Un vecchio racconto scritto ai tempi della Seconda Intifada e poi disperso in qualche dimenticata antologia di fantascienza. Purtroppo oggi sembra tornare attuale ed è il solo motivo per cui lo ripropongo.

 

di Walter Catalano

 

(alla memoria di Rachel  Corrie)

 

“Due occhi per un occhio,una mascella per un dente”

(Vladimir Zeev Jabotinsky – teorico sionista)

 

“A chi ci caverà un occhio taglieremo la testa, a chi ci romperà un dente spaccheremo la mandibola”

(Hermann Goering – Maresciallo del Reich)

 

Soprattutto la notte il rumore intermittente dei cingoli sull’asfalto risvegliava un sapore acido di lacrime e ferite. I tank di ronda intorno al campo sovrintendevano al riposo, orchestrando il succedersi di sonno e di veglia, così come di giorno arbitravano l’accesso all’acqua e alle strade.Nabil si riscosse sulla branda fra le lenzuola sudate: gli avevano interrotto un bel sogno. Con mano sicura lanciava una molotov contro il carro armato che gli veniva incontro mitragliando, mentre il carrista appollaiato sulla torretta si immergeva nell’abitacolo cercando di chiudere la botola in tempo. L’ordigno centrava lo spiraglio e rimbalzava all’interno. Uno scoppio e le fiamme erompevano dalle feritoie d’areazione con le urla roche degli arrostiti.Il rombo del tank si perse nella notte ma Nabil era ormai sveglio. Tornò a pensare agli olivi centenari nell’orto della casa della sua infanzia e a come il bulldozer li aveva sradicati uno dopo l’altro. Non volevano essere strappati via quegli olivi e resistevano con le radici secolari abbarbicate alla terra: dovettero schiantarli a fatica e coprirono con cicatrici di zolle le ferite profonde e nere che sfiguravano il suolo. Lui aveva sette anni ma non pianse. Anche se c’era rimasta solo una spianata di cemento laggiù al posto dell’orto e della casa, il nonno continuava a tornarci spesso prima che arrivassero i coloni. Si sedevano sul cemento, lui e il nonno, e pensavano agli olivi senza dire una parola, per ore. Poi eressero reticolati di filo spinato e sentinelle coi fucili sparavano a chiunque si avvicinasse e molte altre spianate di cemento pavimentarono i nuovi insediamenti. Ma oltre il filo spinato, sotto il cemento e sotto le zolle – nella polvere di alberi, case e uomini cancellati – quelle ferite restavano spalancate in eterno come bocche urlanti.In lontananza si udì un suono lontano di raffiche, grida, pianti, ancora raffiche. Non era stato un drone: i droni non facevano rumore. Nabil fremette ricordando altre identiche raffiche, pensando a come la pietra, inutile e patetica, era scivolata di mano a suo fratello, a come anche lui era caduto, sradicato come un olivo giovane, al cingolo del tank che gli era passato sopra per cancellarlo a sua volta, per ridurlo a quella stessa poltiglia di alberi, case e uomini, facile da nascondere e dimenticare sotto il cemento e le zolle, oltre il filo spinato.Si alzò dalla branda, dette un’ultima occhiata al nonno e alla sorella ancora addormentati, poi uscì a cercare delle bottiglie e una tanica di benzina.

 

“Il memoriale di Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, è stato costruito sulle rovine di un villaggio palestinese raso al suolo. Lo sapeva ?” – chiese con voce stanca la ragazza bruna cercando di reggere il passo veloce dell’uomo brizzolato e impeccabile mentre attraversavano la piazza assolata.

“No, non lo sapevo “– rispose con educazione ma scarso interesse l’uomo che valendosi di una falcata ben più ampia, stava avendo ragione della tenace ma troppo minuta inseguitrice. I suoi occhi grigi percorsero di nuovo la fragile anatomia della ragazza: un rapido excursus dalle caviglie sottili ai lisci capelli corvini che il vento le cacciava continuamente negli occhi. L’esame dovette dare un esito abbastanza positivo perché l’inseguito rallentò considerevolmente il passo.

“Non lo trova mostruoso ? “– insistette la giovane riprendendo fiato. L’uomo trattenne un gesto spazientito.

“Stia attenta signorina. Come ha detto di chiamarsi ? Flavia Berti. Stia attenta Flavia o chi la sente, me compreso, potrebbe accusarla di antisemitismo ! Non è il posto adatto questo per dire cose del genere.”

”Antisemitismo ? Anche lei non può cadere in questi equivoci “– Flavia si fermò in mezzo alla strada con i pugni sui fianchi, assunse un cipiglio da battaglia – “Essere contro il sionismo non vuol dire essere antisemiti: questa parola viene usata come un’arma per diffamare e zittire chiunque osi denunciare i crimini del colonialismo e del razzismo sionista. E poi io difendo gli arabi: non sono anche loro semiti ?”

L’uomo abbozzò un mezzo sorriso.

“Parliamoci chiaramente Flavia. Io non voglio grane, intesi ? Lei mi ha chiesto di partecipare all’attività della nostra organizzazione non governativa in aiuto delle comunità palestinesi in transito…”

”Transito ? Dica pure deportate !”

” Ah, ci risiamo ! Se non mi stesse simpatica la discussione sarebbe già terminata. Per sua fortuna mi piace la gente decisa. Capisce bene che la sua partecipazione alla nostra attività – le liste dei collaboratori erano già state chiuse due settimane fa a Roma – è assolutamente fuori dalle regole, ma in qualità di responsabile del progetto ho la facoltà di fare delle eccezioni. Le pongo solo due condizioni.”

”Quali ?”

”La prima è di darsi una regolata, tenere per sé le sue idee e non crearmi grane con le autorità.”

”E la seconda ?”

”La seconda è di venire a cena con me stasera. D’accordo ? “

Flavia restò un attimo perplessa, poi sorrise. Remo Ippoliti andava ormai per la cinquantina ma non era affatto male dopo tutto. E poi Gerusalemme poteva valere una messa. “D’accordo” – rispose.

”D’accordo su tutte e due le condizioni ?”

”Su tutte e due.”

”Bene. Ci vediamo qui alle sette. Intanto si presenti alla nostra sede – sa bene dov’è – e compili i formulari di prammatica.”

Pronto a riattivare la sua falcata da fondista Remo Ippoliti si lasciò la ragazza alle spalle inoltrandosi nel viale alberato. Prima si voltò però ancora una volta.

”Mi tolga una curiosità. Non ha avuto problemi alle frontiere ?”

”Non più di altri. Ho anch’io i miei appoggi.”

”Se li tenga cari e non si faccia sbattere fuori da Israele fino a stasera !”

Si scambiarono un ultimo cenno con la mano.

