrovato. Personalmente non credo che sia stato sepolto. È più probabile che si sia accasciato lì, in quella conca, e sia morto. L’ipotesi del seppellimento non ha convinto me come molti altri. Gli oggetti sembrano più funzionali che da corredo, nel senso che molti di essi generalmente non compaiono nelle sepolture. E senz’altro la freccia gli ha causato la morte.
Secondo me Ötzi è un caso straordinario di conservazione, che ci ha dato la possibilità di lavorare su un essere umano come se fosse praticamente ancora vivo. Credo che nessuno abbia ricevuto le attenzioni cliniche, analitiche, che ha avuto lui con tac su ogni millimetro del corpo. Sappiamo tantissimo di lui. Non è stato fatto uno scavo archeologico ma grossomodo la situazione è nota: il contesto era quello di una buca, lui era lì dentro e il ghiaccio gli è passato sopra, altrimenti sarebbe stato ritrovato disperso su una superficie molto più ampia. Un caso più unico che raro.
In un tuo recente articolo sul museo archeologico di Bolzano (che è quasi interamente dedicato a Ötzi) citi marginalmente la questione etica. La mummia, com’è noto, è visibile da una sorta di finestrella che dà sulla cella frigorifera nella quale è conservata. Però riporti una citazione da un articolo di John Robb che definisce Ötzi “an example of “re-socialization” that takes place in the Museum. He is an “object” that deserves anthropological consideration—not only as a uniquely preserved fourth-millennium body which can tell us much about prehistoric Europe, but also as a construction of modern imagination which can tell us much about how contemporary, but usually implicit, understandings of the human body permeate visions of the past….. the Ice Man’s body reveals much about how we understand our own bodies”. [“un esempio di ‘ri-socializzazione’ che ha luogo nel museo. È un ‘oggetto’ che merita una considerazione antropologica – non solo come un corpo del IV millennio a.C. straordinariamente conservato che può dirci molto riguardo all’Europa preistorica, ma anche come costruzione dell’immaginazione moderna che può raccontarci tanto riguardo a come la comprensione contemporanea, di solito implicita, del corpo umano, permei le visioni del passato. Il corpo dell’Uomo del Ghiaccio rivela molto di come noi comprendiamo i nostri corpi”]
È John Robb, tra l’altro, che ha parlato di Ötziography e detto che un corpo deve ricevere un nome per poter diventare una biografia.
Lo esponiamo – cosa che ovviamente non faremmo mai con un soldato della Prima guerra mondiale – perché è un costrutto dell’immaginazione moderna più di quanto sia un uomo della preistoria?
Lo esponiamo semplicemente perché fa soldi. Se in quel museo non ci fosse Ötzi, sarebbe visitato molto di meno. Aver scelto di esporlo non è una colpa. Il cadavere ha due nature: una tremenda, naturale, che è quella della decomposizione; l’altra è quella altamente simbolica della reliquia. Ötzi è una reliquia, è diventato un corpo sacro, perché in lui vediamo noi stessi. Quello di Bolzano è il museo di noi che vediamo la morte, ovvero il pensiero unico che sta dietro a tutte le nostre domande. Non c’è nient’altro che non conosciamo così come non conosciamo la morte. Quindi guardandolo, avendolo lì davanti, ci poniamo ancora domande. È la stessa questione di cui parlavamo prima riguardo al futuro anteriore. E se dovessimo finire anche noi in un museo? Ötzi non era Napoleone, non era un personaggio noto, ma uno delle migliaia di persone che sono vissute sulle montagne ed è morto, e per caso l’abbiamo trovato. Il fatto di vedere un corpo umano in quelle condizioni ci colpisce molto, non ci aspettiamo che racconti così tante cose. Di recente, ad esempio, gli hanno rifatto l’analisi del DNA e degli isotopi, dalla quale si è capito che proveniva probabilmente dalla val Venosta.
