di Walter Catalano

Avevo giurato che mai più avrei perso tempo guardando film di Mike Flanagan, ma sapere che, dopo Shirley Jackson ed Henry James, l’incauto regista avrebbe massacrato addirittura il maestro di tutti, Edgar Allan Poe, mi ha indotto una malsana curiosità – un imp of the perverse avrebbe detto il grande bostoniano – e così ci ho provato, e ho affrontato la visione, per quanto ho potuto, cioè solo per alcune puntate, non tutte, perché poi la noia, il sopore e il fastidio hanno avuto il sopravvento: il verme conquistatore ha trionfato come sempre, e in questo caso direi come è giusto. Ho visto abbastanza però (compresa la desolante puntata finale) per farmi un’idea precisa e confermare tutto il mio disprezzo per il ridicolo, pretenzioso e soprattutto abissalmente banale cineasta netflixiano.

Intanto partiamo subito da una premessa innegabile: il cinema ha sempre tradito Poe. Ma c’è tradimento e tradimento: tralasciamo il seminale Jean Epstein del 1928, e concentriamoci sui film, ormai classici, di Roger Corman. Per quanto infedeli e inevitabilmente banalizzanti –  vuoi per l’interpretazione istrionica di Vincent Price e dei suoi colleghi (Boris Karloff, Peter Lorre, Barbara Steele, perfino Ray Milland o l’allora giovanissimo Jack Nicholson), vuoi per le sceneggiature di un grande emulo poesco, Richard Matheson – nonostante i budget risicati e la rapidità funambolica delle riprese (in un caso addirittura 15 giorni…), questi film hanno sempre mostrato profondo rispetto e coerenza verso il mondo e l’atmosfera di Poe, reinventandolo sì, spesso volgarizzandolo, ma restando comunque in linea con il grottesco e l’arabesco da lui teorizzati. Si è sfiorato il capolavoro quanto più intelligentemente si è tradito l’autore: travalicando nel comico (Tales of Terror o The Raven che sanno evocare genialmente l’umorismo nero e kitsch dei racconti satirici di Poe) o nello psichedelico (The Masque of the Red Death, il più bello per aver colto perfettamente non certo il testo ma la visione e l’allucinazione). Trasferire Poe dalla pagina scritta all’immagine filmata, pretendendo di prenderlo alla lettera, significa fallire: un esempio eclatante è Tre passi nel delirio, film del 1968. Gli episodi apparentemente più “fedeli”, Metzengerstein di Roger Vadim e William Wilson di Louis Malle, sono i più insoddisfacenti e deboli, mentre il Toby Dammit di Fellini, che attraverso la riscrittura di un grande sceneggiatore – Bernardino Zapponi, appena uscito da una straordinaria raccolta di racconti che sapevano reinventare il gotico poesco nell’Italia del boom, il purtroppo mai più ristampato Gobal del 1967: Fellini la lesse e ne ingaggiò l’autore a colpo sicuro – stravolgeva e parafrasava, fellinizzandolo, uno dei racconti più misconosciuti tra quelli minori di Poe, Mai scommettere la testa col diavolo, e lo trasformava nella quintessenza parallela di Poe e di Fellini: totalmente felliniano ma insieme anche il miglior film da Poe /di Poe mai realizzato in assoluto.

La chiave di volta per confrontarsi con Edgar Allan Poe dunque è il rispetto. Rispetto che non significa, come abbiamo detto, inerte letteralità (per altro impossibile), ma capacità di calarsi nei meandri dell’immaginazione di un grande poeta e narratore – forse il più grande perché ha inventato tutta la letteratura moderna: i generi letterari – senza Poe niente fantascienza, poliziesco, horror e weird; la poesia simbolista – senza Poe niente Baudelaire, Rimbaud e Mallarmè; il racconto psicologico – senza Poe niente Dostoevski – assaporarne l’essenza gotica “non della Germania ma dell’anima”, un male di vivere – essenzialmente – una malinconia, un nevermore  (“La miseria del mondo è molteplice. La sventura multiforme”, come suona l’incipit di Berenice), farsene permeare, attraversarla e viverla, per saperla poi restituire adattandola a nuovi tempi e nuovi modi. Questo rispetto, questa immedesimazione manca completamente in Mike Flanagan.