“Israele, dice lui. Io la chiamo Palestina” – mormorò Flavia arricciando graziosamente il naso mentre osservava la figura ancora atletica di Remo perdersi in lontananza.

 

Ismar Evron sussultò, spalancò gli occhi, annaspò nel buio ansimando. Aveva sognato di nuovo la piscina di Mamilla. O meglio, aveva sognato il parcheggio sotterraneo che ormai ricopriva da anni le vestigia dell’antica cappella bizantina, i suoi mosaici e l’ossario ricavato in una cisterna scavata – diceva la leggenda non confermata dagli archeologi – da Ponzio Pilato. La storia che gli avevano raccontato era questa: nel 614 d.C. gli ebrei di Palestina alleati ai babilonesi avevano aiutato i persiani a conquistare la Terra Santa. Dopo la vittoria sui Bizantini, la facoltosa comunità ebraica aveva riscattato a caro prezzo dalle mani dei soldati persiani i prigionieri cristiani per il gusto di poterli massacrare nella piscina di Mamilla. Ne avevano uccisi più di 60.000 prima che l’esercito persiano intervenisse a fermarli. Ismar Evron si ricordava di aver visto centinaia e centinaia di teschi e scheletri quando ci avevano spianato sopra il cemento: aveva visitato diversi operai vittime di incidenti là dentro a causa della distrazione o di un collasso nervoso. Gli archeologi storcevano la bocca ma alla fine tutti acconsentirono a edificare sulle ossa dei goim.Cancellare la memoria di Amalek. “Quando dunque il Signore tuo Dio ti avrà assicurato tranquillità, liberandoti da tutti i tuoi nemici all’intorno nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità, cancellerai la memoria di Amalek sotto al cielo: non dimenticare” (Deuteronomio 25:17). Curioso precetto: non dimenticare di impedire ad altri il ricordo. Curioso precetto poi proprio da parte di chi ha imposto all’Occidente l’obbligo perenne della memoria. Non tutti i ricordi hanno gli stessi diritti, è evidente. Ne conveniva anche Ismar Evron che pure aveva contribuito a suo modo a cancellare la memoria di Amalek e forse aveva fatto anche di peggio. Ma i figli di Amalek, i figli di Ismaele, i figli dei goim morti, i loro fantasmi – talvolta insieme a quelli dei suoi nonni, mai conosciuti, assassinati a Sobibor – lo visitavano frequentemente la notte porgendogli, con movimenti lenti e ieratici, incomprensibili messaggi .Il sogno iniziava sempre nel parcheggio sotterraneo: non si vedeva che cemento, niente di macabro all’inizio, solo cemento. Ma quel cemento, che lui sapeva impastato con ossa e crani invisibili, rendeva già l’atmosfera intollerabile: talvolta si udivano grida lontane, talvolta un silenzio peggiore delle grida. Talvolta c’erano auto solitarie parcheggiate in lunghe file, talvolta figure remote ma riconoscibili si muovevano circospette dentro le automobili boccheggiando dietro ai vetri come pallidi anfibi di grotta. Di solito a questo punto si svegliava urlando.Ma non di rado si aggiungevano lunghe sequenze al rallentatore: in fondo ad un corridoio tortuoso si apriva uno slargo che dava accesso ad una piattaforma di cemento; obliqua sulla piattaforma, sotto una cataratta fosforescente spalancata su un cielo gelido e vuoto, svettava un’astronave minacciosa e immensa; file interminabili di profughi palestinesi venivano scaricati da grandi camion, gli stessi che avrebbe controllato e scortato ogni settimana sulla via del Sinai: i soldati li spintonavano con i mitra puntati verso la piattaforma cromata che conduceva alle fauci spalancate dell’ampio portale dell’astronave. I palestinesi avevano tutti qualcosa appuntato al braccio, qualcosa che ricordava la stella gialla con cui i nazisti avevano marchiato gli ebrei: però questa non era una stella gialla ma una swastika. Un cartello stradale, posto di sbieco su un angolo, puntava verso l’interno del razzo indicando la destinazione di arrivo: Sheol. Lo Sheol era l’immondezzaio di Gerusalemme e la parte più tenebrosa della Gehenna, l’Ade ebraico, riservata ai dannati.Ismar Evron restò a fissare il buio e a ricordare a lungo, aspettando che i brividi cessassero e il battito cardiaco tornasse normale. Poi si alzò dal letto tossendo e maledicendo il barbeque (rigorosamente kasher) che sarebbe stato sontuosamente offerto tra due sere dalla filiale gerosolimitana della A-Shem Corporate per festeggiare la liberazione definitiva di Gerusalemme. Avrebbe mangiato e bevuto smodatamente, già lo sapeva, e sarebbe tornato a casa col mal di fegato. Gli incubi e il mal di fegato accompagnavano quei giorni di collera, paura e gelosia.Bevve un sorso d’acqua mugugnando, ripensando alla moglie scappata – ormai era definitivo – a Tel Aviv, per tornarsene poi nella nativa Ucraina: l’immagine di lei gli saettò per un attimo di fronte, il colore viola del suo sguardo severo e della sua valigia. “Fegato” – si sentì bisbigliare – “kavod , vuol dire anche pesantezza, gravità, abbondanza, potenza: la somma gematrica delle lettere ha valore 20+2+4=26. Il numero sacro di JHVH: A-Shem , il Nome, il Signore. Ancora lui.”La voce gutturale di un muezzin ruppe il silenzio chiamando i fedeli alla preghiera mattutina. Ismar ascoltò incuriosito: ogni manifestazione di fede islamica era ormai proibita a Gerusalemme, ma con dischi e altoparlanti i palestinesi avevano infranto per mesi, quasi quotidianamente, il divieto a prezzo di gravi rischi. Ormai, secondo le autorità, non avrebbero dovuto essercene più; ma qualcuno evidentemente si era saputo nascondere bene. Quasi a confermare il suo pensiero una vibrazione sussultoria percorse l’edificio, come un improvviso trasalimento, facendo crollare al suolo la cornice con la foto dei figli che stava da anni in bella mostra sul comodino. Un drone aveva appena colpito il suo bersaglio a pochi isolati di distanza. Il muezzin ora taceva. Raccogliendo da terra i frammenti di vetro Ismar si impose la calma.

 

“Dunque è la A-Shem Corporate che paga” – disse Flavia Berti inghiottendo lo stupore con una generosa sorsata di vino rosso. – “Come può pensare che una ONG possa svolgere liberamente il suo compito se è sovvenzionata dalle stesse multinazionali che in teoria dovrebbe contrastare ?”