Il fatto che gli sia stato dato un nome ancora di più è uno strumento per renderlo vivo. Ma se non ci fosse il corpo, il museo sarebbe un’altra cosa. Il corpo è attraente e repellente nello stesso tempo, e le due sensazioni non sono distinguibili. Inoltre, nella nostra cultura il corpo è poco esposto. C’è un’etica dell’esposizione dei resti umani, che in parte risente delle nostre culture: quella mediterranea è più pudica nell’esposizione rispetto al nord dell’Europa. Ad esempio, ho visto una mostra a Dublino sui bog bodies ovvero sui corpi delle torbiere e ho trovato molto impressionante vedere queste persone uccise e poi buttate nelle torbiere, tra cui un corpo con il solo busto, senza testa, le braccia alzate. In questi casi, di corpi mostrati nella posizione in cui sono morti, ci si interroga riguardo al rispetto. Divago un attimo da Ötzi, per dire che di solito gli archeologi trovano una sepoltura, ovvero le tracce fossilizzate di gesti e rituali che qualcuno ha compiuto deponendo il defunto. Diverso è il caso di Rodolfo Beretta e probabilmente anche quello di Ötzi, dove noi vediamo il corpo nel momento e nella posizione in cui è morto: come i morti di Pompei, e come le persone che si lanciavano dalle Torri Gemelle in fiamme e sono state fotografate. È una cosa diversa. È come se tu fossi lì con loro nel momento in cui stanno morendo, c’è la partecipazione.
Negli ultimi anni si discute tra gli archeologi, anche in Italia, di etica dei resti umani e delle modalità di esposizione. Gli archeologi hanno sempre scavato tombe. L’archeologia funeraria è una delle componenti principali di tutte le archeologie. È difficile immaginare cosa sarebbero i musei e la ricostruzione della storia delle civiltà antiche senza i manufatti prelevati nelle tombe. Di etica molto si dibatte ma non viene mai messa in dubbio, tra gli archeologi, la liceità dello scavare tombe. Si dice, si sottintende: scavare tombe è una pratica scientifica, necessaria per la comprensione dell’antichità. Probabilmente è vero, del resto anche l’idea della profanazione è un fatto culturale e profanazione è legittima, in nome della scienza, finché non compare qualcuno che rivendica quei resti.
Il tema è molto complesso ma vorrei porti una domanda più personale. Ho ripensato a Bruce Chatwin che a un certo punto della sua vita si mise a studiare archeologia ad Edimburgo e poi scrisse che un giorno, durante lo scavo di un sepolcro dell’Età del Bronzo, mentre stava per ripulire uno scheletro, fu assillato da un vecchio verso (che aveva letto sulla lapide della tomba di Shakespeare): “Maledetto colui che muove le mie ossa”. Mollò tutto e abbandonò per sempre l’archeologia. È una domanda un po’ ingenua: sinceramente, tu hai mai avuto dubbi?
No, mai. Con tutto il “rispetto”. Anche se penso che sia giusto porsi questo problema. La relazione che abbiamo con i resti delle persone non è mai equilibrata. Noi in quel momento interveniamo su di loro con una azione monodirezionale. Non possiamo chiedere loro cosa volessero. Quindi, come archeologo, cerco di fare quello che in quel momento mi sembra giusto e rispettoso. Ma ripeto: non so cosa si debba intendere con rispetto. Quando parlo pubblicamente di etica, a volte faccio vedere delle fotografie di un cranio di un ragazzino ritrovato a Mezzocorona, che ho scattato tanti anni fa quando ero un giovane archeologo: in una il cranio ha una sigaretta in bocca, nell’altra gli occhiali da sole. Sono foto irrispettose? Certo che lo sono. Adesso non le farei più. Però io non conosco la categoria del rispetto in queste situazioni perché non so cosa loro si aspettassero. Non si aspettavano niente, probabilmente. Però mi sono domandato se noi in qualche modo li stiamo disturbando. Sai che Paul Bahn ha scritto quell’articolo, “Do Not Disturb? Archaeology and the Rights of the Dead”, sulla opportunità di andarli a disturbare. Sinceramente non lo so.
Le tendenze che ci sono adesso nella costruzione di codici etici in cui si rivendicano le identità diverse dei nativi-americani, degli aborigeni, delle varie confessioni religiose, le trovo difficili da valutare. Credo che il valore più alto che dobbiamo dare a questi resti sia quello dell’umanità, se crediamo che gli uomini siano tutti uguali e non ci siano distinzioni di razze, nazionali, religiose. Quindi credo che anche le rivendicazioni di quelli che, secondo me, sono valori – o meglio, interessi – di comunità identitarie siano comunque meno alte del valore dell’umanità che ci accomuna tutti. Dal mio punto di vista, come archeologo, non ci sono differenze, tra un ebreo medievale, un nativo americano e uno schiavo di età romana. Non mi trovo molto d’accordo con le comunità di patrimonio (heritage communities, come sono chiamate). Per loro l’interesse principale non sta nel fatto che ci troviamo di fronte ai resti di persone, ma a persone di una determinata comunità e con una determinata identità sociale. Per me il valore più importante è quello della natura umana, e quello che conta – in questo vedo il rispetto – è ridare dignità a quei resti ricostruendo il più possibile di quella che è stata la loro vita
Di recente ho fatto il referaggio dell’articolo, per una rivista specialistica, di uno studioso dell’Alberta, in Canada, che ha messo a confronto tutto quello che sappiamo su Ötzi con quanto sappiamo relativamente ai resti di un nativo americano rinvenuti qualche anno fa in Alberta. Di quest’ultimo nell’articolo non compare una fotografia, perché non si può mettere; non sono noti i dati antropologici di base, perché è stato subito ri-sepolto; i discorsi che si possono fare sono molto generici, perché non è stato possibile fare nessuna analisi scientifica. Insomma, su di lui non sappiamo nulla perché i suoi resti sono stati rivendicati dalla presunta comunità di appartenenza e subito restituiti.
