di Pietro Garbarino

Partiti politici. Chi sono costoro? Hanno ancora una nomea e dignità difendibili? Sono entità gradite al popolo italiano? Pare proprio di no.

Sono stati aboliti, con referendum popolare, i finanziamenti pubblici; è stato ridimensionato l’organismo rappresentativo costituzionale più importante del nostro sistema costituzionale, e cioè il Parlamento, che è il luogo dove i partiti politici svolgono al più alto livello la loro attività; gli stessi “nuovi” partiti politici tendono a presentarsi come movimenti e rifuggono dalla denominazione di “partito”.

Insomma, si tratta di organizzazioni che ormai da lungo tempo non godono buona fama, perché ritenuti inconcludenti, portatori di privilegi, centri di corruzione, e anche di mal’affare ai danni dei cittadini.

Però l’art. 49 della Costituzione repubblicana dichiara il diritto dei cittadini ad associarsi in partiti politici per concorrere con metodo democratico alla vita politica del paese. Ma purtroppo, e non si può certo addebitarlo ai Padri costituenti, l’individuazione dello strumento partitico come protagonista della vita democratica del paese, si è scontrato con diversi fattori, tra i quali le diverse leggi elettorali succedutesi negli ultimi trent’anni, con alcune discutibili prassi istituzionali che hanno condizionato i rapporti tra Parlamento e governo, come l’abuso del ricorso ai decreti-legge, e con l’evoluzione economica e sociale del paese, che ha visto profonde modificazioni della società e della vita pubblica, rispetto a 74 anni fa.

Uno dei fattori che ha modificato la situazione, è rappresentato dall’abbandono delle forme ideologiche da parte dei maggiori partiti, i quali si sono trasformati sempre più in comitati elettorali e sodalizi di opinione, più legati ai sondaggi elettorali che alle strategie politiche.

Uno scossone devastante è arrivato dalla vicenda “mani pulite” che, anziché essere gestita dalla sinistra come un effetto dell’economia liberistica o di mercato, che nel nostro paese si connota come prevalentemente parassitaria verso il denaro pubblico e tendente al rapporto clientelare e mafioso, è stata interpretata in termini moralistici e comportamentali, assecondando così l’introduzione, nell’opinione pubblica, del germe dell’ “antipolitica”. Cioè, anziché dire che la corruzione era figlia di un’economia debole e drogata dal clientelismo, dalle più diverse parti politiche si sono presi di mira proprio i partiti, le istituzioni pubbliche e la politica, in nome di un liberismo sempre più sfrenato, della denigrazione della cosa pubblica e dell’individualismo imprenditoriale. In questo clima ha preso sempre più quota il tema della “governabilità”, e cioè della rivalutazione del ruolo preminente del governo e della valorizzazione del punto di vista dei governanti, visti quasi come capitani d’industria e sempre più in modo personalizzato. Silvio Berlusconi è stato l’interprete emblematico di questa tendenza, che non ha trovato nella sinistra un adeguato baluardo, perché l’opposizione all’uomo di Mediaset fu sempre incentrata sulla individualità personale dell’uomo e non sulle scelte economiche e sociali, tutte tese verso un liberismo di tipo americano, e un modello di stato tendente a far prevalere il governo sugli altri poteri dello Stato. In questo contesto il Parlamento, visto come pletorica assemblea di partiti e come continuo impedimento al dirigismo del Capo, venne fatto oggetto di continui attacchi, e fatto passare nell’opinione pubblica, come mero ostacolo alle decisioni governative, anche con la servile collaborazione di certa stampa.

