di Francesco Festa

Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00

Il concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.

Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro di cristallina chiarezza e di agile lettura mai a scapito della densità, a un certo punto della sua ricostruzione di un lungo percorso – apertosi con le rivolte genovesi del 30 giugno 1960 contro il congresso del MSI – si interroga sul cambio di paradigma nella ricerca storica a cavallo dei due secoli: l’oggetto della ricerca non è più la “realtà storica” e, simmetricamente, si impone un registro ermeneutico e linguistico che fa leva sull’accezione di memoria in luogo del concetto di storia: entrambi sintomi dell’impossibilità di incidere sulla realtà, cioè, sul presente quale matrice del “pensiero storico”.

Quando noi parliamo di crisi o di eclissi della storia militante – scrive Fontegher Bologna – non ci riferiamo soltanto alla fine dell’etica della partecipazione ai movimenti sociali contemporanei, né soltanto alla ‘crisi della politica’ e al progressivo ritirarsi nel privato, né alla ricerca di nuove strade diverse dalla labour history, ci riferiamo a un modo di ragionare e di discutere tra storici che esclude, cancella, il presente, nella storia militante il presente era la fonte delle domande che lo storico si pone all’inizio della ricerca. Il combinato disposto della diffusione del termine “memoria” e della concezione della storiografia come narrative come forma di creazione letteraria, portano alla cancellazione del presente come fonte del pensiero storico. (p. 142)

In poche righe è racchiuso pregnantemente il senso del discorso di Sergio Fontegher Bologna (che per la prima volta si firma anche con il cognome della madre), autore di Tre lezioni sulla storia, con la presentazione di Vittorio Morfino. La sua biografia è fondamentale per chi voglia coltivare un punto di vista di parte nello studio della historia rerum gestarum. “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Quaderni piacentini” sono alcune delle riviste collettive alle quali ha partecipato.

Alcune sue opere sono intramontabili nello studio del movimento operaio internazionale, quali Nazismo e classe operaia 1933-1993, per dedicarsi allo studio delle molteplici figure del precariato, fra cui, non da ultimi i freelance.

Questo libro raccoglie tre lezioni tenute presso la Casa della Cultura di Milano nel febbraio del 2022 e ripercorrono proprio la sua biografia: non mancano tratti e frammenti di vita emozionanti, vividi, di un tempo ormai lontano, in cui la classe lavoratrice, le donne e gli uomini in carne e ossa, riuscivano a dettare il corso della storia. Le tre lezioni, dopo una veloce carrellata sugli anni Sessanta, si concentrano sugli anni Settanta, su quella “grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale” – com’ebbero a scriverne, Nanni Balestrini e Primo Moroni – per poi attraversare i vent’anni a seguire, giungere a Genova 2001 e al decennio successivo.

Quel decennio coincide per il nostro autore con l’esperienza della rivista “Primo Maggio”, nata in un anno cruciale, il 1973, ed editata fino al 1989. Un consiglio, prima di imbatterci nella rivista: a corredo di questo libro, vale la pena di affiancare la lettura della raccolta curata da Cesare Bermani, La rivista “Primo Maggio” (1973-1989) (DeriveApprodi, Roma, 2010), con tutti i numeri della rivista in Dvd; e il saggio di Damiano Palano, Nel cervello della crisi. La “storia militante” di Sergio Bologna tra passato e presente (“tysm literary review”, 6, 9, 2013).