“Cara mia“– il piede di  Remo Ippoliti sotto il tavolo si fece audacemente strada verso quello di Flavia, andando ad incontrare però solo il suo mocassino: la ragazza si era tolta infatti le scarpe ripiegando le gambe sotto la sedia – “non faccia l’ingenua. Le ONG hanno sempre svolto più o meno diligentemente la loro funzione all’interno del sistema che le ha partorite. Non si è mai trattato di contrastare alcunchè: al massimo di mitigare. Tutto qui. E lei lo sa benissimo.”

“E a lei questo basta ?” – Flavia inchiodò con la pupilla il grigio negli occhi di Remo.

“Lo sa che è proprio un bel tipo lei ? – sembrava sbellicarsi dal ridere – Non credevo  che ce ne fossero più così. Davvero. Da un lato mi fa piacere che la specie non sia estinta. Dall’altro ho sempre temuto i rompicoglioni anche se sono simpatici.”

Il cameriere li interruppe portando via i piatti. Il ristorante era quasi lussuoso, rinomato per le specialità ebraiche. Dalla terrazza si aveva un’ottima vista sul quartiere greco e oltre si intravedeva la cupola della moschea di Omar intorno alla quale, nel loro volo silenzioso e micidiale, incrociavano tre droni. Un quartiere relativamente tranquillo e ormai ripulito: ci si poteva risiedere senza grossi rischi.

Flavia riprese il discorso accentuando l’increspatura di disgusto sulle labbra sottili.

“Insomma il nostro compito sarebbe quello di consolare i palestinesi deportati da Gerusalemme…”

“…In transito. I profughi in transito.”

“Già. In transito. Noi dobbiamo facilitare il transito. Renderlo scorrevole. Smussare gli spigoli e calmare gli animi evitando, tra l’altro, che elementi estremisti compiano azioni irreparabili rovinando le infrastrutture messe generosamente a disposizione dalla A-Shem Corporate. Insomma le forze speciali della Sayeret Mat’Kal li fanno marciare con gli schiaffi, noi con le carezze. L’importante è che marcino comunque.”

“Marciare e non marcire, diceva il Vate. Comunque è una visione piuttosto semplicistica la sua.”

“Le cose semplici sono le meno lontane dalla verità.”

“E qual è la verità ? Diceva Pilato…”

“Non faccia l’idiota.”

Accompagnando il gesto con un sorrisetto rabbioso di intesa Remo, abbandonata l’infruttuosa manovra di agganciamento pedestre, passò all’azione diretta andando ad appoggiare senza complimenti la mano sulla coscia di Flavia. La ragazza represse la voglia irrefrenabile di allungargli un destro ai coglioni. Conveniva aspettare. Restò immobile.

“Parliamo di questo transito, allora.”

“Se non ha argomenti più interessanti”. La mano di Remo non si mosse.

“Dove finisce il – come dice lei – il transito ?”

“Nel Sinai, lo sa benissimo.”

“Questo lo sostiene la stampa occidentale ma…”

“Nel Sinai. Centri di raccolta e accoglienza gestiti dagli Egiziani”

“Gli Egiziani non esistono più”

“Non dica sciocchezze”

“Perché non si possono visitare ?”

“Chi l’ha detto ? Io li ho visitati. Le fotografie di Spiegelmann sono state pubblicate su tutti i giornali”

“Spiegelmann è un agente del Mossad

“Certo, anch’io sono un agente del Mossad. Se indaghiamo per bene magari salta fuori che anche lei è un agente del Mossad

“Li ha visitati davvero ?”

Remo ritirò la mano.

“Ne ho visitato uno. Un centro di smistamento. Tutto regolare, pulito. Niente a che vedere con i campi profughi”

“Che sta succedendo veramente ?”

“Vogliono chiudere la questione. Definitivamente”.

“La soluzione finale del problema palestinese”

“Scherza o dice sul serio ?”

“L’ha detto lei. Io ho usato solo un’espressione diversa”

“Non era l’espressione adatta”

“Hanno evacuato Gaza e il West Bank. Hanno rastrellato il Golan e la Transgiordania. Ora svuotano Gerusalemme…”

“Possono farlo. Hanno la forza militare, hanno gli appoggi internazionali. Israele ormai è a tutti gli effetti membro della Comunità Europea e governa di fatto Libano, Siria e Giordania. La Russia non avrà mai niente da ridire finchè le viene lasciata la sua quota maggioritaria nella cogestione euro-americana dei pozzi petroliferi iraniani: con l’alibi del progetto di decontaminazione atomica dei territori colpiti dai bombardamenti Nato hanno ormai campo libero. Gli Usa intanto si tengono mezzo Iraq, l’Egitto e l’Arabia Saudita: la Confederazione Sunnita, come dicono loro, più il Nuovo Kurdistan. E tutti sono contenti. Chi dovrebbe sollevare obiezioni ? Dopo la morte di Arafat, poi, i suoi amici non ne hanno imbroccata una giusta. L’ipotesi dei due stati, d’altra parte, non è mai stata sostenibile: era utile, ora non lo è più.”

“Quindi resta il Sinai. Il deserto”

“Per il momento questa è la soluzione”

“La soluzione finale”

“La smetta. Quello che dice è reato. Lo sa ? Possono arrestarla, estradarla in Israele e processarla per aver detto molto meno di quello cui sta alludendo”

“Sono già in Israele”

“Mi chiedo se è bene che ci resti ancora molto”

“Dipende da lei”

“Come ?”  – la faccia di Ippoliti si immobilizzò in un’espressione stupita, quasi comica. Flavia sorrise, vide la smorfia di un clown a cui fosse scivolato via il naso finto.

“Dipende da lei. Farò parte di una delle colonne di profughi dirette verso il Sinai”

“Impossibile. Siamo in pochissimi ad avere i permessi”

“Lei ed i suoi collaboratori più stretti li avete. Vi hanno persino invitati al party della A-Shem Corporate, domani serasono pochi i goim con questo onore”

“Brava. Sa tutto lei vero ? No, non se ne parla. Potrebbe essere pericoloso”

“Pericoloso per chi ? La aiuterò a facilitare il transito. Nient’altro, lo prometto. E’ questo il nostro compito, l’ha detto lei. Chiedo solo di fare il mio dovere” – Flavia sorrise ancora. Ippoliti notò che quando sorrideva le si formavano due fossette molto carine ai lati del mento. Il naso si riappiccicò come per miracolo alla faccia da clown ma non era una faccia allegra.

“Perché vuole venire ?”

“Voglio vedere. Sono un tipo curioso. Le do la mia parola d’onore che guarderò soltanto”

Embedded” – Bofonchiò Ippoliti annuendo. La sua mano le accarezzò la coscia e poi si posò con delicatezza su quella della ragazza stringendole leggermente le falangi, quasi si complimentasse. Flavia tacque ricambiando la stretta.

Embedded. E’ un letto accogliente, vedrà.”

