di Jack Orlando

Cento anni dalla sua scomparsa. E la figura di Lenin continua a sfuggire a qualsiasi incasellamento, seguita a creare disturbo e inquietudine.
Sopravvive alla sua perpetua demonizzazione liberale; all’imbalsamazione in dottrina rigida e meccanicista di gruppuscoli tanto ininfluenti quanto ostinati, così come anche al suo infastidito allontanamento da parte di numerosi movimenti che hanno adottato l’identità dell’attivista piuttosto che quella del militante, che hanno trovato il proprio senso nella ricerca di riconoscimento del diritto formale piuttosto che nella costruzione di rapporto di forza.

Numerose sono pure le interpretazioni a cui è stato sottoposto: dal Lenin di pietra del socialismo reale a quello canonizzato del marxismo leninismo, dal Lenin operaista a quello del pensiero anticoloniale, fino ai goffi e malriusciti tentativi di recupero e distorsione di alcuni circoli del neofascismo.
Ed in effetti il capo del bolscevismo si presta ad essere interrogato ed utilizzato a seconda della contingenza, ma mai ad essere profilato una volta per tutte.

Né eretico né ortodosso, il pensiero leniniano è anzitutto elaborazione pragmatica e dinamica finalizzata alla sovversione dell’esistente.
Se un filo rosso univoco è rintracciabile nella sua parabola è proprio questo: la costante, ossessiva e caparbia volontà di mutamento radicale del sistema mondo. Dato questo come obbiettivo finale, i passi per arrivare a meta possono venire calcolati di volta in volta.
Pare banale, ma solo alla luce di ciò è possibile comprenderne l’opera .

Analisi concreta della realtà concreta: il marxismo di Lenin, non è sapere filosofico ma scienza d’attacco, mai pura, quanto costantemente sottoposta a ibridazioni e aggiornamenti. Politica, economia, storia, arte militare, letteratura, tutto ciò che è utilizzabile viene utilizzato. Non si butta via niente.
Non è un caso che l’opera più celebre, il “Che fare?” sia debitore della tradizione del populismo russo e mutui il nome non da un saggio d’analisi quanto da un romanzo di formazione.

Confrontarsi oggi, cento anni dopo, con quello che più di tutti può essere considerato come il gran maestro della rivoluzione, permette forse di approcciare laicamente il tema e trarne qualcosa di utile.
Metodo anzitutto: non vi è mai un Lenin uguale a sé stesso, vi è quello che nel “Che fare” propone una struttura militante elitaria e cospirativa abitata da rivoluzionari professionisti, per poter agire in un contesto repressivo e ostile come quello dell’impero russo prima del 1905, e vi è quello che di fronte a tale data mette questa specializzazione al servizio delle masse in movimento per innervarle di “sapere tecnico” e convogliarne il potenziale all’interno del partito prima che possa essere disperso. Vi è un Lenin che spinge per la lotta armata durante la fase rivoluzionaria e uno che difende la partecipazione alle istituzioni rappresentative nel momento del riflusso.
Ogni forma e ogni pratica non sono elementi assoluti e sempre validi ma strumenti per attraversare la fase.
Insurrezione e gradualità, slancio e cautela.

Non è rivoluzionario chi compie il gesto più estremo, ma chi attraverso il gesto più adatto impone la sua impronta alla realtà e ne devia il corso, ne impone una traccia di ordine differente.
Sguardo strabico, brutto a vedersi e virtuoso a praticarsi, si procede con un occhio all’immediato ed uno all’infinito.

Una spregiudicata adattabilità che porta ad utilizzare qualsiasi mezzo, anche il più torbido, eppure permette di non perdersi nell’opportunismo nè nel fanatismo, questo perché accanto alla finezza dello sguardo veglia un forte afflato etico, una bussola interna che mette al riparo dalle degenerazioni in cui spesso è incappato il socialismo. Dalle brutalità tragiche della grande Storia alle piccole miserie umane dei capetti delle parrocchie di cui è seminato il tempo della storia minore.

Ancora metodo: nelle pagine dei quaderni e degli scritti leniniani trova posto praticamente ogni tema possibile. Lo sviluppo del capitalismo, il significato cangiante della democrazia e delle nazioni, l’imperialismo le colonie e lo sviluppo diseguale, il ruolo della violenza politica e della guerra, anche quella civile, la costruzione dello Stato ed ovviamente i compiti del partito.

Anche di questo, nel pensiero rivoluzionario, non è importante la forma, che è sempre questione di contingenza; quanto il suo ruolo di principio ordinatore: il partito è anzitutto lo spazio di coniugazione di teoria e prassi, ogni elaborazione teorica è finalizzata ad una sua messa in pratica, così come ogni azione non solo è guidata da una linea di pensiero, ma ne è fonte, momento di correzione ed aggiornamento. E l’unico modo per far sì che questi due termini siano in connessione è che essi dialoghino ed interagiscano nella costruzione di organizzazione, ovvero nella capacità di accumulare e generare potenza che produce impatto sul terreno del reale.

Ecco perché è possibile incappare in tanti nodi quante poi scuole di pensiero si sono generate per ognuna di esse, senza poi produrre rottura effettiva per altro, perché l’attenzione del rivoluzionario è volta al cambiamento di tutto ciò che esiste e che non gli basta, per cui non può che tutto affrontare e ricondurre la ogni particolarità allo schema generale delle cose.

Lenin non era un leninista, come Marx prima di lui non era un marxista.
In ultima istanza, del padre dell’esperienza sovietica non servono le liturgie, ma il sapere vivo, l’esempio fecondo.
Vadano a crepare in un angolo le identità, le purezze e gli ideologismi, tutto ciò che serve è ciò che è utile per l’attacco, per il superamento dell’esistente.

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