di Emanuela Cocco

Carmen Verde, Una minima infelicità, pp. 160, € 17, Neri Pozza, Vicenza 2022.

La frase, l’inquadratura, lo sguardo

Comincerò a parlare di Una minima infelicità, il romanzo di Carmen Verde (Neri Pozza), a partire dalla composizione della scena, dalle sue inquadrature, frasi come le isole di luce in un romanzo di Virginia Woolf, stanze abitate da corpi in posa e sguardi abbandonati in uno spazio cieco; scene spiate da distanze siderali, oggetti riposti in cassetti bui, desideri soffocati in giri a vuoto di materia e pensieri, che sembrano corteggiare l’indicibile. Isole di luce, le frasi di Verde inquadrano lo spazio della storia con attenzione febbrile al dettaglio, fino a realizzare fini miniature di senso scolpite da una prosa in stato di grazia.

 

Ero una bambina ubbidiente, ma una volta (una sola volta), non ricordo nemmeno perché, aprii ed entrai. La trovai seduta in poltrona, gli occhi persi nel vuoto, avvolta dall’ombra che sul tappeto si scioglieva in una timida luce attorno alle pantofole. Le sue labbra ebbero un fremito leggero quando mi vide, le sue mani cercarono la stoffa sulle gambe, senza trovarla.

 

In una stanza, una bambina guarda, non vista, la madre. Lo sguardo al lavoro, e la voce narrante, sono quelli di Annetta, destinata a restare piccola, una petite. Annetta vive in un luogo non ben precisato, in un momento indefinito della storia, con la madre, la bella e sfuggente Sofia Vivier, e il padre, un commerciante. A un certo punto arriverà anche Clara Bigi, una rozza e dispotica governante. E nei suoi ricordi si agita lo spettro di una nonna, forse catturata dalla follia. La famiglia di Annetta, silenziosa, distaccata, imbrigliata in bugie e verità trattenute, è lo sfondo sul quale si agita una storia sorprendente per la sua tessitura stilistica, una storia che di certo è più dei fatti che la riguardano.

 

La tavola era già apparecchiata; il poco cibo, ormai freddo, già nei piatti. Mamma preparava tutto prima di uscire: decisione insensata, vista l’ora alla quale rientravamo, ma si sforzava di essere una brava madre.

 

Il tempo dell’azione dal quale lo sguardo e la voce ci vengono incontro è quello di una vita già trascorsa, di eventi e volti sui quali si è posata la polvere del dubbio, attimi e scorci che la memoria di Annetta non riesce a salvare, non completamente, dalla loro condizione di indomabile evanescenza. Tutto quello che Annetta ha vissuto, ciò che l’ha un tempo esaltata o spezzata, è ormai cristallizzato nelle frasi che lei ci pone davanti, un catalogo di attimi da lei selezionati e in quanto tali, incompleti, viziati da congetture, emozioni, domande, uno spettacolo, del quale anche noi siamo spettatori inosservati, che ha per protagonista l’oggetto del suo implacabile e incondizionato amore: la madre, Sofia Vivier, la donna che per Annetta è la misura di tutte le cose, compresa lei stessa.

 

La nostra era una somiglianza ingannevole, incomprensibile: il genere di somiglianza che stringe il cuore di chi arriva a conoscerla.

 

Nella scena che apre il romanzo lo sguardo di Annetta registra un secondo sguardo, quello di Sofia, proteso verso uno spazio cieco, irraggiungibile per lei, uno sguardo che non la comprende.

Nel romanzo questa strategia è fondante. Tutto si muove tra estraneità e somiglianza. Le cose e le persone, guardate da una distanza di sicurezza, somigliano a qualcosa che Annetta crede di riconoscere, ma finiscono inevitabilmente per mostrare la loro ineludibile estraneità. Lo sguardo di Annetta insegue il mistero della vita senza mai catturarlo.

 

Per un mese intero, tornando da scuola, continuai a osservare quel gatto, morto all’angolo della strada. Diventava ogni giorno più vuoto, inconsistente, tanto che la luce – che all’inizio gli batteva sul pelo – comiciò ad attraversarlo. Per un po’ fu solo trasparenza, poi solo un grigio niente in mezzo a un tappeto di foglie morte.

 

Gli occhi di Annetta setacciano lo spazio, i visi, i corpi e gli oggetti, lei si aggira per la sua casa, per le strade della piccola località (innominata) in cui si svolge la vicenda, come testimone silenzioso ma anche come cacciatore di attimi che hanno lo scopo di preservare l’immagine di una presenza che non diventa mai tangibile. Annetta guarda e presta i suoi occhi agli altri personaggi della storia.

Suoi sono gli occhi della madre, che registra senza far nulla le azioni spregevoli della governante Clara Bigi.

