di Pietro Garbarino

Molto spesso ci capita di assistere a giornali-radio, telegiornali, e notiziari vari, per la verità più simili a bollettini di cronaca giudiziaria che non a rubriche di aggiornamento del pubblico, fatti di carattere giudiziario che si ritiene interessino o riguardino il vasto pubblico.

Anche numerosi programmi di intrattenimento televisivi sono spesso incentrati su discussioni e commenti che riguardano vicende giudiziarie. La stampa, i media, i social si manifestano come avidissimi raccoglitori di casi giudiziari riguardanti fatti o personaggi di pubblica rilevanza, e divengono a loro volta propalatori di notizie che riguardano indagini giudiziarie processi in corso.

Non si tratta certo di una novità che il cosiddetto mondo dell’informazione si occupi di tali argomenti; anche in un lontano passato il caso Bruneri / Cannella (meglio conosciuto come lo “smemorato di Collegno”) il caso Montesi, il delitto Maria Martirano e, per avvicinarci al nostro tempo, numerosi casi di omicidi in famiglia e femminicidi, hanno invaso le pagine dei giornali e i servizi radio televisivi. Ma perché?

Qualcuno potrebbe fornire una lapidaria spiegazione liquidatoria ricorrendo alla famosissima battuta di Humphrey Bogart in un celebre film degli anni ’50 (del ‘900): “E’ la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente!”; ma tuttavia bisogna farsi delle domande.

Perché proprio i processi? Perché tanto crescente interesse? Quale è il motivo di voler conoscere i dettagli di situazioni così particolari? C’è un interesse pubblico qualificato in tutto ciò? Ma, ancor più, esiste una privacy che tutela le persone sotto indagine o sotto processo? Non è scritto nella Costituzione che ciascuno è da ritenersi innocente sino a sentenza definitiva?
Rispondendo a ciascuna di queste domande, o almeno tentando di dare una spiegazione ai quesiti posti, ci si addentra in una materia assai delicata e spinosa, che ci porta subito ad individuare le parti del problema, intese come soggetti attivi, i loro interessi, le loro finalità.

Si tratta dunque di analizzare quelle risposte, quanto meno per tracciare il quadro di una “vexata quaestio” che ormai da lungo tempo coinvolge organi di giustizia e organi di stampa, estendendosi però anche al mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, alla politica e anche alle discussioni nei luoghi pubblici, bar e parrucchieri compresi.

La curiosità che da tempo alimenta chi lavora nel settore della stampa e dell’informazione confligge tuttavia con chi, sottoposto a indagine o giudizio, auspica che non si parli affatto di lui.

Si tratta dunque di interessi contrapposti che tutti gli ordinamenti giuridici democratici tendono a tutelare in entrambi i sensi.
Ma come, concretamente, sarà ciò possibile?

Per un approccio al tema sarà necessario individuare quali siano i caratteri, i tempi, le modalità di quanto avviene invece nel mondo esterno agli uffici giudiziari, come le radio e le televisioni, i set cinematografici e i teatri di posa, gli studi di registrazione, i teatri, e ogni luogo ove si possa svolgere una pubblica riunione, nei quali si ritenga di parlare di inchieste giudiziarie o di veri e propri procedimenti giudiziari.

Si tratta, in buona sostanza, di mettere a confronto il procedimento giudiziario e quello che, al passo coi tempi, possiamo chiamare “processo mediatico”.

Non è molto il caso di disquisire, in particolare con Avvocati che praticano il diritto penale, di quanto siano definiti, al limite della rigidità, i termini e contorni del processo penale.

Tutti noi sappiamo che vi sono tempi tecnici “morti”, a cominciare dalla iscrizione a ruolo generale del fascicolo e alle sue vicende interne all’Ufficio della Procura della Repubblica. Ma sappiamo anche che vi sono valutazioni da svolgere e conseguenti decisioni da assumere circa gli atti di indagine da espletare. Talvolta tali valutazioni sono semplici e rapide e le successive attività quasi automatiche; però, talvolta, la delicatezza delle circostanze e la labilità degli elementi probatori o indiziari induce a scelte più ponderate e meno tempestive. In simili circostanze appare utile tenere il massimo riserbo da parte di chi indaga.

Tutto ciò determina situazioni di assenza di attività percepibili all’esterno e non conoscibili, per cui ogni notizia in merito è da considerarsi una congettura. Il che, dal punto di vista di chi fa informazione pubblica, può considerarsi come mero pettegolezzo (o gossip, come si dice oggi), se non come falsa notizia. Ma anche il prosieguo delle indagini può essere solo oggetto di notizia circa gli atti da svolgere o da compiere, ma non sui loro contenuti.

