di Emilio Quadrelli
La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, si limita a porsi alla testa delle lotte. Certo, il partito solidarizza con la lotta e cerca di prenderne la direzione ma perché? A qual fine? Qui sta il nocciolo della questione. Il partito deve, soprattutto, trasformare coscientemente quella lotta in qualcosa che sta nella lotta ma solo in potenza. Non ha senso prendere la direzione di qualcosa che rimane in potenza, ma lo ha se questo prendere la direzione vuol dire realizzare la potenza. Detta in altre parole la tattica del partito mette la classe nella condizione di compiere un salto nell’elaborazione della strategia. In altre parole il partito più che prendere la testa del movimento è la testa del movimento. Facciamo un esempio: nel 1905 le masse organizzano una dimostrazione la quale, come noto, sfocia nel sangue e in seguito a ciò, in piena spontaneità, iniziano a battersi. Il partito sicuramente solidarizza con la lotta e cerca di mettersi alla testa di questo movimento, ma fare questo significa operare per far fare un salto qualitativo a quanto sta andando in scena. Questo salto è l’indicazione pratica dell’insurrezione quindi, di fatto, essere la testa del movimento. Dalla classe al partito, dal partito alla classe. Il partito non si è inventato nulla, non fa nulla, esso agisce come elemento cosciente e d’avanguardia dentro il punto più alto della conflittualità di classe. Ecco che, in quel momento, tutto il suo lavoro preparatorio emerge in maniera cristallina. Ma, una volta fatto ciò non è che all’inizio del suo lavoro perché la stessa pratica dell’insurrezione non farà altro che dare vita e forme qualitativamente diverse alla strategia della classe e inevitabilmente ciò porterà a una nuova lettura della strategia di classe e a una successiva rielaborazione della tattica di partito.
Non vi è nulla di più sbagliato, infatti, che vedere il partito leniniano come corpo estraneo alla classe, esso, infatti, è tutto interno alla classe ma non in maniera aritmetica e lineare ma geometrica e dialettica, anzi è strumento della classe e lo è se applica, come vedremo a breve, anche nei propri confronti le leggi della dialettica marxiana. Certo i dubbi e i pericoli che Luxemburg e altri intravedono in una sua accentuazione non sono del tutto fuori luogo e la possibilità che esso diventi un corpo estraneo alla classe sussiste e lo stesso partito bolscevico non risultò immune da tale pericolo, infatti esiste sicuramente la possibilità che un siffatto organismo tenda a sentirsi esonerato dall’obbligo di applicare a sé stesso la dialettica marxiana per trasformarsi, nel tempo, in un grigio corpo di burocrati e funzionari. Ma è un rimprovero che non può essere mosso a Lenin il quale, proprio su questo, dice e fa cose che non lasciano alcuna sorta di dubbio. Prima di affrontare questo aspetto decisivo della teoria leniniana soffermiamoci, però, su un altro aspetto.
Ciò che riformisti e comunisti di sinistra non colgono è che, per Lenin, il partito non fa la rivoluzione ma la prepara, quindi l’idea un po’ blanquista del colpo di mano è quanto di più distante vi sia da lui. È questo preparare che sfugge per intero ai critici di destra e di sinistra. Fin dai tempi del “Che fare?” come si è visto in precedenza, Lenin parla del partito come partito dell’insurrezione. Questo senza ventilare, a breve, la presa delle armi, eppure tutti i suoi sforzi politici e organizzativi sono rivolti a ciò. Quando ipotizza un giornale per tutta la Russia, e subisce le accuse di intellettualismo da parte dei menscevichi, chiarisce immediatamente che il suo obiettivo non è costruire una consorteria di giornalisti socialdemocratici, ma dei corrispondenti insurrezionali. L’insurrezione, quindi, è l’orizzonte entro cui Lenin si muove. Ma concretamente cosa significa? Significa che il partito deve dedicare ogni sforzo in quella direzione ma non solo. Posto in questi termini potrebbe sembrare un atto di puro volontarismo, ma questo compito è il frutto del riconoscimento di essere entrati dentro un’era di rivoluzioni. Qui, allora, non si può che tornare a quanto sinteticamente esposto nel paragrafo introduttivo. Si tratta, cioè, di ricavare la tendenza storica entro la quale si è immessi. Si tratta di leggere i fatti avendo a mente l’insieme di questi, il loro legame, l’intreccio a cui tutto ciò rimanda. In altre parole si tratta di applicare la totalità nell’analisi di fase e da questa presa d’atto il partito può essere solo il partito dell’insurrezione. Dietro a ciò non vi è alcun volontarismo ma il riconoscimento che, in un simile contesto, solo la soggettività di classe e il partito dell’insurrezione possono piegare verso una direzione piuttosto che in un’altra.