 

…vedeva le colpe di Clara alla luce delle proprie e tendeva ad attenuarne il peso.

 

Annetta bambina, già consapevole del tradimento di Sofia Vivier, trasla questa consapevolezza nello sguardo paterno.

 

Sarebbe un errore credere che mio padre non sapesse dell’infedeltà della moglie.

 

E suoi, ancora suoi, sono gli sguardi sprezzanti delle compagne di classe, quelli severi ma impotenti di Suor Agnese, e anche quelli odiosi e ciechi al bene della sua istitutrice Clara Bigi.

Una minima infelicità è prima di tutto la storia dello sguardo di un personaggio che si trova da subito a coincidere con quello del lettore. Ogni sguardo è lo sguardo di Annetta e di questi, di questa moltitudine che poi si riduce a coincidere con il punto di vista della protagonista della storia, è fatto lo sguardo del lettore.

Dentro questo sguardo la figura della madre di Annetta, Sofia Vivier, giganteggia fino a scomparire dal quadro, figura fuori misura e per questo illeggibile. La chiave che l’autrice usa per rendere conto di questa illeggibilità, di questa distanza incolmabile tra chi guarda e l’oggetto della visione, è l’amore. Per entrare nel discorso messo in moto dal romanzo occorre, quindi, valutare la natura di questo amore, che non è la scelta di una casa, di una vita, di un affetto, ma una fede incrollabile, l’adesione a una passione che trascende il soggetto e diventa un destino.

 

In questa foto mamma guarda in su, come se avesse appena visto un uccello volare nella stanza. E ogni cosa – la vecchia poltrona, i nostri abiti, i ricami della tovaglia – è ancora al suo posto.

 

Sì, dentro questa storia ci sono una madre e una figlia, ma la dimensione di questo romanzo non è la cronaca di una convivenza familiare, o la messa in scena dei giorni bui che costellano la vita di una vittima annunciata.  No, l’amore di cui si nutre Annetta, e che Annetta assume su di sé come proprio destino, è una scelta consapevole, è l’amore dei mistici, un percorso fatto di prove e ostacoli e continue domande, sempre riformulate e sempre disattese, che hanno lo scopo di infondere vita a un mero simulacro. Qui l’amore concreto per una madre, la venerazione della sua bellezza, le sue debolezze, i suoi errori e tradimenti, contengono un amore mai incarnato o compreso dalla protagonista, un sentimento tanto ambizioso e grande da costringerla a rinchiudersi in stanze, fisiche e mentali, sempre più piccole, perché non ne venga completamente travolta e cancellata.

 

In questa, una donna che non conosco guarda

in basso, verso di me. E i miei occhi sembrano dire:

Dove sei mamma? Che senso ha questo tormento?

 

Proprio come in Quel che sapeva Masie, il romanzo di Henry James che sembra intrattenere con il romanzo di Verde un dialogo di amorose corrispondenze, al centro della narrazione c’è la costruzione di un essere umano che, attraversando le prove e le mille insidie delle relazioni, cerca di scoprire il senso ultimo del suo partecipare alla vita.

 

Mamma agita un braccio, come per salutare: nel

Movimento, la sua mano sconfina oltre la cornice.

 

La sistematica messa in scena del ricordo come tentativo di interpretazione del mondo messa in atto da Annetta è tanto più affascinante quanto più deficitaria. Nel romanzo di Verde fatti e motivazioni si sfaldano, l’asse cronologico degli eventi si dissolve davanti al motivo fisso della protagonista, che si avvicina alle cose e alle persone consapevole di dover mantenere una distanza di sicurezza, pronta a denunciare nel suo privato resoconto a qualsiasi pretesa di esaustività. La vita ritratta nel romanzo è attraversata da gesti e immagini di esclusione, domande cadute nel vuoto, spazi della casa abbandonati, interdetti alla visione.

La struttura del romanzo diventa, quindi, struttura dello sguardo, uno sguardo che resta impigliato nelle cose e nelle parole, che rinuncia a capire, a raccogliere testimonianza della realtà ma che al contrario la sostituisce.

In Una minima infelicità la scrittura di Verde disarticola i profili di cose, persone, luoghi, e lascia che ogni singola parte venga investita dal mandato di una affascinante singolarità: tutto è troppo grande per Annetta, lei stessa, le sue ambizioni, il suo amore sono troppo grandi e allora,  perché le sia concesso di vivere, dovrà farsi piccola e il mondo con le sue strade incomprensibili, per le quali si perde in compagnia di Sofia Vivier, il mondo con i suoi legami sfilacciati eppure indissolubili, con i suoi piaceri indefiniti e taglienti, dovrà essere ridotto a immagine fissa, rimpicciolita, una miniatura finissima, continuamente falsificata, addomesticata dal continuo lavorio nella mente della protagonista, qualcosa che possa essere salvata e mostrata al lettore come una bella foto nel taschino al tempo stessa fedele e lontanissima dall’oggetto in essa ritratto.