Cioè, in teoria, il processo svela le proprie carte al termine delle indagini, allorché quello che potrà, o potrebbe, tradursi in materiale probatorio, viene reso noto alla o alle parti indagate. Ma anche nella fase successiva alla “scopertura delle carte”, possono essere svolti nuovi atti di indagine, e ciò anche da parte della difesa, e non è da escludere che essi vengano giocati solo a dibattimento avviato o nell’udienza preliminare, se prevista e richiesta.

Dunque la prima pubblicità degli atti, intesa come disponibilità delle parti processuali per la loro divulgazione al pubblico, dovrebbe in linea di principio avvenire solo quando inizia il vero e proprio processo.
Va tuttavia tenuto conto che vi possono ostare delle evidenti e notevoli riserve da parte dei protagonisti del processo; infatti mentre l’imputato (divenuto ormai tale, da indagato quale era) non ha certamente piacere di rendere di pubblico dominio le accuse che gli si muovono, anche il Pubblico Ministero può avere interesse a mantenere, per quanto possibile, le proprio carte coperte, onde evitare, ad esempio, che testimoni di accusa possano essere intimiditi, o che prove documentali possano essere alterate o rese meno probanti.

A questo punto, si potrebbe dire che il meccanismo processuale ha già in sé gli elementi per poter tutelare uniformemente sia la solidità dell’ipotesi di accusa e degli elementi a sostegno, sia la doverosa tutela della sfera privata dell’imputato che, ricordiamolo, deve essere considerato innocente sino a sentenza definitiva. Tuttavia, sappiamo bene che, assai spesso, le cose non procedono in tal modo.

Tutto dipende dal fatto che la giurisprudenza, e in particolare quella della giustizia europea, riconosce come alto valore il cosiddetto diritto di cronaca, ritenendo la funzione della stampa come quella di “cane da guardia”, in senso democratico, della funzione giudiziaria.

Il principio è sicuramente nobile, ma è la sua concreta applicazione che lascia perplessi e dubbiosi in quanto, se è vero che la stampa, rendendo pubblici particolari fatti e atti di cronaca giudiziaria, dà alla collettività un servizio di informazione che ha la rilevanza di un interesse pubblico; è altrettanto vero che diritti e libertà fondamentali dell’individuo sono chiaramente enunciati nella Costituzione e che va sempre tutelata la possibilità di poterli concretamente e pienamente esercitare.
Nonostante ciò non si può dire, nella realtà dei fatti, che quella funzione, del tutto legittima e perfino auspicabile, venga realizzata in modo ineccepibile e corretto.

Innanzitutto perché spesso la fonte (Magistratura o Forze di Polizia, per lo più) è unilaterale e non ha contraddittorio, almeno nell’immediato, ma anche perché l’interesse dell’operatore della stampa non si appunta sulla sola fondatezza della notizia relativa al procedimento giudiziario, bensì sul clamore che la notizia stessa riscontra nell’opinione pubblica; vale a dire, la qualità della persona coinvolta; la particolarità, spesso truculenta, del fatto; la curiosità pubblica rispetto a persone che rivestono ruoli sociali politici ed economici di elevato rango; i risvolti che la situazione resa nota può avere su altri aspetti e fatti di natura politica ed economica.

Senza contare che, per la natura dell’odierno processo penale, la fase che dà inizio al processo è di mera acquisizione degli elementi di indagine e non dà luogo, salvo alcune eccezioni ben definite, e specifiche situazioni previste, a immediate conseguenze sanzionatorie.

Ma l’esposizione mediatica non è mai una vicenda senza conseguenze, nel senso che chi vi si trova esposto o subisce un giudizio pubblico, molto spesso approssimativo e affrettato, e talvolta perfino reagisce con tutti i mezzi possibili, non esclusi quelli giudiziari. Dunque si crea una non certo utile, né edificante, concorrenza tra il processo giudiziario e quello mediatico, che raramente sono di complemento l’uno all’altro, ma più spesso, diffondendo notizie poco vagliate, non proposte in situazione di neutrale contraddittorio e spesso riferite in modo e con linguaggio non tecnici, tendono a formare un’opinione già definita nel pubblico, ignorando tutti i particolari e gli aspetti dell’indagine, che inevitabilmente creano, in modo anche subdolo, opinioni generalizzate, e spesso anche contrapposte, sulla singola vicenda. Così facendo di certo non si contribuisce né agli accertamenti di giustizia, né alla serenità di chi si trova indagato, o anche imputato.