Se il filo del ragionamento seguito ha un senso possiamo dire che, in merito alla questione del partito, la costante tensione che anima Lenin è la relazione tra partito storico e partito formale1. Si tratta, cioè, di rendere sempre il partito formale in grado di stare sul filo del tempo ossia confezionare la forma organizzativa intorno alla carne e al sangue della classe. Ciò significa che non esiste un vestito buono per tutte le stagioni. Per questo, in maniera apparentemente paradossale, Lenin non fa altro che destrutturare in permanenza il partito. Ogni volta che il partito rischia di irrigidirsi, di non cogliere la strategia della classe, di separarsi da questa e porre sé stesso e le sue certezze davanti alla classe, Lenin si fa interamente uomo anti–partito. Sotto questo aspetto l’esempio della guerra partigiana ne è la migliore esemplificazione. Di fronte all’apparire spontaneo di questa forma di lotta, che la maggioranza degli stessi bolscevichi inizialmente condanna e taccia di banditismo, Lenin ne coglie in pieno il portato storico: si tratta di un passaggio tutto interno alla strategia della classe e come tale deve essere colto e reso cosciente dal partito d’avanguardia, ma lui non si limita a ciò, non solidarizza semplicemente con questa forma di lotta sorta spontaneamente dalla classe ma la fa interamente sua. Il partito d’avanguardia, se vuole rimanere tale, deve diventare lui stesso il migliore organizzatore della guerra partigiana, deve ampliarla, darle continuità, organizzazione e metodo. Per farlo deve, però, comprenderla, studiarla, fare inchiesta entrando così in relazione dialettica con quei segmenti di classe che la stanno praticando. Il partito può dirigere solo se è capace di andare a scuola dalle masse perché è lì e solo lì che si forma la strategia e con ciò mostra quanto distanti da lui siano le derive organizzativiste, burocratiche e particolarmente prone a porre l’apparato e i suoi membri sopra e innanzi a tutto. La sola preoccupazione di Lenin è mantenere intatta la dialettica prassi/teoria, tattica/strategia, classe/partito. Se questa relazione viene a interrompersi il partito si trasforma in un inutile orpello burocratico. Gli occhi di Lenin, pertanto, sono continuamente puntati sulla classe, sulla sua composizione, sulla sua strategia. Come possiamo tradurre tutto ciò nel presente? Cosa significa oggi organizzazione politica? Cosa significa essere leniniani oggi? Per rispondere occorre inevitabilmente arrivare a definire la composizione di classe contemporanea e il contesto imperialista in cui questa ha preso forma.
Come sappiamo se c’è qualcosa che muta in continuazione pelle è proprio il capitalismo. Niente è più dinamico del modo di produzione capitalista e delle formazioni economiche e sociali che questo determina2. Per arrivare a parlare del presente, pertanto, è necessario ripercorrere, sia pur brevemente, alcuni passaggi relativi alla composizione di classe. Da tempo in ciò che comunemente era definito primo mondo si è assistito a una vera e propria trasformazione nell’ambito della produzione. L’era fordista, che aveva caratterizzato tutto un ciclo storico e il modello keynesiano a questa coeva, è stata posta in archivio dando il la a quel modello politico, economico e sociale che, nella vulgata comune, è stata denominata come era post fordista. Ciò ha comportato la fine delle grandi concentrazioni operaie, la delocalizzazione del ciclo della merce in quelli che erano i paesi del terzo mondo o negli ex stati del socialismo reale e, nei nostri mondi, alla frantumazione delle tradizionali figure operaie e proletarie. Precarietà e flessibilità sono diventati il modo in cui si sono definite le attuali relazioni industriali, relazioni che non poco attingono a quel modello di governo della forza lavoro proprio del sistema coloniale e che, in prima istanza, viene attivato su quella figura proletaria incarnata dalle corpose masse di migranti. Un proletariato, quindi, del tutto nuovo e in gran parte estraneo ai modelli politici e organizzativi dell’epoca fordista. Un proletariato non legato, a differenza del passato, a un luogo di lavoro, ma obiettivamente senza fissa dimora. Questo proletariato e le sue lotte non possono essere comprese entro una forma che è stata propria di una condizione operaia e proletaria del tutto diversa da quella attuale. Riprodurre i modelli del passato risulta pertanto un’operazione perdente in partenza. Per prima cosa occorre comprendere i tratti di questa nuova classe, occorre comprendere la concretezza cui questa rimanda. Lenin, del resto, non fa qualcosa di diverso nel momento in cui pone le basi del partito, l’inchiesta dentro la classe diventa lo strumento attraverso cui è possibile comprenderne la strategia. Dalla classe al partito, dal partito alla classe, esattamente qui si pone la dialettica tra partito storico e partito formale.