Restituzioni di questo tipo, secondo me, rientrano più nel politicamente corretto che nell’eticamente corretto. Tutte le tendenze post-coloniali, relative ad esempio alla restituzione dei reperti archeologici conservati in Europa, sono portate avanti soprattutto da stati che sono ancora colonialisti, ad esempio in Africa, seppure in forme diverse rispetto a un tempo, come Francia e Inghilterra. È un politicamente corretto che maschera un agire diverso, e quindi è ipocrita.
Molti chiedono un codice etico per sentirsi tranquilli e per avere delle regole su come comportarsi. Ma un codice etico non può essere una legge; l’etica sta in mezzo tra la norma e quello che puoi fare liberamente, sei tu che devi capire qual è il comportamento corretto.
Le comunità hanno il diritto di fare tutte le rivendicazioni che vogliono, ma dal mio punto di vista, non appartenendo io a una comunità che è stata emarginata e non avendo credenze religiose, penso che il valore di questi resti umani sia solo e unicamente quello di contenere ancora la natura umana. Forse la natura umana è solo un’idea, però per me è l’unico approccio possibile che accomuna quello che trovi in cima alle Alpi, nell’Alberta canadese o altrove.
Un collega di quello che era il Museo Pigorini di Roma mi ha mostrato una volta delle teste tagliate Maori, tatuate, portate in Italia a fine Ottocento. Alcuni rappresentanti della cultura Maori sono andate a vederle, e quelli del museo credevano che le richiedessero indietro; invece, i Maori hanno fatto le loro cerimonie a porte chiuse e poi se ne sono andati. Hanno spiegato che queste teste mozzate erano di tribù Maori ed erano state tagliate da altre tribù Maori, su indicazioni dei bianchi, e poi erano state tatuate post-mortem perché così i bianchi le avrebbero pagato di più.
Cosa servirebbe riportare le teste in Nuova Zelanda? Se invece trovi il modo di raccontare la loro storia, forse riacquistano un po’ della loro dignità. Il rispetto, secondo me, sta nel ridare un senso alla vita e morte di queste persone. Mostrando anche le nostre azioni negative. Il nostro approccio, credo, sia connaturato all’idea di peccato e penitenza: pensiamo che facendo una penitenza, riportando indietro le cose, è come se il peccato non l’avessimo mai commesso. Ma così alteriamo la memoria. Il passato è quello che è, non bisogna edulcorarlo nascondendolo sotto il tappeto. È fondamentale che noi conosciamo quello che è stato fatto. Nascondere il passato è una delle prove più chiare che non abbiamo capito nulla della storia. La storia è ancora maestra di vita, il problema è che noi siamo dei cattivi alunni.
Sono stata ieri al Museo Etnografico Trentino (METS) di San Michele all’Adige, a pochi chilometri da Trento, uno dei più importanti musei etnografici italiani di ambito regionale. Prima era noto come Museo degli Usi e dei Costumi della Gente Trentina. Nel suo genere è uno dei principali d’Europa. Sparsi per l’Italia ci sono decine e decine di musei di civiltà contadina, spesso nati in modo spontaneo, su iniziativa di un privato che ha raccolto una collezione; espongono reperti databili di solito tra fine XIX e prima metà del XX secolo, espressione di una civiltà pre-industriale che è stata definitivamente surclassata a partire dal Secondo dopoguerra.
Gli archeologi non si occupano di questo tipo di cultura materiale. L’archeologia del moderno e del contemporaneo, che sta prendendo piede e diventando una disciplina accademica, non sembra interessata – almeno in Italia – a questo tipo di materialità che è “vecchia” ma non “antica”.