“Primo Maggio”, dunque, è stata una rivista illuminante per la sinistra di classe. È stata una scuola di formazione e un laboratorio dove gli arnesi dell’operaismo italiano sono stati adoperati per osservare, indagare e narrare non la fabbrica fordista, bensì la sua trasformazione, anticipandone la polverizzazione nelle filiere territoriali con l’affermazione di quella che è stata poi chiamata dalla sociologia accademica “terza Italia”: l’Italia delle fabbrichette e delle famiglie prima contadine, poi operaie e infine piccole imprenditrici; e, mutatis mutandis, la trasformazione dell’operaio massa in operaio sociale e imprenditore di sé stesso. “Primo Maggio” ha studiato anzitempo le soggettività, la cultura e il territorio che andavano modellandosi sui primi segni del neoliberismo, affrontando con intuito argomenti complessi come la gestione capitalistica della moneta, l’emergere di nuove figure sociali, la trasmissione della memoria, l’avvento della logistica. Con collaborazioni internazionali, ha riscoperto pagine straordinarie di storia del proletariato migrante, ricostruendo immaginari e modelli di comportamento e offrendo una diversa rappresentazione dell’America. Sergio Bologna l’ha fondata e diretta fino al 1981, succeduto poi da Cesare Bermani e Bruno Cartosio. Mentre Primo Moroni, libraio della Calusca di Milano e inventore di un modo nuovo di fare cultura, ne è stato l’editore.

“Primo Maggio” è stata soprattutto una “Rivista di storia militante”, come recita la sua dizione. E “storia militante” voleva dire

una storia strettamente intrecciata con i movimenti sociali di quel tempo scritta per i movimenti sociali, scritta con i movimenti sociali e in particolare con le figure più rappresentative, scritta con gli operai e i tecnici. (p. 63)

Ecco la matrice operaista: per un verso, la scrittura quale esito di intervento collettivo (“conricerca”); e per un altro, il punto di vista di parte e la posizione in cui si situa il motore della storia, vale a dire, la classe lavoratrice o, per dirla con Gramsci, i “gruppi sociali subalterni”. Metodologicamente: storia militante voleva dire ricerca nel passato, scavare nei modelli di accumulazione capitalistici e nella sua composizione di classe, per individuare gli “obiettivi di lotta, le parole d’ordine e le forme organizzative” da tradurre in “lotta politica”. Questi strumenti diventano così “categorie di interpretazione del passato e, viceversa, la storia passata del movimento operaio diventa modello per la tattica di oggi”. Per intenderci, tale approccio storico è alla base delle ricerche del keynesismo e del capitalismo di Stato in Italia, costruito tanto dalla Dc quanto dal Pci nel dopoguerra, e sintetizzato nella formula “Stato-piano”, tramite lo studio degli anni Venti e Trenta negli Stati Uniti, i cui esiti sono nel volume collettaneo di “Materiali marxisti” (collana a cura di Sergio Bologna e Toni Negri), Operai e Stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal (Feltrinelli, Milano 1972). E conclude il nostro autore:

una rivista di storiografia militante non solo sceglie i temi entro periodi ben definiti della lotta di classe, ma scopre in quelli un filo conduttore che li porta immediatamente ai problemi del presente. (p. 63)

Prima di trattare di “Primo Maggio”, Fontegher Bologna individua i luoghi e i nomi che hanno strutturato il modo di fare storia militante. Due paesi, in particolare, corrispondono anche ai contatti intrattenuti negli anni e agli ambiti formativi, l’Italia e la Germania. E tre libri o meglio tre officine del pensiero: i Quaderni del carcere di Gramsci, Sul concetto di storia di Walter Benjiamin e Apologia della storia o Mestiere di storico di Marc Bloch. Sono questi i capisaldi da cui muovere i passi per chi voglia fare storia o riempire il tempo dell’adesso, incarnarlo attraverso quei soggetti che scrivono la storia e sono il motore del progresso, che camminano contrariamente al tempo “omogeneo e vuoto” costruito dal capitale.