Il partito storico, ovvero la classe in quanto strategia, pone una serie di questioni, queste sì estremamente storicamente determinate, che devono trovare una forma per esprimersi politicamente ma questa forma può darsi solo se è saldamente ancorata e legata al partito storico. Se ciò non avviene, ovvero si rovescia la questione arrivando al paradosso che è il partito storico a doversi uniformare al partito formale, non si vedranno altro che sorgere una serie di sette alla ricerca di adepti. Non il partito dell’insurrezione ma, nella migliore tradizione educazionista, il partito della formazione3.
La classe non lotta e non lo ha mai fatto, assecondando i desideri delle sette, lotta a partire da sé stessa, punto e non è questa che deve entrare nella scarpa elaborata da qualche circolo sovversivo ma, al contrario, è questo che deve modellare la scarpa intorno alla lotta della classe e, a partire da ciò, renderne esplicita tutta la potenzialità rivoluzionaria. A quella forza posta in gioco dalla classe il circolo sovversivo deve dare progettualità politica e forma organizzativa. Facciamo un esempio: palesemente una delle lotte maggiormente poste in atto da parte delle figure proletarie attuali è la lotta contro i confini. Una lotta la cui obiettiva politicità è difficile da porre in discussione. Questa è un’indicazione non proprio irrisoria poiché, in un attimo, mette al centro del discorso politico qualcosa come sovranità, idea di nazione, militarizzazione del territorio e, sullo sfondo, ma come asse centrale, le pratiche di guerra coloniale che vengono condotte contro i proletari dell’ex terzo mondo. Da tutto ciò si ricava, o si dovrebbe, che il partito formale è colui il quale è in grado di preparare l’insurrezione verso e contro questa forma di dominazione. Come si vede non è che la classe non dia indicazioni, il problema è coglierle. La molteplicità degli esempi, al proposito, non manca di certo. Recentemente abbiamo assistito a un proliferare di lotte non secondarie in settori come la logistica e l’agricoltura. Quest’ultima, in seguito ad alcuni fatti drammatici, ha catturato un’attenzione di vastissime proporzioni. I braccianti si sono mossi rivendicando tutta una serie di cose ma, soprattutto, hanno reso evidente come quell’infame modello di sfruttamento non fosse il frutto di condizioni di lavoro arcaiche e pre-moderne ma, al contrario, incarnassero al meglio il punto più avanzato del sistema capitalistico. Dietro ai caporali e ai piccoli sfruttatori locali non ci sono arcaiche strutture agricole che cercano di sbarcare il lunario ma multinazionali moderne, quotate in borsa e ben insediate nei salotti dell’industria e della finanzia internazionale. Quelle lotte hanno detto chiaramente che il fronte del conflitto non è locale ma internazionale e che, in virtù di ciò, quello deve essere il piano dell’azione4. L’internazionalizzazione del capitale ha posto al centro del conflitto l’internazionalizzazione delle lotte e il proletariato internazionale come soggetto guida di queste. Un’indicazione, anche questa, non proprio di poco spessore e che comporta, o dovrebbe comportare, tutta una serie di ricadute sul piano dell’organizzazione formale. L’elenco potrebbe dilungarsi a dismisura ma già questi due esempi appaiono essere più che sufficienti. Solo ponendosi in grado di leggere la strategia della classe diventa possibile attualizzare nel presente quella forma organizzativa in grado di legarsi al partito storico.