Dunque la concorrenza di un processo celebrato negli uffici e nelle aule giudiziarie con un processo celebrato pubblicamente su giornali, televisioni, spettacoli di intrattenimento e social forum si traduce, rovinosamente, nella mancanza di una rigida e ben orientata disciplina del cronista, del conduttore o dell’anchor-man, contribuendo invece alla formazione di fronti di opinione non ben informati, e spesso neppure del tutto coscienti di quanto è in gioco.

Di sovente le questioni giuridiche sottese alle vicende trattate dal cronista vengono pretermesse o ignorate (anche perché molto tecniche e spesso noiose e incomprensibili per il pubblico non esperto), trasformandosi in banali argomenti per aprioristiche prese di posizione, anche dipendenti dai profili accattivanti dei protagonisti.

In definitiva, vicende giudiziarie del tutto serie rischiano di diventare oggetto di tifo di stampo calcistico, influenzati da sentimenti superficiali e pulsioni non del tutto razionali, là dove invece razionalità, logica e spirito obiettivo sono essenziali per fare giustizia.

In tali vicende e circostanze non è agevolato neppure l’imputato o indagato, in quanto non solo la sua privatezza, ma anche la sua reputazione vengono inevitabilmente compromesse; e tutto ciò alla faccia della presunzione di innocenza!
Dunque, alla luce di quanto osservato, occorre allineare, in uno sforzo in positivo di rilevanti proporzioni il tema della necessaria riservatezza delle indagini e degli accertamenti processuali con il diritto della opinione pubblica ad essere informati, non tanto e non solo sul fatto che quella nota persona è sotto indagine o giudizio, ma anche sul fatto che la giustizia rispetti i suoi diritti e, specialmente, che lo consideri innocente sino a prova contraria.

Quindi, che fare? Come operare?

Per tentare di arrivare ad un qualche risultato sarà necessario che la cultura e la professionalità degli operatori della giustizia e di quelli della informazione si avvicinino e si omogeneizzino quanto più possibile; il che significa che l’investigatore ed il requirente debbano prendere il considerazione l’ormai ampiamente riconosciuto diritto dell’opinione pubblica di conoscere i fatti relativi a casi di cronaca giudiziaria che possano suscitare l’attenzione di un vasto pubblico; ma anche i giornalisti devono ben conoscere l’entità e lo spessore dei diritti degli inquisiti e la presunzione della loro innocenza, anche di fronte a circostanze apparentemente già chiare e di presumibile facile interpretazione.

Vi deve dunque essere un’area di cultura e professionalità comuni tra l’operatore giudiziario ed il cronista o conduttore o opinionista, in quanto tale territorio comune di professionalità è quello che garantisce il reciproco rispetto, ma anche l’utilità collettiva delle rispettive funzioni.

In altri termini il magistrato e il cronista devono individuare un terreno dove due diverse, ed apparentemente opposte esigente, rappresentative entrambe di interessi rilevanti e giuridicamente qualificati, si incontrino.
E allora, per conseguenza, si devono considerare le seguenti proposte:

a) In primo luogo, occorre che possano essere rese pubbliche e accessibili quelle parti di indagine che si ritengono completate e tali di costituire compiuto materiale probatorio o indiziario da offrire al dibattimento. A tale fine servirebbe anche un front-desk presso Questure, Comandi dell’Arma e Palazzi di Giustizia.

b) Occorre altresì che gli esiti di tali indagini vengano sottoposti a contraddittorio con la parte inquisita, in modo da rendere note altresì le eventuali motivazioni di contrasto.

c) Tutto ciò deve essere svolto da personale che abbia una specifica istruzione professionale sulle regole processuali vigenti, al fine di non confondere situazioni e circostanze che nuocciano alla situazione dell’inquisito o non creino superficiali impressioni fuorvianti nel pubblico.

Insomma, la progressiva “giurisdizionalizzazione” della professione giornalistica, e in generale del settore della comunicazione informativa, e anche talvolta culturale, si deve svolgere tra attori corretti e che parlino lo stesso linguaggio; e ciò al fine di correttamente informare l’opinione pubblica.

Infine, un capitolo a parte lo meriterebbe il cosiddetto “giornalismo d’inchiesta”.
In questo caso però il suo ruolo è di denunzia, ma ciò, più che interessare il processo in senso stretto, riguarda la fase di avvio delle indagini; tuttavia questo è un aspetto che andrebbe sottoposto ad una revisione normativa per quanto concerne la disciplina della tutela delle fonti. Appare però evidente che, in tale evenienza, il rapporto precedentemente descritto si capovolge.
Infatti in tal caso sarà il Magistrato a dovere cogliere gli stimoli e gli spunti investigativi che gli provengono dal mondo dell’informazione assolvendo così lui stesso al ruolo di valorizzazione dell’attività mediatica.