di Sergio Cimino

Quando Wiltshire, io narrante della Spiaggia di Falesà, racconto lungo di Robert Louis Stevenson, arriva in prossimità dell’isola su cui dovrà occuparsi dell’emporio della compagnia per la quale lavora, non è né giorno né notte.
Già fin dall’incipit il racconto porta uno dei marchi tipici del suo autore: l’impossibilità di un’interpretazione univoca della realtà.
L’indeterminatezza del momento, descritta come un limbo dal cielo rosa con una luna che non ha ancora abdicato alla sovranità del cielo e la stella del mattino che brilla come un diamante, conduce Wiltshire a fare la conoscenza dell’isola prima ancora che visivamente, attraverso l’olfatto, raggiunto dall’odore pungente della limetta selvatica che lo fa starnutire.
Ad una caratterizzazione netta si sottrae anche, fin dal suo apparire, la figura dell’antagonista del racconto, il mercante Case, che cercherà di portare alla rovina commerciale Wiltshire come già fatto con tutti coloro che l’hanno preceduto.

Anche questo racconto è pienamente ascrivibile alle opere nelle quali maggiormente tangibile è l’approccio dello scrittore scozzese, che, come evidenzia Paola Della Valle nel suo bellissimo saggio Stevenson nel Pacifico, è improntato all’alienazione da sé, alla disposizione all’ascolto e ad un’identità mai stabile ma in continua evoluzione.1
Così Case, pur se stigmatizzato complessivamente per la sua condotta amorale («…e se adesso non è all’inferno, vuol dire che l’inferno non esiste…»), non manca di suscitare in Wiltshire un certo entusiasmo per l’abilità mostrata nei più diversi frangenti e persino per la sua diabolica capacità di elaborare piani criminosi.
Proprio uno di questi piani introduce il personaggio di Uma, donna dichiarata tabù dalla comunità dell’isola e che Case fa sposare all’ignaro Wiltshire per determinarne il fallimento commerciale attraverso l’ostracismo degli indigeni.
La rilevanza che progressivamente assume Uma nel racconto, in un modo non forzato ma naturale, riassume bene l’atteggiamento di Stevenson verso i popoli colonizzati. La sua impostazione si distacca dalla letteratura tradizionale sui mari del sud che aveva come scopo la legittimazione culturale del colonialismo, visto come missione civilizzatrice di quei popoli. Ma si differenzia anche dalla vuota mitizzazione e idealizzazione, che enfatizzano la purezza degli indigeni, i quali però alla fine vengono mostrati bisognosi di una guida razionale che può essere fornita solo dal colonizzatore.
Anche per Uma il percorso che porta il lettore a fare la sua conoscenza ricalca il sentiero zigzagante di Stevenson nell’avvicinarsi alla complessità del reale.
La prima apparizione di Uma è accompagnata da un segno sensuale. Vediamo ed in parte immaginiamo le sue forme attraverso la camicia bagnata incollata al corpo. Poi affondiamo nella tenerezza dell’innocenza, mentre osserviamo il viso un po’ allungato, la fronte alta e lo sguardo timido, strano, indefinito, un misto tra quello di un gatto e quello di un bambino.
La sua figura successivamente inizia a prendere consistenza, con Uma che mostra una dignità di sposa che punge dolorosamente la coscienza di Wiltshire per il matrimonio fasullo che la ragazza ignora, non staccandosi mai dal certificato di matrimonio come se fosse un lasciapassare per il Paradiso.
L’approccio antidogmatico di Stevenson e il rifiuto delle certezze inossidabili si manifesta anche in senso dinamico. Così Wiltshire che all’inizio del racconto non nasconde aspetti della classica mentalità del colonialista, convinto della propria superiorità sugli indigeni, mostrerà nello sviluppo della storia un cambiamento interiore che intaccherà persino il credo religioso più potente dell’ondata civilizzatrice occidentale: la sacralità del profitto. In tal senso, dopo aver scoperto il brutto tiro giocatogli da Case e il tabù che grava su Uma, mostrerà di essere consapevole che l’amore per lei supera l’interesse commerciale, spingendolo a far celebrare un matrimonio regolare dal missionario.

Ma Stevenson va oltre. Uma non è solamente la sposa indigena meritevole, il che ne farebbe già una sorta di eccezione nel panorama letterario di fine Ottocento. Non è racchiudibile in un recinto per quanto dignitoso.
Uma è una donna che spariglia le carte, capace di rompere gli schemi e di sorprendere sia Wiltshire che noi lettori, già indirizzati verso l’epilogo della storia.
Dopo aver scoperto che Case riesce a tenere soggiogati gli indigeni grazie a fantocci e manufatti costruiti nella parte dell’isola che si dice infestata dagli spiriti malvagi, dei quali egli mostra di poter governare ed indirizzare le forze maligne, Wiltshire decide di andare alla resa dei conti con il proposito di eliminare il mercante e di distruggere la sua costruzione orrorifica.
Quando tutto sembra incanalato verso un finale tutto maschile, ecco che l’aiuto arriva da una diavolessa, proprio una di quelle di cui raccontano le leggende degli indigeni, che altri non è che Uma travestita, la quale, pur ancora timorosa, si è lasciata guidare dalle necessità pratiche, dopo aver ascoltato il sodale di Case e aver intuito il pericolo corso dal marito. E per non far mancare il continuo sgretolamento delle facili certezze, questo aiuto provvidenziale vestito diabolicamente, arriva poco dopo le riflessioni di Wiltshire, il quale durante l’attesa del nemico nella boscaglia oscura pervasa da sinistri rumori, dichiara di non aver paura di Case, ma delle creature mostruose narrate dagli indigeni.
Nel finale scopriamo che Wiltshire non ha coronato il sogno di aprire una locanda in madrepatria grazie ai guadagni della sua attività commerciale. Ha preferito restare sull’isola. Un po’ come il suo creatore, che visse gli ultimi anni della sua vita, in perfetta simbiosi con l’isola di Upola, la maggiore delle Samoa, dove è sepolto, e dove, come è scritto nell’epitaffio, sotto il cielo ampio e stellato egli giace dove desiderava essere.


  1. Cfr. Paola Della Valle, Stevenson nel Pacifico, una lettura postcoloniale, Aracne Editrice, 2013. La Della Valle fa risalire questa attitudine dello scrittore al contesto familiare, nel quale Stevenson svilupperebbe, secondo le coordinate lacaniane, una soggettività eccentrica, nel senso di fuori dal centro, con un conseguente bisogno dell’altro per diventare sé.