Con la pubblicazione di questa quinta parte del commento di Emilio Quadrelli al Lenin di György Lukács si conclude la pubblicazione su Carmillaonline del medesimo testo, poiché nel frattempo è comparso in tutta la sua interezza nel libro appena pubblicato da DeriveApprodi che riproduce il testo del marxista ungherese insieme al lungo saggio introduttivo di Quadrelli e a una lezione di Mario Tronti su Lenin, che sarà prossimamente recensito su queste pagine. Rimane fermo, però, l’impegno di Carmillaonline a pubblicare o ripubblicare i testi, inediti oppure già editi ma poco conosciuti, di un intellettuale-militante che non esitiamo a definire unico che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni di vita, ha dato un fondamentale contributo alla riflessione politica e alla ricerca sociale sul campo.
Il partito storico è la classe, mentre il partito formale è l’involucro che, volta per volta, è deputato a incarnare la strategia del partito storico. Questo a Lenin è estremamente chiaro e tutta la sua militanza politica è consacrata a ciò. Meno chiaro, invece, sembra esserlo stato per gran parte degli epigoni che hanno sostanzialmente ribaltato il tutto, ponendo il partito formale al di sopra del partito storico mettendo così gli apparati, in non pochi casi, non solo al di sopra della classe ma contro di questa. Sintomatico il fatto di come, per questi apparati, la lettura della composizione di classe sia qualcosa di sostanzialmente superfluo. Nel PCI, ad esempio, dopo Togliatti, che indipendentemente da tutto rimane il maggior dirigente politico di questo partito, non vi è più stato nessun interesse sociologico per la classe e la sua composizione, ma una sorta autismo tutto incentrato sui destini dell’apparato. In altre parole, e su questo Lenin conduce sempre una battaglia politica che non risparmia nessuno, l’apparato è legittimato a esistere solo se in grado di incarnare sempre il punto di vista storico della classe e non gli eventi contingenti che riguardano le sue sorti. C’è un passaggio in Lenin quanto mai esplicito al proposito: «Persone che intendono per politica piccoli imbrogli che spesso confinano con la truffa, devono trovare presso di noi il rifiuto più deciso. Le classi non possono essere ingannate», riportato in C. Schmitt, Le categorie del politico, pag. 148, Il Mulino, Bologna 1972, con ciò Lenin, avendo a mente gli intrallazzi ai quali, al fine di auto conservarsi, l’apparato può giungere, mostra come il partito dell’insurrezione non può e non deve avere nulla a che fare con tutto ciò. ↩
Al proposito, Marx ed Engels ne Il manifesto, Editori Riuniti, Roma 1994, erano stati a dir poco eloquenti. A caratterizzare il modo di produzione capitalista è la sua estrema e permanente dinamicità, non certo l’immobilismo e il conservatorismo. ↩
In fondo è esattamente questa l’impostazione, dalla quale i più sembrano impossibilitati a emanciparsi, propria del culturalismo gramsciano il quale, della cultura e della formazione culturale (che è altra cosa dalla formazione politico–militare propria del bolscevismo), finì per farne un totem. Su questo in fondo aveva ragione Bordiga quando, di fronte all’ossessione di Gramsci per la cultura, gli ricordò che i temi culturali appartengono più a una associazione di maestri piuttosto che ai militanti di un partito rivoluzionario. Cfr., Il programma comunista, Storia della sinistra comunista 1912 – 1919, Vol. I, Edizioni il programma comunista, Milano 1964. ↩
Ciò, del resto, è implicito nel ciclo della merce nel mondo contemporaneo. Se, per molti versi, l’idea di un’economia nazionale risultava già bislacca con la nascita del capitalismo, cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1994; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 Vol. Il Mulino, Bologna 1978–1995, con l’era globale è diventata un vero e proprio non senso. Da ciò ne consegue che, per forza di cose, le lotte non possono essere perimetrate entro i ristretti ambiti dei confini statuali. ↩