 

La testa del bambino palestinese si spappolò come un melone maturo lasciando sulla polvere rossastra del viale sterrato una stella più rossa, fatta di sangue, materia cerebrale e frammenti ossei.

“Tombola !” – esclamò il cecchino ridendo. “Te l’avevo detto che lo pigliavo al primo colpo. Passami una birra Uri.”

Uri non si fece pregare. Ruttando passò la lattina e imbracciò a sua volta il fucile di precisione.

“Ora tocca a me.” Soppesò l’arma poi si arrestò, come riflettendo. “Siamo proprio sicuri però che il tenente non avrà da ridire ? In fondo quello non si era mica avvicinato alla recinzione. Dobbiamo sparare solo se sono a meno di dieci metri dalla recinzione. Lo stronzetto passava solo in mezzo alla strada”

“Quando è caduto in terra però è ruzzolato a meno di dieci metri ! “ – il cecchino si strozzò dalle risate spruzzando birra in tutte le direzioni. “Te lo dico io, il tenente è contento. Più ne facciamo fuori di quelli là, più è contento. L’altro giorno si è fatto fare anche la fotografia con la cacciagione, così la chiama lui, per la sua ragazza a Tel Aviv. Ne avevamo beccati quattro e non erano mica vicini al recinto. Gli ordini sono impliciti: meno ne lasciamo in giro, meglio è. Quando hai dubbi spara comunque, così non rischi niente.”

Rinfrancato Uri scrutò attraverso il cannocchiale di precisione. Vide solo polvere e macerie nel riverbero abbagliante del sole.

A meno di duecento metri dal posto di avvistamento invece Nabil strisciava come un serpente fra le macerie. Più indietro si ergeva la torretta di controllo dove un solo ufficiale comandava almeno una decina di droni. Aveva superato con fortuna insperata la rete elettrica di protezione sfuggendo alla vista dei due cecchini appostati oltre il terrapieno ed ora procedeva lento ma determinato sudando e ansimando piano.L’immagine del kamikaze non si addiceva a Nabil e, tutto sommato, neanche quella dei suoi padri fedayn. Non voleva essere un martire ma un guerriero che colpisce e salva la pelle per poter colpire ancora. Un partigiano, così gli piaceva pensarsi. Si era costruito due molotov molto artigianali con cui era riuscito ad incendiare una jeep. L’aveva fatta franca già una volta trovando poi dei compagni che gli avevano passato un kalashnikov con diversi caricatori e un pugnale. Ora ci riprovava: gli avevano detto di eliminare i cecchini e tirar giù più droni possibile. Solo due cecchini e un ufficiale: ce la poteva anche fare. Aveva appena visto il bambino stramazzare colpito senza poter intervenire per salvarlo e fremeva di rabbia e di odio. Sentiva che la rabbia e l’odio lo aiutavano.Ebbe fortuna e non dovette attendere a lungo. Uri uscì dal piccolo bunker e si accucciò dietro un muretto di mattoni dove resti evidenti e maleodoranti sul breve spazio sabbioso denunciavano il suo uso improprio come improvvisata toilette da campo.Nabil aspettò che l’israeliano fosse nel bel mezzo della delicata funzione poi, pugnale alla mano, pensò forte al bambino appena ucciso, a tutti i bambini uccisi, e scattò.Morire non è mai dignitoso ma la morte di Uri non fu meno dignitosa della sua vita. Rotolò sulla sabbia a contemplare sangue e escrementi che si mescolavano. L’ultima cosa che vide fu un mucchietto di merda rossastra e la ruach – avrebbe detto un cabalista, il soffio vitale – non gli uscì in un sospiro né in un singulto ma in un lungo, estenuato peto.Preoccupato per l’assenza prolungata del compagno anche l’altro cecchino oltrepassò il terrapieno ma non fece in tempo a vedere il corpo riverso: la lama di Nabil lo colse proprio alla base della nuca trapassandogli il cervelletto.Gettati i cadaveri nella latrina, il palestinese si impossessò del fucile di precisione – al campo ce n’erano un paio, rubati, e aveva imparato ad usarli – e si portò furtivamente in un punto da cui potesse vedere l’ufficiale arroccato nella sua bassa torretta. Ora lo inquadrava in pieno nel cannocchiale, assorto a scrutare i monitor di controllo dei droni, quasi fosse a due passi da lui. Non c’era modo di sbagliare. Trattenne il respiro e, con calma, premette il grilletto.La raffica improvvisa tagliò il tenente praticamente in due facendo esplodere monitor e consolle. Una ragazza a Tel Aviv avrebbe presto pianto contemplando le foto ricordo di un povero, vecchio fidanzato con “cacciagione”: gli incidenti di caccia sono una questione triste.Nabil invece non apprezzava i souvenir e non aveva fidanzate nè tempo. Gli restavano circa dieci minuti prima che i droni o una pattuglia corazzata piombassero sul posto. Ora poteva anche correre e corse. C’erano molti compagni che lo aspettavano lungo le strade verso il Sinai nel disperato tentativo di bloccare le colonne di deportati e salvare i  prigionieri.

 

La carne arrostita sui barbeque diffondeva un odore pungente di sangue e di brace. Grassi funzionari governativi si ingozzavano a fianco di mogli obese, succhiavano il midollo dalle ossa, si leccavano le dita e si lubrificavano l’esofago con generose bicchierate di vino rosso o di birra. L’ambasciatore statunitense si nascondeva dietro un enorme cous-cous di verdure, mentre la moglie – come una Barbie mummificata – esibiva con munifica sovrabbondanza la dentiera candida agli attacheè europei.Un tripudio di torce nella notte disegnava un’enorme stella di David sull’erba mentre l’incrociare dei droni nel cielo buio rispecchiava il disegno su un piano più alto. Tende e braceri a profusione conferivano all’ampio giardino l’immaginaria suggestione di un’oasi di nomadi nel deserto .

“E’ meraviglioso” – trillò una giovane giornalista dall’aria e dall’accento anglosassone – “non le fa pensare alla corte di Re David o di Salomone ?”

Flavia ricambiò il trillo un’ottava più in basso: “No, mi fa pensare piuttosto a Leni Riefenstahl”. Né la giornalista, né Ippoliti, occupato a spolpare una costoletta, sembrarono afferrare la battuta.

Flavia seppe cogliere al volo l’attimo di pausa per allontanarsi in direzione dei due rappresentanti del presidente della A-Shem Corporate che ruzzavano intorno ad un gruppetto di procaci ufficialesse dell’esercito in alta uniforme. Ippoliti, ancora masticando il boccone, la tallonava dappresso cercando di recuperare lo svantaggio della partenza a sorpresa.

“Non cercare di scapparmi, piccola peste !” – proruppe deglutendo.