Usher avrebbe potuto diventare un’epopea, un’opera wagneriana. Debussy ci provò fra il 1908 e il 1917, ma la lasciò incompiuta. Invece un grande musicista rock britannico, legato al Progressive e forse non abbastanza noto quanto meriterebbe, Peter Hammill – front-man e principale compositore del gruppo, molto amato in Italia ma non altrettanto in patria, dei Van Der Graaf Generator – diversi anni fa, nel 1991, scrisse una straordinaria rock opera ispirata a The Fall of the House of Usher. Purtroppo il budget minimale non ne permise la rappresentazione scenica, come era previsto, ma solo la pubblicazione su disco, per altro con orchestrazioni elettroniche realizzate, sempre in economia, nello studio casalingo del musicista (tutte le basi furono infatti reincise nel 1999, per una seconda edizione meno spartana, l’unica ancora in circolazione. Io conservo, e forse preferisco, la prima…): Roderick era interpretato da Peter Hammill stesso, Madeline da Lene Lovich, una delle voci più “strane” degli anni ‘80. Il focus della trasposizione – in totale sintonia col testo originale – era il rapporto morboso tra fratello e sorella – gli ultimi della dinastia (“I am the last of the Usher”, canta Roderick, dopo l’inumazione di Madeline) – e con la Casa come creatura vivente, prolungamento delle esistenze dei suoi abitatori (in uno dei brani più suggestivi, Architecture, Hammill dà voce alla casa stessa: le pietre e le architravi gotiche che la costituiscono sono la materializzazione di suoni, parole ed echi delle generazioni di Usher che l’hanno abitata). Due delle arie dell’opera sono i poemi di Poe che Roderick recita nel racconto, The Haunted Palace e The Sleeper (quest’ultima è uno dei momenti più alti del disco, con Hammill che canta “My love, she sleeps! Oh, may her sleep, as it is lasting, so be deep! Soft may the worms about her creep!” accompagnandosi al suono cimiteriale di un harmonium gotico). E’questo un altro esempio – ed assai notevole, per quanto misconosciuto – di rispetto, di uso non pretestuoso dei materiali narrativi originali per reinterpretarli (non riciclarli come fa Flanagan) attraverso un altro linguaggio.

L’irrispettoso riciclaggio di Flanagan invece consiste nel riscrivere una storia completamente diversa inventando personaggi che nulla hanno a che fare con le figure originarie, illudendosi che basti chiamarli Usher per evocare Poe. Gli Usher di Flanagan sono una dinastia di capitalisti arricchitisi fraudolentemente nel settore farmaceutico – è evidente l’ispirazione allo scandalo che coinvolse Big Pharma nella distribuzione di antidolorifici a base di oppioidi a rilascio prolungato, come l’ossicodone (nella serie chiamato Licodone), spacciati per innocui e che hanno invece causato dipendenze e migliaia di morti per overdose in tutti gli Usa e nel mondo. Un tentativo di attualizzazione – e l’attualizzazione non è in sé inevitabilmente “sbagliata” se mantiene lo spirito dell’originale: si pensi al gradevolissimo Sherlock di Mark Gatiss e Steven Moffat – del tutto arbitrario: cosa c’entra Poe con tutto questo? La sua essenza è assente e non resta che un nome, solo un nome. E l’utilizzo meramente nominale e abbellitivo delle citazioni poesche in Flanagan suona davvero ridicolo e quasi puerile: oltre a Roderick, il presidente della società (che si chiama Fortunato Ltd. come il protagonista di The Casket of Ammontillado), e alla sorella Madeline, ci sono i numerosi figli (decisamente qui Roderick non è the last of the Usher). Frederick Usher, nato dalla prima moglie di Roderick, Annabel Lee, sposato con Morella e padre di Lenore (c’è bisogno che ricordi da dove vengono i nomi? ); c’è la figlia illegittima Camille L’Espanaye, che a differenza della sua omonima de I delitti della Rue Morgue, non ha a che fare con i primati, mentre è la sorellastra Victorine LaFourcade, altra figlia illegittima di Roderick (è pure nera), che, cardiochirurga senza scrupoli, viviseziona scimpanzè (non oranghi); c’è poi la secondogenita Tamerlane Usher (ma Tamerlano non era maschio ? E perché, già che ci siamo, la fanciulla non ha un maggiordomo arabo chiamato Al Aaraaf ?), figlia di Annabel Lee e sposata con William Wilson, un fitness coach televisivo che ha un franchising denominato Goldbug (lo scarabeo d’oro, no ?); non dimentichiamo Prospero “Perry” Usher, il più giovane dei rampolli, che aprirà un locale mondano scandaloso dove si consumerà la Morte rossa, ridotta da Flanagan a una banalissima discoteca, con droga e sesso libero, privé con telecamera e qualche tetta in vista; ci sono però anche un paio di nomi non poeschi, come Napoleon “Leo” Usher (un po’ a disagio coi gatti neri però), altro figlio illegittimo, o Juno Usher, ultima moglie di Roderick, o la misteriosa e fantasmatica Verna (a questo punto non si capisce perché Flanagan non li abbia chiamati Berenice o Eleonora o Ligeia o Egaeus o Montresor, c’erano ancora a disposizione nomi maschili e femminili in abbondanza, si vede che non gli piacevano…); in compenso, l’avvocato corrotto che difende gli interessi degli Usher, si chiama Arthur Gordon Pym e il procuratore legale che cerca di incastrarli è ovviamente C. Aguste Dupin; la madre di Roderick e Madeline è Eliza (e chi sennò ? Ma allora Virginia, dov’è Virginia?); il proprietario originario che assume Roderick e a cui questi sottrarrà l’azienda, facendolo finire come il Fortunato di The Cask of Ammontillado, è Rufus Wilmot Griswold (perfino lui!); e c’è addirittura un Longfellow, William però non Henry, padre biologico di Roderick e Madeline, nonostante non li riconosca come figli, e un giovane gigolò di Camille L’Espanaye di nome Toby (si presume Dammit). Insomma una vera insalata mista senza capo né coda, senza criterio né giustificazione. Forse Flanagan si diverte ma purtroppo non lo spettatore: così serioso e totalmente privo di umorismo, il regista e (ahimè) sceneggiatore americano, si prende troppo sul serio proprio là dove il suo patchwork potrebbe risultare facilmente comico, e imbastisce una storia stiracchiata e melensa che non fa per niente paura, non ha alcuna suspense e procede per luoghi comuni, jumpscare scontati, alternati a dialoghi e soprattutto monologhi noiosissimi, e scene forzate e prevedibili (quando, ad esempio, ho visto – nel secondo episodio, mi pare – i due giovani fratelli Usher seppellire la madre morta in giardino, ho subito pensato “ecco, ora piove”: infatti allo stacco successivo, prima che la defunta risorga, scoppia il temporale. Neanche l’avesse sceneggiato Mel Brooks!).