Perché secondo te gli archeologi ne stanno distanti?
Hai ragione, ma non è, credo, una questione di tempi diversi, dipende da come si osservano le cose. Quello dell’archeologo è uno sguardo diverso da quello dell’etnografo.
Sì, è che paradossalmente l’archeologia del contemporaneo si interessa a una materialità più recente di quella esposta in questi musei. Se ad esempio si guardano i reperti considerati nel recente e interessante libro di Giuliano de Felice, L’archeologia del contemporaneo in 10 oggetti (Laterza 2024), essi sono tutti di età post-moderna, dalla pennetta usb alla lattina. Oppure gli archeologi studiano i contesti drammatici quali quelle delle guerre o delle migrazioni in corso (da Lampedusa al Messico), ma non questa materialità che come quella archeologica è ormai priva di funzione però non è ancor finita sotto terra e vive la sua longue durée tra di noi: nelle case, nelle soffitte, nei fienili, nei mercatini d’antiquariato.
Il rischio, molto forte, dell’archeologia del contemporaneo è in effetti quello di diventare l’archeologia del trauma. Senz’altro c’è una archeologia del passato molto recente che guarda a resti materiali che non sono quelli esposti nei musei etnografici. Non ho mai fatto questa riflessione, è interessante. Bisogna ragionare anche sulle etichette che sono state date.
Sì, il nome stesso di questi musei è ambiguo, perché quando parli di musei etnografici il primo pensiero va all’etnografia dei paesi extra europei. Invece quella dei musei di civiltà contadina è una etnografia del noi.
Le Soprintendenze, del resto, prima erano definite dei Beni “demo-etno-antropologici”, una dicitura che comprendeva vari aspetti che non hanno in sé una natura molto diversa, ma vengono visti con occhi diversi. Gli oggetti conservati nel museo di S. Michele all’Adige sono stati raccolti e sistemati grazie al lavoro di Giuseppe Šebesta, un personaggio geniale, che ha collezionato i manufatti quando erano ancora quasi vivi e li ha portati lì, inserendoli in un discorso sulle modalità del lavoro e della produzione. Che gli archeologi abbiano pochissimo interesse per tutto questo è certamente un dato interessante sul quale bisognerebbe riflettere.
Mi ritorna in mente la domanda di prima sugli oggetti di Rodolfo Beretta, qui su una scala diversa e più grande: quale sarà il futuro di questi musei etnografici?
Col tempo le modalità di esposizione si faranno simili a quelle dei musei archeologici? I musei verranno assimilati dalle istituzioni? Gli oggetti diventeranno “cose” di interesse culturale, archeologico, e quindi entreranno in una sfera di tutela che oggi non li include?
Tutto cambierà ma non so come. Poco tempo fa ho riletto le conclusioni di “Il gesto e la parola” di André Leroi-Gourhan. È stato scritto nel 1965 e a tratti mi sembra profetico. Homo sapiens ha avuto un processo evolutivo enorme da un punto di vista mentale, e anche della mente immaginativa, però lui dice: questo sviluppo è stato fatto con un apparato fisiologico che è quello del cacciatore di renne e di mammuth. Noi siamo ancora quelli là, ma la nostra mente sta andando molto avanti, e come si evolverà non è dato sapere. La nostra strada è senza ritorno. Forse a un certo punto arriverà il momento di cambiare il nome al genere e trovare qualcos’altro al posto di Sapiens.
Leroi-Gourhan è stato un paleo-etnografo e archeologo di grande rilevanza e per lui l’archeologia e la paleontologia erano funzionali per capire cosa è successo e cercare di fare qualcosa per il futuro. Prima ci chiedevamo perché facciamo archeologia nel III millennio A.D. Perché ci piace, perché è bello? Perché – come diceva Kent Flannery – è la cosa più divertente che si fa con i pantaloni addosso? Non credo. Ognuno la fa per motivi diversi, ma qual è la sua principale funzione sociale? A cosa serve? Il termine che detesto di più quando lavoriamo nei cantieri è il termine bonifica. Ci chiedono di fare la “bonifica archeologica”. Finché si tratta di esplosivi va bene, bonifichiamo, ma noi non siamo artificieri. Non dobbiamo rendere innocuo il patrimonio. Oggi archeologia e patrimonio sono visti soltanto come potenziali fattori a favore dell’economia e del turismo. Secondo me l’archeologia è invece una disciplina strumentale a capire noi, non per comprendere come vivevamo un tempo ma cosa ci serve per vivere meglio oggi.