“Ma allora non ti fidi di me? Hai paura che combini qualche guaio ? Un incidente diplomatico ?  Credevo che avessimo fatto patti precisi”

“Hai ragione. Scusami, ma – sai – è una situazione particolarmente delicata. Sono un po’ teso”.

“L’appetito non ti manca però”. Flavia scoppiò a ridere impossessandosi con gesto principesco di un calice di vino rosso.

“Pensavo non avresti toccato cibo. Per coerenza, insomma…” – La stuzzicò Ippoliti strizzandole l’occhio.

“Tutt’altro. Sono un’osservatrice partecipante. Voglio rischiare e bere al tavolo degli ospiti arabi: chissà se c’è anche qui uno come Abba Kovner, che nel ’45 voleva vendicarsi uccidendo sei milioni di tedeschi. Si fece procurare dal futuro presidente israeliano Efraim Katzir un bel po’ di veleno da versare nelle condutture idriche delle città più grandi in Germania. Gli inglesi riuscirono però a bloccare la nave in un porto europeo prima che riuscisse a mettere in pratica il progetto” .

“E gli inglesi ci hanno fatto un gran favore, signorina, sarebbe stato un evento estremamente sgradevole. Ma li avevamo avvertiti noi…”. L’uomo massiccio e dall’aria bonaria che l’aveva interrotta, in un italiano quasi perfetto, protendeva verso di lei il suo bicchiere di vino rosso sorridendo. “I nostri ospiti arabi non corrono comunque alcun pericolo. Si rassicuri”.

“Ti presento il dottor Ismar Evron” – farfugliò Ippoliti imbarazzato – “ispettore medico del governo. Lo incontreremo spesso lungo la via del Sinai”

“Mi perdoni se la corrego, caro Ippoliti. Non dipendo direttamente dal governo. Sono un semplice consulente, proprio come lei” – Evron sorrise ancora rivolgendosi a Flavia – “Sarà dei nostri signorina ? La presenza di osservatori stranieri imparziali è quanto mai auspicabile in queste circostanze”.

“Mi auguro di sì, dottore. Non posso però garantirle la mia assoluta imparzialità” – Flavia ricambiò il sorriso.

“Apprezzo la sua franchezza. Spero che avremo modo di farle cambiare idea.”

Sempre più imbarazzato Ippoliti tentò di cambiare discorso, ma temeva di essersi ormai inoltrato su un campo minato. – “Splendida coreografia non le pare dottore ?” – azzardò con voce incerta.

“Non amo i folklorismi. Mettono troppo in risalto la nostra natura tribale e questo mi spaventa” – Evron rise di gusto – “Mi ha fatto lo stesso effetto anche la cerimonia di fondazione del Terzo Tempio ad Haram al-Sharif”.

“Mi stupisce che usi il nome arabo” – lo interruppe Flavia.

“Abitudine. E poi è un nome che suona bene. Ma tutta quella messa in scena in stile kolossal biblico hollywoodiano mi ha depresso profondamente”

“L’intenzione era quella di risvegliare il senso religioso tradizionale. – ritentò Ippoliti – La A-Shem Corporate, che ha finanziato la cerimonia, non è certo un’organizzazione religiosa ma è interessata a perpetuare le radici religiose del suo popolo.”

Evrom lo guardò sornione  – “La A-Shem sa quel che fa e non si è scelta un nome a caso: è il Nome. Quanto a me, pur essendo nella pratica un collaboratore fedele, la penso piuttosto come William Blake”.

“Vale a dire ?” – chiese Flavia, visibilmente incuriosita.

“L’unico nome del boss per me è Nobodaddy, Paparino  Nessuno….con tutto il rispetto. Bevo alla sua salute.”  Evron alzò il calice e tracannò il vino rosso vuotandolo d’un fiato.

In un improvviso passo di danza, improbabile e leggero come Nijinsky, Evron sospinse dolcemente i suoi due interlocutori in un punto più appartato del parco, un triclinio incuneato fra due colonne di una scenografia in stile Nabucco. Ridacchiando estrasse dalla tasca del panciotto un piccolo chillum di terracotta indiano e con gesto rapido ed esperto lo riempì d’erba.

“Volete favorire ? E’ ottima. La coltivo nel giardino di casa mia.”

Un po’ attonita ma divertita Flavia accettò la pipa facendo il primo tiro.

“Prende in gola !” – tossì.

“E’ pura, senza tabacco – spiegò Evron – il modo migliore per gustarla” – Soffiò il fumo verso Ippoliti che contemplava la scena muto. “Non le piace collega ? Io dico che lei ha la pressione oculare troppo alta: la cannabis è un toccasana in questi casi. Non si preoccupi: gliela prescrive un medico.”

Ippoliti si attaccò al chillum e tirò fino alla congestione.

“Così si ragiona ! – riprese Evron soddisfatto – Dicevamo del vecchio Nobodaddy. Sarà contento di noi. Uno di questi giorni ci manderà finalmente il Messia. Che ne dite ? Torneranno a farci visita i vecchi: Abramo, Isacco, Giacobbe…”

“Giosuè – lo interruppe Flavia – soprattutto Giosuè…”

Evrom scoppiò in una sonora risata – “Touché Mademoiselle !  Sarà il benvenuto anche Giosi, ma questa volta Gerico è caduta senza bisogno di trombe ! “

“Io piango  per Gerico”  – disse Flavia.

“Io no. Ma piango per Asherah. Sa chi era Asherah ?”

Evron contemplò le facce mute dei suoi interlocutori, fece un altro tiro e continuò. “Nobodaddy aveva una moglie una volta, si chiamava Asherah. La sua paredra, la sua controparte femminile. Quando decise di fare fuori i Ba’al di Canaan, i suoi colleghi dei, quando volle restare solo e li sbattè tutti all’inferno, eliminò anche sua moglie, Asherah, la dea nutrice dai molti seni: Ishtar come la chiamavano a Babilonia. Noi ebrei – e anche voi cristiani – adoriamo un uxoricida. Jishra-el : Dio è il capo, Dio domina. Lui si manifestò ai Patriarchi come El Shaddai – “El della montagna”, “l’Autosufficiente” – e a Mosè come Jhvh, con i suoi giochi di prestigio a base di roveti ardenti, bastoni e serpenti, i suoi scherzetti con la lebbra…”Io sono colui che sono”. Vale a dire zitto e mosca !” – Evron rise e per la prima volta apparve a Flavia, sovrapposta all’espressione bonaria che l’aveva per un momento sedotta, una maschera tormentata, un teschio di cristallo.

Un’improvvisa esplosione interruppe la conversazione. Una pioggia di minute schegge di vetro ricadde su di loro in un’eco di grida e di spari.

“Kamikaze…sono arrivati fin qui !” – balbettò Ippoliti asciugandosi col dorso della mano il sottile rivolo di sangue che stillava da un lungo taglio sulla tempia.