Tutto ciò non poté non avere influenza sulle leggi elettorali. La neonata logica dell’alternanza bipolare tra destra e sinistra fece sì che quasi ogni governo, a seconda del proprio orientamento politico, inaugurasse la pessima prassi di farsi una propria legge elettorale, ma anche di voler modificare la Costituzione a proprio uso e consumo, secondo le convenienze politiche del momento. Perciò negli anni 2000 abbiamo assistito a ben quattro referendum costituzionali e ad almeno a quattro leggi elettorali diverse, alcune delle quali dichiarate incostituzionali dalla Consulta. Il risultato di questa devastante e sconcertante sequela di modifiche legislative, peraltro quasi tutte abortite o superate, è stato quello di delegittimare la funzione dei partiti politici e di avere un Parlamento non più formato da rappresentanti espressi dalla società civile, bensì da candidati, spesso alle prime armi, preselezionati dalle segreterie dei partiti, in quanto nelle leggi elettorali proposte da entrambi i maggiori schieramenti, le candidature in vari collegi vengono effettuate centralmente dalle forze politiche e non dalle istanze locali sul territorio o dagli iscritti-elettori. Ma come si spiega questa “evoluzione” e quale appare adesso il ruolo di tali partiti? Il falso e fuorviante concetto di “governabilità” introdotto suggestivamente dai vari cultori del sistema costituzionale presidenziale (il nostro è invece un sistema parlamentare) ha portato con sé l’introduzione nella legge elettorale di elementi del cosiddetto sistema maggioritario, con collegi uninominali e premio di maggioranza. Tutto ciò ha indotto i partiti politici, già indeboliti dall’abbandono delle ideologie (ovvero delle autonome strategie di lungo periodo) a puntare essenzialmente sull’obbiettivo del governo a qualsiasi livello, nazionale, regionale e locale. Dunque a causa di tutte quelle circostanze e vicissitudini è stata di fatto abbandonata la funzione civica pensata dai costituenti, i quali hanno invece indicato i partiti come propagatori di un modello di società e convivenza (e cioè, della forma di Stato) da perseguire.

Si è invece puntato esclusivamente alla conquista del potere, trasformandoli in meri comitati elettorali, nonché in strumenti di puro sostegno del governo nazionale o locale. In questo modo i partiti, anziché promuovere modelli politici e sociali proiettati verso il futuro, e verso lo sviluppo della democrazia secondo i principi costituzionali, si sono limitati a puntare al mantenimento del proprio potere, adottando strategie “a vista” e non disdegnando neppure le proposte dei concorrenti politici, ove ritenute convenienti. Chiarissimo esempio è la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione del 2001, adottata da uno schieramento di centrosinistra, per invadere il campo politico della – allora- Lega Nord, che in quel momento proponeva un’evoluzione dello Stato verso il federalismo. Ma a ciò si aggiunse la designazione centralizzata dei candidati mediante l’istituzione delle liste bloccate. Cioè di liste assai ristrette e selezionate, indicando persone gradite alla dirigenza del partito. Quel sistema non sarebbe più stato abbandonato neppure con i cambi di maggioranza, tanto è vero che tutt’ora, con l’attuale “rosatellum”, esso permane.

Dunque, complici tutte le circostanze sopra indicate, abbiamo partiti politici senza più idealità di fondo che indichino la visione sociale e politica di questa o di quella forza; programmi politici sono legati alle contingenze o servono solo sotto elezioni; le forze politiche di governo (si veda quelle attuali) vivono alla giornata a seconda degli umori dell’opinione pubblica, dove ovviamente prevale chi ha i mezzi economici per fare la voce grossa, come, ad esempio, le organizzazioni degli imprenditori.

Ma quello che maggiormente pesa sulla funzione e attività dei partiti è la qualità degli esponenti politici, non più scelti sulla base delle loro capacità e competenze, ma per la fedeltà alla segreteria di partito. Anzi, in tempo di populismo, si può anche dire di fedeltà al leader di partito, atteso che sempre più abbiamo avuto, da Berlusconi in poi, partiti personalizzati, (si pensi a Grillo per il M5S, come a Salvini per la Lega o a Meloni per FdI).

Possiamo dunque oggi parlare di partiti politici nel medesimo senso inteso dall’art.49 della Costituzione? No di certo.

Infatti i partiti immaginati dal Costituente erano dei protagonisti della vita reale con i quali gli elettori si confrontavano su come pervenire alla realizzazione del disegno politico ideale in cui ciascuno credeva o confidava. I partiti inoltre operavano sia come forze culturali interne, sia verso i propri militanti e aderenti, ma anche verso l’esterno per dare all’opinione pubblica la propria visione dei problemi e le relative proposte di soluzione. Oggi l’adesione ad un partito avviene per lo più a seconda delle convenienze individuali con la linea attuale (che però può rapidamente cambiare) di quella parte. Non a caso oggi si assiste a rilevanti cambi di orizzonte, così come a repentine e continue trasmigrazioni da un partito all’altro. Le decisioni politiche dipendono dai sondaggi e dalla pressione di gruppi sociali organizzati sugli esponenti politici di turno. La preoccupazione fondamentale è l’autoconservazione del proprio seggio e dei connessi privilegi.

