di Sandro Moiso

Georges Simenon, La prigione, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 170, 18 euro

« Se vuole sapere se vado a letto con altre donne oltre a mia moglie, le rispondo subito di sì… E non una sola, ma decine… Ogni volta che se ne presenta l’occasione e che ne vale la pena… ». (G. Simenon – La prigione)

Pierre Assouline, uno dei maggiori biografi di Georges Simenon, ha affermato che non c’era assolutamente da fidarsi in tutto ciò che l’autore belga diceva di sé pubblicamente, nelle interviste oppure nelle sue due opere dichiaratamente autobiografiche: Pedigree e Memorie intime. Così, anche se talvolta l’esercizio di individuare nelle opere letterarie i caratteri autobiografici dei loro autori può risultare sterile e ozioso, chi scrive è piuttosto convinto che gran parte dei romanzi di Simenon, soprattutto quelli considerati “duri”, contengano ampi stralci della vita interiore e delle riflessioni su ciò che si potrebbe definire, rubando la definizione a Cesare Pavese, il suo personale “mestiere di vivere”.

Soprattutto in questo ultimo romanzo, pubblicato da Adelphi nella riedizione integrale delle opere dell’autore, in cui è possibile rintracciare svariati elementi che si possono ritrovare in altre opere e che se, da un lato, rinviano ad altre trame e quindi alla sua abilità di mestierante della scrittura nel rimescolare elementi già dati, dall’altro, rimandano anche a quella che sempre di più pare aver costituito una lunga “confessione in pubblico”.

Scritto nel 1967 e pubblicato per la prima volta nel 1968, La prison (il titolo originale francese) ci consegna ancora una volta il ritratto di un uomo, Alain Poitaud, che nella vita sembra avere raggiunto tutti gli obiettivi di una soddisfatta e cinica esistenza borghese: ricchezza, donne, celebrità, Direttore di un settimanale a larghissima tiratura e diffusione, “Toi”, tutto giocato sui sentimenti e sulla pubblicazione di foto di nudi femminili in cui le donne, soprattutto, possano riconoscersi, vede il suo mondo crollare nel momento in cui la moglie Jacqueline, giornalista freelance nota a tutti come Micetta per via del soprannome che lui le aveva dato in passato, uccide con un colpo di pistola la propria sorella Adrienne, di tre anni più giovane.

All’improvviso si chiese se era proprio lui quello seduto là dentro a rispondere umilmente a domande assurde. Era Alain Poitaud, che diamine! Tutta Parigi lo conosceva. Era il direttore di una delle riviste più lette in Francia e stava per lanciarne un’altra. Inoltre, da sei mesi a quella parte produceva dischi di cui parlavano ogni giorno alla radio.
Non solo non faceva mai anticamera, ma dava del tu ad almeno quattro ministri ed era spesso a cena a casa loro, quando non erano loro a scomodarsi per andare a pranzo da lui in campagna1.

In uno scenario suddiviso tra corridoi di prigione, uffici di ispettori e commissari di polizia, bar più o meno eleganti o comuni, la sede di un giornale e case tutte di lusso si sviluppa nell’arco di pochissimi giorni la vicenda narrata nel romanzo che, più che narrare i fatti che hanno portato all’omicidio, si incentra sull’autentico rovesciamento di prospettiva di vita che avviene per il marito dell’assassina.

Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta?
Non esiste, come per la fine degli studi, una proclamazione solenne, una cerimonia ufficiale, un diploma.
Alain Poitaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro2.

Convinto dalla propria celebrità e cinismo di avere la capacità di saper affrontare qualsiasi aspetto della vita mondana, Alain scopre tutta lo solitudine che lo attanaglia una volta che si trova davanti a qualcosa di inaspettato, di inaudito. Inaspettato e inaudito perché, per cause di forza maggiore, non è la sua persona ad essere messa al centro dell’attenzione giudiziaria e mediatica, ma la sua compagna e la sorella di questa, sua amante per anni.
Due persone, Micetta e Adrienne, che sembrano, a ben vedere, essere entrate nella sua vita più in virtù del caso che per una ben precisa scelta o per un atto, non solo momentaneo, d’amore o innamoramento.