Una minima infelicità, romanzo di voragini della storia e  spazi bianchi della pagina, disertati dal testo, elogio di un fuori campo continuamente attivato dagli sguardi dei personaggi eppure mai mostrato, regala al lettore un susseguirsi continuo di frammenti, di scene, di corpi, di intenzioni sommerse, mascherate dalla parola o inabissate nel silenzio, incarnati in frasi dal taglio minuzioso, miniature, appunto, di una travagliata interpellazione al mondo.

Cosa domanda Annetta, a se stessa, al mondo, alla madre, se non di arrivare, un giorno, a comprendersi, a essere compresa? Questa volontà di scoperta di un senso nascosto nell’esperienza porta la protagonista, voce narrante della storia, a rompere in modo sistematico l’oggetto della visione, a spezzare il filo del racconto, a immaginare un proseguimento dell’immagine oltre i bordi dell’inquadratura.

 

Ogni sera, abboccavo all’esca delle loro finestre illuminate: una inquadrava la sala da pranzo, l’altra una parte del salotto. Era il mio spettacolo privato, un mondo in cui io non sarei mai entrata così come non si entra in un film, e che semplicemente osservavo da lontano.

 

L’operazione di ricerca e fondazione di sé, che sembra essere il mandato ultimo della protagonista, si traducono in un mandato autoriale che Verde incarna nella strutturazione della frase, sempre dubitativa, accorta, densa di supposizioni, previsioni, negazioni e rispecchiamenti, aperta alla dimensione di un dubbio inestinguibile.

In Una minima infelicità, i fatti producono senso solo in virtù dell’effetto che hanno sulla protagonista. La trasmissione di questo effetto, la riproduzione intermittente di questa cosa che accade e transita nel romanzo, la vita di Annetta accanto alla madre Sofia Vivier, sono certo l’argomento del romanzo, ma è proprio l’esercizio dello sguardo a costituire le fondamenta del labirinto tematico che siamo chiamati ad attraversare per penetrare il cuore di una storia che trascina il lettore nel flusso di una rappresentazione soggettiva e deformata, a tratti irreale, impossibile.

Il romanzo, non è, quindi, una storia di fatti (la vita di una petite dall’infanzia alla maturità) e neanche la storia di una relazione (il rapporto contrastato tra una figlia e la madre, che pure hanno un ruolo importante nella storia) ma è la minuziosa messa in scena di uno sguardo, una galleria di elementi – frasi sottoposte a un rigoroso montaggio eidetico, un meccanismo testuale perfetto in cui parola, luce e ritmo producono idee inscritte nelle immagini, mai dichiarate in modo diretto.

Come suggerito dall’autrice nella dedica che apre il romanzo, Una minima infelicità è un’elegia all’inesorabile, sistematica, fuga del mondo dalle nostre vite verso quell’impossibile non esserci più così difficile da accettare, anche solo da ammettere tra i nostri pensieri.

La scrittura di Verde opera una regia degli spazi che agisce su minuscole porzioni del visibile, frasi paragonabili ai frame cinematografici, che però non arrivano mai a costituire una inquadratura compiuta. Nel romanzo manca, infatti, la sequenza conclusiva capace di tenere insieme il senso ultimo di una storia che non ha un determinato sicuro inizio, e che di certo non finisce. L’ultima immagine è lasciata al lettore, spetterà a lui assemblare un’ultima volta i pezzi, raccogliendo frasi che già dal principio sono state usate da Verde come strategia di attivazione dello sguardo di chi legge.

Sarà quindi il lettore a dover chiudere la storia, e suo sarà lo sguardo che vedrà oltre la fine dei giorni di Annetta e delle pagine del diario in cui annota alcuni dei suoi pensieri.

Il testo muoverà il lettore con la stessa determinazione con la quale Annetta ha selezionato i frammenti ai quali affidare il racconto della sua vita, ovvero la costruzione della sua identità.

Sottile, struggente, luminoso, Una minima infelicità offre al lettore la possibilità di farsi piccolo, insignificante, accanto alla protagonista, di accettare la sfida di questo viaggio d’amore, la passione di una mistica che accetta di cancellarsi, di divenire nessuno, per provare a entrare una volta per tutte nel segreto di questo gigantesco niente dal quale proveniamo e al quale siamo destinati a tornare, quell’impossibile non esserci più al quale forse solo la letteratura può provare a opporre resistenza.

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