Il risultato finale è che la coerenza e la moralità della vita politica sono ridotti a livelli prossimi allo zero, là dove si riteneva che, indebolendo i partiti, si sarebbe abolito il malcostume.

Che fare allora? Come modificare questo desolante quadro? Bisogna ritornare al concetto di partito come portatore di un disegno ideale di società, di economia e di stato, che deve costituire il programma stabile e distintivo di quella forza politica. Ben venga, anche se vogliamo chiamarla ideologia, quell’elemento, come garanzia di coerenza e moralità di azione. Bisogna ritornare ad un concetto di partito, interno alla società, che pone i problemi dei cittadini, li affronta e lotta, fuori e dentro le istituzioni, per risolverli. Partiti che alimentano la cultura civica e non la riducono a slogan vasti e ritriti, nel pieno rispetto, anzi nella progressiva attuazione di quella gran parte della nostra Costituzione ancora da realizzare, e nei fatti per larga parte dimenticata. Partiti che abbiano anche, all’occorrenza, il coraggio di porsi in alternativa ai luoghi comuni che spesso circolano a livello popolare, anche per demerito di una stampa acritica e ossequiente, ormai concentrata in poche e potenti mani, o dei mezzi di comunicazione informativa, spesso inadeguati e incontrollabili. Ma per fare ciò occorre che si formi un movimento, non solo culturale e di opinione, che prema affinché politica e partiti abbiano una loro carta di indirizzi e linee guida che, lasciando libertà di pensiero sulle proposte politiche strategiche (escluso ovviamente il fascismo e le forme politiche analoghe), individui quei punti cardine di funzionamento, come ad esempio il principio di responsabilità politica e le candidature condivise dei capaci e competenti, al fine di avere la garanzia che quell’indispensabile strumento di intermediazione politica tra il cittadino e le istituzioni funzioni secondo i principi democratici di eguaglianza anche dei loro militanti, di consultazione metodica degli iscritti, di apertura alle proposte di discussione, di allargamento degli organismi dirigenti e della loro rotazione, affinché il cittadino torni ad avere rispetto ed interesse per la politica e si recuperi un rapporto di stima tra chi si adopera per rappresentare e i rappresentati. In sostanza occorre uno “Statuto dei partiti”, condiviso tra le forze che vogliono permanere in un sistema democratico, al fine di recuperare l’enorme distanza e sfiducia oggi esistente tra cittadini e politica, e ripristinare l’indispensabile ruolo, di rilevanza costituzionale, dei partiti politici.

In definitiva, a differenza dell’opinione prevalente, purtroppo assai diffusa anche nel mondo della politica, il ruolo dei partiti politici è invece fondamentale nel nostro sistema democratico, proprio per il suo carattere di democrazia rappresentativa.

In altri termini, il partito politico è l’elemento intermedio tra istituzioni pubbliche e cittadini che coagula parte dei medesimi, li rappresenta e interpreta le istanze che tali soggetti condividono.

Senza la mediazione partitica il rapporto del cittadino con le istituzioni non può che divenire o clientelare o del tutto conflittuale.

Nell’uno e nell’altro caso non sarebbe un rapporto foriero di vantaggi per l’elettore e di garanzia per un corretto e comportamento dell’eletto.

E ciò anche alla luce dell’art. 2 della Costituzione, che valorizza l’azione solidale dei cittadini per una migliore attuazione dei principali obiettivi costituzionali, anche all’interno di formazioni sociali e collettive.

Dunque la strada della rigenerazione della sostanziale democrazia nel nostro paese non può prescindere dall’esistenza di partiti politici, perché gli stessi concorrano alla vita dello stesso, con metodo effettivamente democratico, tenendo presente che le istituzioni non sono di esclusiva titolarità di chi ha vinto le ultime elezioni, ma devono operare per il bene di tutti i cittadini, oppositori compresi.