Ringrazio l’archeologia perché mi ha suscitato molte domande, alcune delle quali non mi sarei certamente mai posto se avessi fatto un altro lavoro. Per questo, non sono mai riuscito a distinguere tra la mia vita professionale e la mia vita personale, per me sono la stessa cosa. La parte bella del mio lavoro è la riflessione senza fine che genera, e che spero di continuare a portare avanti ora che sono in pensione.
Descrivi il tuo museo archeologico ideale.
Un museo archeologico ideale, secondo me, è quello uscito dal quale dovresti avere in testa più domande di quelle che avevi quando sei entrato. Vorrei che un museo sviluppasse lo spirito critico. La risposta sta nella domanda.
E questo non accade?
Quasi mai, ma non solo nei musei. Siamo carichi di informazioni e immagini sulle quali non possiamo intervenire, ma informazione non è conoscenza. Quello che manca è proprio la capacità di esaminare. Abbiamo carenze di attenzione, riflettiamo poco e i pensieri sono molto veloci. La velocità dell’informazione è una cosa terribile. Sono riflessioni molto terra terra, le mie. Il pericolo, se ce n’è uno, nell’intelligenza artificiale, non è che l’intelligenza artificiale (ovvero un meccanismo che elabora informazioni e dati a velocità altissima, senza capacità critica, per cui il termine intelligenza è sbagliato) diventi come la nostra, ma che noi diventiamo come l’intelligenza artificiale, ovvero che elaboriamo informazioni senza ricavarne nulla.
Quello che manca, secondo me, all’intelligenza artificiale, è l’esperienza. Toccare questo tavolo, ad esempio. Visto che io sono un po’ fissato con l’idea della morte, mi piacerebbe chiedere a una intelligenza artificiale che cos’è la morte. Probabilmente risponderà citando il pensiero di Heidegger, di Tizio e di Caio, tutti i testi filosofici dai Sumeri a Giorgio Agamben. Può essere utile avere queste informazioni ma non è questo il punto.
Noi dovremmo riuscire ad essere sempre dei bambini che continuano a chiedere perché. Mi piace l’idea, che sembra aver detto il filosofo greco Protagora, che l’uomo è la misura di tutte le cose, per quelle che sono in quanto sono e quelle che non sono in quanto non sono. Siamo l’unico animale che può pensare anche a quello che non c’è. Quello che noi pensiamo essere il mondo e la realtà è il mondo e la realtà secondo il nostro metro, cioè noi siamo la misura, non possiamo pensare come una quercia o un cane. Questo lo vedi chiaramente in tutte le forme antropomorfe che continuamente produciamo. I cartoni animati sono pieni di animali antropomorfi. Non possiamo vedere le cose diversamente. Il mondo non è antropocentrico, lo è per noi.
Non voglio sembrare qualunquista ma penso che farsi domande sia il nostro compito più importante proprio perché non avremo mai risposte definitive. Diciamo che la Natura ha delle leggi, ma queste leggi sono una interpretazione umana. Non saremo mai in grado di comprendere completamente la Natura che ci circonda, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Se guardiamo il cielo stellato quello che vediamo è come una superficie archeologica, tutte le stelle rimandano a un passato diverso: è come uno strato archeologico (un tempo statico, non dinamico) dove vedi uno accanto all’altro un muro di età romana e una buca medievale.
Di recente ho riguardato un documentario di Patricio Guzmán, un regista cileno, “Nostalgia della luce”, ambientato nel deserto di Atacama dove non ci sono umidità e inquinamento luminoso e hanno installato dei grandissimi telescopi. Il documentario confronta astronomia e archeologia. L’astronomo come l’archeologo osserva il passato, da qualche secondo dopo il Big Bang ad oggi. Vede l’esplosione di una supernova avvenuta migliaia di anni prima, e non può sapere cosa ci sia in quel punto oggi. Quando ero giovane avrei voluto fare l’astronomo, in effetti. Nel deserto di Atacama ci sono anche le tracce di antiche civiltà e i resti dei corpi dei desaparecidos della dittatura di Pinochet, che le donne (figlie, sorelle) vanno ancora a cercare. Una di queste donne dice una frase che mi ha molto colpito: “come ci sono i telescopi che guardano il passato delle stelle, vorrei che ci fosse un telescopio che guardasse verso il basso, per scoprire cosa è accaduto e dove sono i resti dei nostri cari”. Secondo me l’archeologia un po’ quel telescopio ce l’ha.