Nel caos imperante Flavia si aggrappava, terrorizzata e affascinata insieme, al sorriso selvaggio di Evron, al rictus irrefrenabile che gli contraeva il labbro superiore. La sua voce, tagliente come una spada, sembrava salmodiare, un po’ in italiano e un po’ in ebraico, frammenti scollegati del Cantico dei Cantici. Ripeteva soprattutto un verso: “Perché forte come la Morte è l’amore; feroce come gli Inferi è la passione”.

 

Il convoglio si mosse di nuovo sollevando cortine quasi solide di polvere sulla strada assolata. Si erano lasciati alle spalle almeno da un’ora il riverbero d’argento lebbroso del Mar Morto e procedevano lentamente verso l’interno, inoltrandosi nel deserto in una prospettiva labirintica di pinnacoli rocciosi.In testa e in coda solo due jeep con mitragliatrice montata, dieci camion di profughi – circa duecento persone, in prevalenza donne, vecchi e bambini, le cui condizioni generali erano discrete, aveva concordato Flavia con Evron dopo aver dato una sommaria occhiata al carico –  e due di osservatori, giornalisti e soldati.Flavia occupava con Ippoliti, una corrispondente del Frankfurter Zeitung, un misterioso americano e sette soldati, una vettura nella parte centrale della colonna. Avevano perso di vista da tempo Evron disperso da qualche parte e si erano fatti solo un’idea vaga di chi e di dove fossero gli altri ospiti embedded.La tedesca stava flirtando con l’americano che le mostrava tatuaggi multicolori sulle braccia muscolose mentre uno stereo diffondeva a ripetizione, mandando in estasi gli autisti, un vecchissimo pezzo dei Rolling Stones che Flavia aveva sempre detestato: Angie. Ippoliti ronfava rannicchiato sul sedile sobbalzando con un leggero grugnito ad ogni scossone sulla strada dissestata. Gli autisti dopo un’animata contrattazione cambiarono finalmente brano passando, senza troppa fantasia, a Sister Morphine.La destinazione del viaggio non era affatto chiara: Evron aveva parlato di un campo di lavoro all’estremo sud della penisola e l’ufficiale che guidava il convoglio – un capitano col cranio rasato e l’abbronzatura perfetta che faceva il verso a Moshe Dayan, con tanto di benda sull’occhio (Flavia era sicura che ci vedesse benissimo e la tenesse solo per aumentare il suo carisma guerriero) – di un altro, distante parecchie centinaia di chilometri dal primo.  Di certo il vero luogo di raccolta non era né questo né quello e gli israeliani non ci tenevano a divulgarlo: la presenza dei giornalisti era puramente rappresentativa.Flavia, sveglia dalle prime ore del mattino, aveva riempito i tempi morti del viaggio stando in silenzio e ripensando ai giorni appena trascorsi: la cicatrice sulla fronte di Ippoliti, addormentato come un Lucignolo deluso dal Paese dei balocchi, ne era una sottile porta d’accesso. L’esplosione durante il party della A-Shem non aveva fatto vittime se non lo stesso kamikaze: una studentessa di medicina di ventun’anni, al terzo mese di gravidanza, che aveva pagato un prezzo molto alto per interrompere una festa.Nel turbine di ambulanze e volanti della polizia Flavia e Ippoliti si erano attardati insieme ad Evron, che aveva medicato personalmente il ferito, ripercorrendo poi a passi lenti le stazioni della Passione verso il Golgota. Durante la passeggiata notturna avevano fumato tutta l’erba rimasta e si erano scolati un’intera bottiglia di Bowmore, sottratta ad un barman consenziente.

“Non sta bene dirlo in questo momento – aveva puntualizzato Evron – ma se fossi un palestinese farei esattamente quello che fanno loro. Invece sono un ebreo e un cittadino israeliano e faccio il mio dovere”.

“E quale sarebbe il suo dovere ?” – aveva sottilizzato Flavia.

Evron era scoppiato a ridere. “Io sto con gli angeli”. Aveva detto alzando uno sguardo rassegnato verso l’incombere minaccioso dei droni nel cielo buio. “Questi sono gli unici angeli che ci sia dato conoscere”.

Ippoliti aveva vomitato in un angolo, proprio dalle parti del Calvario. “Non mi piace il futuro. – aveva farfugliato – Voi ebrei siete dei feticisti del futuro. Io amo il passato, invece, se è bello. O il presente. Se penso al futuro vedo solo la mia morte”.

“La morte è la soluzione, la vita il problema. Si beva pure l’ultimo sorso di Scotch” – aveva tagliato corto Evron.

Flavia interruppe le sue reminescenze. Il convoglio si era bruscamente fermato. La tedesca e l’americano si alzarono cercando di scendere ma i soldati israeliani, con un gesto esplicito, fecero loro intendere che non era il caso. Ippoliti si riscosse dal suo sonno comatoso.

“Che succede ?” – chiese a Flavia con voce impastata.

“Non so. Si sono fermati.”

“Strano. Dove siamo ?”

“E chi lo sa. In mezzo al deserto. Evron direbbe che stiamo raccogliendo la manna come Mosè”:

“Che vada a farsi fottere pure Mosè” – imprecò Ippoliti: evidentemente non si era svegliato di buon umore.

Per una quarantina di minuti i quattro osservatori si scambiarono in varie lingue le loro improbabili ipotesi sulle ragioni della sosta e cercarono di estorcere ai soldati qualche notizia: ma questi tacevano, giocavano a carte o fingevano di dormire. Gli autisti avevano alzato il volume dello stereo: le note di Shelter from the Storm di Bob Dylan ora invadevano l’abitacolo. Finalmente l’emulo di Moshe Dayan cacciò la sua faccia da pirata oltre il telo grigioverde del furgone, facendo cenno di scendere.

Raggruppati ai lati dei camion in un ampio spazio sassoso, gli ospiti stranieri cercavano di sporgersi oltre la fila schierata di soldati per osservare le insolite procedure in corso. Tutti i deportati erano stati tirati giù dai camion e si trovavano accalcati in un ampio spazio sabbioso: si distinguevano facce esangui di bambini, donne fiere, uomini scarni. Una coppia di soldati stava scortando Evron in mezzo ai palestinesi: il dottore li esaminava uno per uno, faceva loro aprire la bocca guardando i denti, li auscultava brevemente con lo stetoscopio; poi diceva qualcosa ad un assistente che prendeva nota su un taccuino e controllava il numero marchiato con inchiostro indelebile sul braccio destro di ogni profugo.

“Che diavolo fa ?” – chiese Flavia.

“Non so. Li visita, mi pare” – rispose Ippoliti torvo.