« Adrienne la amava? ».
« Forse. Due ore fa probabilmente le avrei risposto di sì. Adesso, non mi azzarderei… ». Niente era più come prima da quando l’ispettore timido e garbato lo aveva seguito nell’atrio del suo palazzo e gli aveva chiesto il permesso di salire con lui.
« Credo che tutte le sorelle… Magari non proprio tutte, ma molte… Potrei citare diversi casi tra i miei conoscenti… ». « Dunque la vostra relazione è durata circa sette anni ».
« Non era una relazione… Come posso spiegarle… Non ci sono mai state grandi dichiarazioni tra noi due… Io continuavo ad amare Micetta, che ho sposato pochi mesi dopo… ».
« Perché? ».
« Perché l’ho sposata?… Ma… ».
Già, perché? La verità era che la sera in cui le aveva parlato di matrimonio era sbronzo,

Adrienne non l’aveva mai amato e lui se ne infischiava. Forse nemmeno Micetta lo aveva mai amato.
E poi, che cosa significava quella parola? Di amore, lui ne vendeva un milione di copie tutte le settimane. Di amore e di sesso. Era la stessa cosa3.

Donne, in fondo come tutte le altre che il giovane editore si è portato a letto. Come la ballerina dai capelli rossi con cui si risveglia a letto già la mattina successiva al ricevimento della notizia dell’atto omicida della moglie oppure Mina, la giovane donna di servizio appena assunta dopo che la precedente aveva lasciato il servizio in casa dopo aver appreso la notizia.
Come le infinite altre di cui ha parlato con l’ispettore durante l’interrogatorio.

Donne e alcol, tanto quanto le donne frequentate se non di più, con cui ha sempre nascosto i suoi angoli più bui a se stesso. Quegli angoli mai illuminati da un rapporto di amicizia o di altro tipo, ma comunque profondo e sincero.

Se almeno avesse avuto un vero amico…
Conosceva un sacco di gente, quelli che lavoravano con lui alla redazione della rivista, attori, registi, cantanti, senza contare i baristi e i camerieri.
« Senti, cocco… ».
Chiamava « cocco », o « cocca », tutti quanti. Anche Adrienne. Dal giorno in cui l’aveva conosciuta. Non era stato lui a fare il primo passo. La trovava troppo posata, troppo scialba per i suoi gusti.

[…] Non gli piaceva sentirsi solo. E non per bisogno di scambiare idee, e nemmeno per bisogno d’affetto.
Per bisogno di cosa, allora? Di una presenza, insomma, una presenza qualsiasi. I vecchi solitari hanno un cane, un gatto, un canarino. Altri si accontentano di un pesce rosso.
Non aveva mai considerato Micetta alla stregua di un pesce rosso ma, ora che rivedeva il passato con uno sguardo nuovo, si rendeva conto che per lui era stata soprattutto una presenza. Nei bar, nei ristoranti, in macchina. A destra, a pochi centimetri dal suo gomito.
Di mattina e nel pomeriggio aspettava la sua telefonata e si indispettiva quando lui tardava a chiamarlo. Quante volte in sette anni avevano avuto una conversazione vera e propria?4.

Le risposte della moglie, davanti al giudice istruttore, rispecchiano lo stesso distacco del marito e la sua personale lontananza da qualsiasi sentimentalismo.

« Amava suo marito| ».
« Suppongo di sì ». […]
« Si pente del suo gesto? ».
« Non lo so ».
« Lo rifarebbe? ».
« Dipende ».
« Da cosa ».
« Poco importa »5.

Un dramma della noia e di un’insoddisfazione che non possono essere riparate da nessun tipo di successo economico o riconoscimento pubblico. Un dramma senza passione che ci precipita, ancora una volta, nell’inferno personale di Georges Simenon.


  1. G. Simenon, La prigione, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 17.  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 9  

  3. Ibidem, pp 22-23 e 117.  

  4. Ivi, p. 34 e pp. 117-118.  

  5. Ivi, pp. 74-75.