di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Ballata per Nina, pp. 183, € 10, Marsilio, Venezia 2023.

Dopo Tracce dal silenzio (Marsilio, 2019) e Bunny Boy (Marsilio, 2021) arriva in libreria la terza e ultima puntata della trilogia Le visioni di Nina. Un esito che conferma appieno – se mai qualche distratto avesse avuto dubbi – non solo una scintillante capacità dell’autrice di offrire narrativa di genere del tutto letteraria (e anzi letteratura tout court – ne ha prodotto anche ottima mainstream – con un controllo stilistico assoluto) ma anche l’urgenza di dar voce a dimensioni interiori estreme, sofferte, autentiche in una scrittura che rappresenta di fatto un unicum. Con un’empatia che fa amare Ghinelli anche da chi non abbia la ventura di conoscerla direttamente e apprezzarne l’onestà assoluta e la sensibilità tanto viva. Il risultato è una scrittura alta, profonda, preziosa in un’epoca in cui troppo spesso l’uscita letteraria rileva non tanto per lo specifico valore di un testo ma per l’evento e il personaggio di chi scrive (le confidenze personali nei suoi testi restano ancorate al senso intrinseco delle singole opere, e non puntano riflettori su di lei). Una premessa che non sembra inutile, considerando il gran circo delle uscite librarie e il panorama umano – ma in realtà anche letterario – non sempre entusiasmante che esso offre.

Dimensioni interiori autentiche: e non stupisce che ciò sia offerto con un linguaggio ricco di potenzialità simboliche ed evocative quale quello fantastico, in particolare a proposito delle singolari capacità che affliggono la protagonista, qui ormai quattordicenne (nei precedenti romanzi ne abbiamo seguito la crescita, in grazia della speciale attenzione di Ghinelli – un po’ in tutta la sua produzione – allo sviluppo e alle crisi dei ragazzi). Inevitabile pensare, per sfondi e suggestioni al suo seminale, fortissimo Il divoratore (caso letterario nel 2010, uscito per Newton Compton 2011).

L’asciuttezza, la brevità feroce di questa chiusa tanto nera della trilogia – tanto nera ma capace di un colpo d’ala finale, non tanto nel senso del lieto fine quanto per la capacità di uscire e non contentarsi di un nichilistico, pigro, manieristico restare a mollo nel male – dice già qualcosa per Nina di un rito di passaggio all’età adulta che è sempre un morire, ma qui assume toni anche più foschi. Un’opera al nero, dunque, sobbollente tra i decreti ministeriali della pandemia, i sequestri in casa di un’intera popolazione, le dinamiche elettroniche non sane – ma in fondo le uniche a disposizione – per dialogare: i suicidi non dichiarati di quel periodo emergono qui assieme ad altri spettri tutti interiori, al ritmo del ritrovamento notturno di ossa di topo e di uscite impossibili in una tenebra dai plurimi significati.

In tale sterilità d’ambiente in cui la famiglia di Nina – con l’eccezione del tormentato e adorabile fratello Alfredo – è finita alla deriva di un’ottusa passività e di riti compulsivi vuotamente problematizzanti assieme al resto della popolazione, l’adolescente coglie frequenze di morte di tipo nuovo, ma soprattutto incontra un predatore: un quindicenne dal passato travagliato che però, complice la molle distrazione delle agenzie di appoggio attorno (un’affidataria miope, dolciastra e ambigua, un prete superficialotto), ha maturato peculiari caratteristiche. Onde evitare spoiler, limitiamoci alla definizione da quarta di copertina: “il male corrisponde pienamente alla natura di chi agisce, e non cerca né comprensione né assoluzione” (appunto: l’affidataria e il prete, ma in fondo una platea di lettori dai buoni sentimenti). Se nell’Ottocento dei teologi salutisti Joseph Sheridan Le Fanu li mostrava incapaci di cogliere la vertigine autentica del Male e dunque di intervenire a soccorso di chi soffra, con un’operazione in parte simile e più laica Ghinelli punta qui il dito su alcune terribili possibilità di Male (lasciamogli la lettera maiuscola per le sue dimensioni di mistero etico tutto umano, non importa se secolarizzato) in fondo agevolato da fenomeni dei nostri tempi.

Tuttavia le peculiarità paranormali di Nina non la rendono realmente diversa da qualunque adolescente sensibile, e le manifestazioni “parapsicologiche” rappresentano in fondo solo un’espressione letteraria fantastica di irruzioni reali dell’orrore e del nonsenso nel tessuto sensibile, plastico e ancora tanto fragile, dei giovanissimi dei nostri giorni. Mentre il nero cui l’autrice offre voce per narrare è qualcosa che riconosciamo anche come adulti, scesi almeno qualche volta in quegli inferi che non frequenteremo solo post mortem, ma che ci vengono spalancati da contingenze storiche (come appunto la pandemia) o catabasi personali. La lingua asciutta del romanzo pare la più congrua a una simile opera al nero.

Le visioni di Nina si chiudono così con un quadro dove tutto punta verso la necessità di porsi domande, di maturare consapevolezze – superando anche limiti umanissimi di chi sta intorno, come qui i genitori, ma salvando quel quid di sacro che offre senso al vivere. Di ribellarsi alle manipolazioni (dei piccoli “deboli” assassini – lo vediamo nella cronaca tragica e grottesca di questi giorni – come di una società brutta e fintamente forte di veri uomini frustrati e depressi che costituisce solo l’altro lato della stessa medaglia predatoria) e di coltivare fuor d’ogni buonismo una capacità d’amare. Purché effettiva, sana e vitale.