Uomini, donne e ragazzi più grandi venivano incolonnati su una lunga fila, mentre vecchi, bambini piccoli, uomini e donne in condizioni di salute palesemente più precarie erano subito ricondotti sui camion. Il sole picchiava  ferocemente e il sudore imperlava le fronti di guardiani e prigionieri: era l’ora delle febbri, l’ora in cui appaiono i demoni meridiani.

La lunga fila degli uomini validi marciò verso i camion di testa, furono caricati a bordo con esasperante lentezza, poi si avviarono i motori. La colonna ora si era divisa in due tronconi: una jeep e sette camion da una parte e una jeep e cinque camion dall’altra. Evron si diresse verso il gruppo più numeroso: Flavia, oltre la barriera dei soldati, cercò di fargli un timido cenno con la mano ma il dottore la ignorò salendo in fretta sul retro della jeep che apriva la colonna. Moshe Dayan impartì l’ordine di rompere i ranghi ed i soldati si ridistribuirono ordinatamente lungo i due tronconi del convoglio sospingendo tutti gli osservatori stranieri verso quello guidato da Evron. Flavia capì che era solo questione di minuti e che, se i militari li obbligavano ad andare da una parte, lei avrebbe dovuto precipitarsi dalla parte opposta, cercando di imboscarsi in una vettura dell’altro gruppo. Ippoliti per fortuna non era un problema: poco socievole dopo il brusco risveglio, stava già montando sul camion più vicino insieme a tre altri giornalisti. Flavia gli gettò un rapido bacio facendogli capire a gesti che sarebbe salita sul furgone seguente insieme ai due vecchi compagni, la tedesca e l’americano, che già si stavano inerpicando sul predellino posteriore. Invece, approfittando della distrazione dei soldati circostanti, sgattaiolò sotto il furgone e, passata dall’altra parte, percorse al riparo di una ripida parete rocciosa il breve tratto fino all’ultimo camion della seconda colonna. Sperando che nessun guardiano fosse salito a controllare gli occupanti dell’auto, saltò dentro trattenendo il respiro. C’erano solo pochi vecchi, un paio di donne dall’aria sofferente e dei bambini molto piccoli che la fissavano con aria stupita.

“Salam” – salutò Flavia con un mesto sorriso.

 

Nabil consultò l’orologio. Il convoglio ritardava ma, se le informazioni erano esatte, avrebbe dovuto passare sicuramente prima del crepuscolo.

Inerpicato sulla cresta rocciosa guardò verso la vallata lontana: in fondo, nella caligine infuocata, si distinguevano confusamente gli edifici del campo: torrette, ciminiere, comignoli, baracche. Impossibile sferrare un attacco diretto, ma, fermando la colonna e liberando i prigionieri si sarebbe potuto tentare un’infiltrazione a sorpresa scatenando una rivolta all’interno ed un’evasione collettiva. Non c’erano droni laggiù e solo il rincalzo di una squadriglia di elicotteri Apache avrebbe potuto sventare la minaccia di un assalto; ma l’aereoporto si trovava a varie centinaia di chilometri e, se l’attacco fosse stato fulmineo, il nemico non avrebbe avuto il tempo materiale per mobilitare i rinforzi. Una  scommessa  probabilmente persa, ma qualcuno di loro alla fine sarebbe forse riuscito a scoprire cosa c’era laggiù, oltre il filo spinato.Gli otto ragazzi che erano con lui, sparpagliati fra le rocce come i guerrieri di Geronimo, apparivano tesi ma decisi. Abdul, il tiratore scelto del gruppo, imbracciava spavaldo il vecchio panzerfaust che doveva mettere fuori combattimento la jeep di testa.Il suo volto affilato era la sintesi fisiognomica di una tipologia umana che il progresso del mondo voleva sopprimere. In lui si riassumevano i tratti dimenticati di milioni di perdenti indomabili: come Cambronne avevano urlato “Merde !” alla storia e la storia reclamava vendetta. La piega ribalda delle labbra ripercorreva le disgrazie di un’originaria rivolta.Inclinato sull’arma sorrise fra sé e si protese oltre il pinnacolo roccioso alzando una mano verso i compagni. In un turbine di polvere lungo la strada sottostante qualcosa si avvicinava.

 

Un brusco stridio di freni ruppe la breve pausa di silenzio dopo l’esplosione. Il convoglio ora era fermo e gli automezzi di coda sgommavano fra le urla e le raffiche di mitra cercando di fare marcia indietro sulla ghiaia e portarsi al riparo. I soldati stavano saltando giù dai camion, incerti se prima  rispondere al fuoco degli attaccanti o sparare sui prigionieri che si davano alla fuga correndo fra le rocce. Flavia piroettò istintivamente fuori dal furgone, rotolando dolorante sulla sabbia fino ad un costone roccioso dietro il quale cercò di nascondersi.Anche le donne palestinesi gridando scendevano precipitosamente dal mezzo: due giovani con i bambini più piccoli le si rifugiarono accanto e lei fece loro posto dietro la roccia. Il soldato più vicino dette una sventagliata di mitra abbattendo due vecchie troppo lente per mettersi in salvo, ma un singolo colpo sparato dall’alto di una collina di pietraglia lo colse a sua volta dritto in mezzo ai rayban: Flavia ringraziò in cuor suo lo sconosciuto tiratore. L’eliminazione di quel pericolo dava loro un attimo di tregua: gli altri soldati erano troppo lontani e troppo occupati per notarle.La figura lontana di un ragazzo palestinese che imbracciava un fucile sull’orlo di uno sperone roccioso, fece loro un cenno con la mano indicando il percorso per allontanarsi dal centro della battaglia. Tirandosi dietro i bambini Flavia dette il via al piccolo gruppo: di corsa si inerpicarono fra le pietraie inoltrandosi in una stretta gola coperta. Si voltò di sfuggita dall’apice dell’altura facendo in tempo a notare in lontananza la jeep in fiamme e le sagome carbonizzate degli occupanti: il vento trascinava nella polvere una benda nera da pirata guercio.

 

Nabil aveva fatto raccogliere i fuggiaschi in un specie di conca al riparo delle colline, i pochi uomini in grado di maneggiare le armi si erano uniti agli aggressori e tenevano a bada i soldati che si stavano ormai riorganizzando.

“Lei non è palestinese. Che ci fa qui ?” – chiese in ottimo inglese notando Flavia.

“Ero con gli osservatori stranieri del convoglio grande. Quando hanno staccato questo gruppo più piccolo sono riuscita a nascondermi: volevano dirottare tutti sull’altro e allora io…”

“Ha fatto bene. Non vogliono testimoni laggiù” – indicò la vallata e i profili indistinti di lontane costruzioni .

“Un campo ?” – chiese Flavia.

“Uno dei nuovi campi. Campi di destinazione, li chiamano”

“Sembra un programma davvero speciale. Avevo sentito delle voci in proposito ma nessuno ne vuole parlare. Lei ne sa qualcosa ?”