Ma se non ci facciamo domande, rimarremo sempre fermi sulle stesse conoscenze effimere. Per andare avanti è necessario porsi domande. E guardare il futuro significa guardarsi indietro. Ci sono delle lingue semitiche dove una stessa parola è usata per dire passato e futuro. È un po’ come l’Angelus Novus di Walter Benjamin, l’angelo della storia, che vorrebbe “destare i morti e ricomporre l’infranto”, ma che è spinto irresistibilmente nel futuro con lo sguardo rivolto verso il passato.
Nel libro di Alain Schnapp, Storia universale delle rovine (Einaudi, 2023), ho letto qualcosa riguardo a questo, sul gusto antiquario dei sovrani dell’antica Mesopotamia che andavano alla ricerca dei templi, dei palazzi dei loro predecessori. Non per mera curiosità ma perché erano portatori di una ideologia nella quale il passato svolgeva un ruolo importante nella costruzione del futuro (il cui termine nella loro lingua letteralmente è traducibile con “quello che ci sta alle spalle”).
Esatto, anch’io l’ho letto lì. Come dice Schnapp, abbiamo guardato il passato in tante maniere diverse, per tanti motivi, le nostre esigenze non sono quelle dei re e dei faraoni passati, tra 10.000 anni le persone avranno altre esigenze ancora per guardare il passato o non le avranno più. Tornando alla tua domanda sul museo archeologico, io sono un grande amante della Grecia e quando vado al Museo dell’Acropoli ad Atene provo davvero delle sensazioni uniche, non tanto per la parte classica ma per quella più antica: ad esempio i resti dell’Hekatompedon, l’antico tempio che c’era prima del Partenone, sono meravigliosi. Prima non volevo sentire parlare di bellezza ma quelle cose lì non sono belle, rientrano piuttosto nella categoria del sublime dove accanto alla bellezza c’è anche un certo timore di quello che ti fanno percepire e capire. Mi succede anche con certi territori, ad esempio con Creta. Incute rispetto, a volte anche paura, non è un paesaggio rilassante ma la sento come casa mia. È molto ancestrale. Riconoscendomi come frutto di una civiltà occidentale, sento le mie radici lì. La cultura occidentale nasce da quella greca, che a sua volta ha le sue origini a Creta, che è un’isola, in mezzo al mare color del vino come diceva Omero, dove si sono incontrati Oriente e Occidente, è una sorta di pietra nello stagno dove devi appoggiare il piede per poter passare oltre. Non a caso vi sono nati alcuni dei miti e degli archetipi più importanti per noi, come il labirinto, il Minotauro, Europa. A Creta mi sento in una culla, non so come mai, e l’archeologia c’entra fino a un certo punto. È stato il mio primo amore, poi un episodio di sliding doors mi ha portato dall’Egeo preistorico alla Prima guerra mondiale sui ghiacciai alpini, ma è andata bene così.
A proposito di domande: l’ultima che ti pongo non c’entra niente, la prendo da un libro di Max Frisch, Diario di coscienza, dove ogni capitolo inizia con una sequenza di domande su vari temi della vita. Talvolta sono un po’ spiazzanti. Per te ho scelto questa:
“Posto che tu non abbia mai ucciso nessuno: come ti spieghi di non essere mai giunto a farlo?”
Bella domanda. Non me la sarei mai fatta, e non l’avrei mai fatta a nessun altro. Ci devo pensare.
In alternativa puoi confessare un omicidio…
(ride) Posto che non ho mai ucciso nessuno, se non forse con il pensiero, credo che sia solo una questione di fortuna. Il killer vive dentro di me e lo sento sorridere, cantava una canzone degli anni Settanta dei Van der Graaf Generator; c’è qualcuno nella mia testa, ma non sono io, cantavano invece i Pink Floyd. Non è così impensabile ammazzare, l’uomo l’ha sempre fatto con le motivazioni più diverse e più ipocrite. Anche noi, quando intoniamo il nostro inno nazionale e cantiamo “Siam pronti alla morte”, vuol dire che siamo pronti alla nostra morte ma anche a darla agli altri. Come vedi, solo fortuna. Ma la fortuna è un lusso permesso a pochi.
Le foto di Punta Linke sono fornite da “Punta Linke. Archivio Ufficio beni archeologici UMSt Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Provincia autonoma di Trento”.
La prima puntata dell’intervista a Franco Nicols di Valentina Cabiale è stata pubblicata il giorno 13 maggio 2025.