Quasi fosse la stessa compagnia di filodrammatici (o un’associazione criminale iconoclasta specializzata nel vandalizzare i luoghi letterari: Hill House, Bly Manor, Casa Usher…) poi, gli attori scelti da Flanagan sono sempre gli stessi: le stesse facce in tutti i suoi film e serie tv, a suggellare un’identica noia (voglio salvare giusto Carla Gugino, che, almeno, ha una faccia che trovo sexy, ma si tratta di gusti personali). E come è ripetitivo il cast, così è il soggetto: qualunque ne sia la fonte originale, l’unica storia che Flanagan cerca di raccontare è quella di una famiglia disfunzionale, sempre la stessa solfa banale – un po’ di esistenzialismo a buon mercato (in Usher addirittura un anticapitalismo degno del dopolavoro dei postelegrafonici), tanto per darsi una parvenza autoriale – condito con le spezie andate a male e gli ectoplasmi di qualche fantasma che fa capolino qua e là – tanto per giustificare l’etichetta horror – e poi via, s’imbastisce l’ennesimo serial usa e getta per Netflix. Un abbonamento a quota fissa.

I fantasmi dicevo. Torniamo a Poe. Quando mai ci sono stati fantasmi in Poe? Poe è un razionalista e non crede nel soprannaturale: i suoi revenants tornano sempre per cause naturali, estreme ma naturali, perfino Valdemar è mantenuto in vita, con presupposti pseudoscientifici, dall’ipnosi; perfino Ligeia e Morella tornano non per magia, ma perché la loro volontà sovrumana è più forte della morte. Poe, come Henry James, come Shirley Jackson, come tutti i più grandi autori fantastici, è un maestro dell’ambiguità: è il dubbio, l’incertezza tra naturale e sovrannaturale, tra ragione e follia, tra visione e allucinazione, la spettralità di un paesaggio interiore rivelato all’esterno, di un’identità insediata dal suo doppio, che ci inquietano davvero: l’accettazione pedissequa dell’esistenza dei fantasmi invece è banale quanto lo spiegone rassicurante alla Scooby-Doo. Si confronti l’Hill House della Jackson con l’Hell House di Matheson, fantasma possibile contro fantasma certo: quale dei due fa più paura? Io non ho dubbi. Flanagan insulta Poe (e Jackson, e James) anche in questo: nessuna ambiguità, i fantasmi ci sono. Punto. In Usher il deus ex machina è addirittura una sorta di Nemesi, l’inafferrabile Verna, un po’ donna e un po’ corvo (così che Roderick possa straziare grossolanamente qualche verso sparso da The Raven come, qualche puntata prima, aveva fatto con Annabel Lee), un po’ diavolo e un po’ fantasma, che innesca e conduce la trama proponendo un patto faustiano ai giovani predatori Usher: l’impunità per il delitto appena commesso (hanno sepolto vivo Rufus Griswold, proprietario della Fortunato Ltd. in una scena ripresa pari pari dalla storia a fumetti, Una botte di vino pregiato!, da Zio Tibia o Creepy, che dir si voglia), il passaggio di proprietà dell’azienda a loro e la conseguente fortuna economica, in cambio della morte prematura di tutti i futuri, numerosi figli e, subito dopo, quella contemporanea dei due fratelli, ma tutto questo avverrà dopo molti anni di lussi e gozzoviglie: Roderick e Madeline accettano e Verna, immune ai limiti del tempo e dello spazio, ricomparirà, decenni dopo, a sterminare di puntata in puntata i pestiferi rampolli. Tutto qui. Niente di più desolatamente trito.

Chiudiamo sconsolati con una segreta speranza, che dal remoto iperuranio in cui certamente risiede, Edgar invii un corvo, incarnazione di Nemesi, a beccare il sedere di Flanagan, finchè lo sconfortante cineasta non si deciderà a smettere di contaminare i capolavori della narrativa fantastica con le sue triviali sciocchezze. Che se ne tenga lontano: come io, da ora in poi e questa volta per davvero, mi terrò lontano dai suoi film.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tagged with →