“Niente di preciso per ora. Ormai non ci resta che andare a vedere e cercare di tornare indietro per poterlo raccontare”.

“Come spera di riuscirci ?”

Nabil alzò lo sguardo al cielo sorridendo. “Allah è grande” – disse.

Ancora Nobodaddy pensò Flavia aggrottando la fronte: il vecchio demone della montagna, il delirio  di  Abramo.

“Non metto in dubbio la grandezza di Allah, ma voi siete pochi e, a quanto ho visto, male armati: avete già fatto tanto riuscendo a fermare il convoglio. Laggiù ci saranno soldati a centinaia”.

“No. Non sono molti. Li osserviamo da giorni. Solo guardiani e poliziotti e molti prigionieri che noi faremo fuggire. Non ci sono troppi soldati: se hanno problemi chiamano gli elicotteri “.

“Dici nulla. Bastano due elicotteri e siete fregati”

“Non faranno in tempo a chiamarli”

“Non faranno in tempo ? Crede che non abbiano una radio o dei computers? Li avranno già avvertiti appena avete attaccato”

“No. Abbiamo fatto saltare la jeep. La radio di solito è nella jeep”

“Già. Di solito. E poi dove fuggirete ? In fondo al deserto, senza mezzi di trasporto…”

“Li ruberemo al campo”.

“Lei è matto. Mi scusi. – Flavia esitò. Il sorriso del ragazzo la invitò a continuare – “ E’ proprio matto”

Nabil le porse due borracce.

“Faccia bere queste persone e beva un po’ d’acqua anche lei”

“Grazie. Io ho la mia” – rispose Flavia passando le borracce ai bambini.

Estrasse il piccolo termos che teneva alla cintura.

“Ne vuole ? E’ ancora passabilmente fresca”

Il giovane fece un cortese cenno di diniego.

“Torno dai miei compagni” – disse – “Voglio…”

Un improvviso spostamento d’aria lo interruppe facendolo vacillare. La piccola moltitudine quasi all’unisono alzò gli occhi spauriti verso il cielo.

“Droni ! “ – esclamò Nabil esterrefatto – “Ma come possono attraversare il deserto !”

Tutti si lanciarono in una fuga disperata. Anche i combattenti sugli spalti rocciosi abbandonarono la battaglia cercando un inutile rifugio fra le gole. Intanto la squadriglia di droni – nell’orribile, caratteristico silenzio che permetteva loro di giungere sempre a sorpresa come l’Angelo Sterminatore – scendeva a bassa quota disponendosi in formazione a delta.

Nascosto da qualche parte, un oscuro ufficiale davanti ad una consolle, teleguidava i velivoli robot sull’obbiettivo: i volti terrorizzati dei fuggiaschi  baluginavano sfarfallanti sui monitor; le zoomate sulla loro morte saturavano l’obbiettivo delle telecamere installate sulle ali accanto ai lanciamissili; un regista al quartier generale avrebbe in seguito rimontato la scena al rallentatore simulando immaginari dolly e carrelli per un audiovisivo didattico da mostrare alle reclute delle squadre scelte.

 

Flavia si ritrovò a correre all’impazzata insieme a Nabil nell’uragano di polvere sollevata dal volo silenzioso della formazione e dall’onda d’urto delle esplosioni. Istintivamente si erano presi per mano come in un ultimo gesto di fragile umanità: il soldatino di piombo e la ballerina fra le fiamme della fiaba di Andersen. Avevano perso le donne e i bambini dietro di loro, avevano perso Abdul che cercava invano di colpire un drone col suo panzerfaust, avevano perso il senso e il significato delle loro stesse esistenze: resistere significava solo prolungare un’agonia.Correvano per inerzia, sospinti dal vento e da un cieco istinto di sopravvivenza, incuranti di concetti come tempo, direzione o distanza. Un reticolo di filo spinato arrestò la loro corsa.Stranamente non erano stanchi, non avvertivano la sete o il caldo, i battiti del cuore recuperavano la frequenza ordinaria ed il respiro ansimante lentamente si acquietava.Avevano raggiunto il perimetro esterno del primo ordine di recinzione del campo.A poche centinaia di metri di distanza vedevano le torrette d’avvistamento montate su colonne metalliche; le baracche rettangolari più simili, da vicino, a bunker di cemento e l’ampio spazio di raccolta prospiciente ad una piccola caserma in mattoni rossi sul tetto della quale garriva la bandiera azzurra e bianca con la stella di David.Tutto appariva deserto e abbandonato, pietrificato in un’animazione sospesa, nell’eco di un’attività interrotta. Dov’erano i prigionieri ? Nabil era sicuro di averne visti molti nei giorni precedenti, aggirarsi in lunghe file sull’area di raccolta. Dov’erano i guardiani ? Stavano aspettando un convoglio di nuovi arrivati e avrebbero dovuto essere in pieni preparativi per l’accoglienza. Gravava invece un’immobilità e un silenzio innaturale. Perché poi le torri di guardia non li avevano avvistati ? Perché nessuna pattuglia era venuta loro incontro per fermarli ? Perché i droni non li avevano inseguiti ?Le domande si affollavano nella mente di Flavia e di Nabil, ma nessuno dei due parlava: anche i loro visi muti erano parte di quel grande silenzio, dell’inutile attesa di una risposta negata. Lo scatto di un percussore alle loro spalle non era una risposta. Fra lo scatto e la raffica fu come se il tempo si fosse dilatato. Non si voltarono aspettando l’impatto e sembrò che l’eternità avesse spalancato in anticipo i suoi portali. Flavia poteva osservare la scena dall’esterno, con obbiettività, senza fretta e senza rabbia. Fluttuava nel tempo e nello spazio: era una scheggia di vetro nella Notte dei Cristalli, era un fiocco di brina a Varsavia. Considerava, seguendo una trama tortuosa, come la stella delle vittime fosse gialla: la stella azzura, nel ghetto e altrove, la portavano invece le squadre dei collaborazionisti e dei kapò che avevano salvato la pelle.In qualche oscuro modo ebbe coscienza che tutte le vittime sono uguali e tutti i carnefici sono uguali e sentì una certa gioia e quasi l’orgoglio di essere vittima e non carnefice. Ora distingueva le ciminiere in lontananza; la soldataglia che oziava inerte sull’ampio portale; l’eco dei canti patriottici e delle risate, dei colpi di bastone; il cupo viavai presso i grandi camini che svettavano vertiginosi vomitando pinnacoli di un fumo denso e greve.

Gli arcangeli di Nobodaddy volteggiavano in ampie spire su di loro, come avvoltoi nel cielo azzurro: lettere indecifrabili di un alfabeto ostile ordito per celare innominabili segreti.