Il fare storia militante significa anche utilizzare differenti registri metodologici, e nel libro sono analizzati la storia orale così come la public history – in Italia sostenuta dalla breve eppur prolifica vita di Nicola Gallerano – oppure dalla microstoria e dalla labour history. Mentre, i luoghi e le istituzioni dal basso che hanno funto da laboratori di formazione sono stati in Germania, la Fondazione per la storia sociale del XX e del XXI secolo di Brema, il cui ideatore è stato Karl Heinz Roth, autore del seminale lavoro del 1976, L’altro movimento operaio: storia della repressione capitalistica in Germania del 1880 a oggi; e in Italia, la libreria Calusca, prima, e poi, la LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland “Franco Fortini”). La LUMHI, su cui si sofferma ampiamente il nostro autore, è stata anche un osservatorio straordinario e lungimirante delle trasformazioni del lavoro, una ricerca fra le tante, anch’essa, seminale nella bibliografia dei movimenti sociali e della composizione di classe è Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, curato da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli. Venuta via via meno la centralità dell’osservazione del lavoro, in primis salariato, sono avanzate le posizioni revisionistiche in campo storico e storiografico. La tesi sostenuta dall’autore – assai convincente anche dal punto di vista politico delle lotte sociali è che, venuta meno la centralità delle lotte lavorative, con una parabola discendente i cui primi segnali furono ravvisabili nella “sconfitta alla Fiat” del 1980, anche la storia militante, sia a causa dei rapporti di forza politici, sia a causa della scarsità di risorse economiche, è andata ritirandosi. Restano un’eccezione le pochissime tesi di laurea e dottorali che riescono a trovare fondi ed essere pubblicate e ad uscire dall’anonimato degli ambiti specialistici.

Tuttavia, nel dopo Genova 2001, vi è stato un quinquennio di ripresa dell’intervento nel mondo del lavoro precario. L’autore ricostruisce stenograficamente il percorso della May Day: movimento composto da figure lavorative precarie che hanno organizzato in occasione del primo maggio, ma con modi di partecipazione e di lotta distribuite in tutto l’anno, cortei partecipatissimi il cui scopo, fra gli altri, era dare visibilità agli invisibili dei diritti del lavoro, ossia ai lavoratori di seconda e terza generazione, e al contempo una visibilità a piattaforme e programmi fino ad allora completamente ignorati dall’agenda politica della sinistra istituzionale e dei sindacati. I cortei a mo’ di street parade erano veicoli di messaggi dai tratti straordinariamente comunicativi e creativi, ricalcando di fatto la vita funambolicamente precaria delle molteplici figure lavorative che si rappresentavano in piazza. Quel movimento nacque, infatti, da alcune figure del mercato del lavoro, sotto la categoria di Chain Workers (lavoratori delle catene commerciali), in realtà, un eufemismo, poiché molte, ma molte di più erano le soggettività della May Day. Da Milano si estese in numerose metropoli italiane ed europee. Quelli sono anche gli anni di una ripresa degli studi di “storia militante”, gli anni della nascita dell’associazione Storie in movimento e del suo appello “per la creazione di una rivista” volta allo “studio dei movimenti e dei conflitti sociali”, conducendo, nel 2003, alla rivista quadrimestrale “Zapruder: rivista di storia della conflittualità sociale”.

Di contro, gli anni successivi al 2001, al movimento no global, sono stati anni di inarrestabile decadenza dell’intervento politico delle lotte sociali, con tentativi talvolta esiziali, talaltra minoritari se non sempre più inconsistenti. Certo, la repressione ha prima ucciso Carlo Giuliani e massacrato con metodi cileni nelle piazze genovesi; poi, ha operato nelle preture e nei tribunali e infine ha prosciugato l’acqua da cui attingeva il consenso quel movimento, che seppur con tante ambivalenze era egemone nell’opinione pubblica: muoveva il senso comune. Dopo, con alcune eccezioni di lotte territoriali e lotte studentesche, anche se episodiche o sintomatiche, la lenta discesa nell’anonimato delle lotte delle sociali e, in particolare, delle classi lavoratrici è stata direttamente proporzionale alla scarsità di risorse e progetti a disposizione della storia militante e, allo stesso modo, inversamente proporzionale al moltiplicarsi di culture, partiti, gruppi, stampa ed editoria revisionisti. E sono divenuti maggioritari, così, nel rileggere la storia del XX secolo, anche intellettuali moderati o affettivamente in sintonia con una idealizzata sinistra laburista o socialdemocratica, hanno prodotto discorsi impregnati di categorie astratte – quali libertà, buon senso, fare, famiglia, ecc. – e conditi da paranoia e paura, che hanno riabilitano nel senso comune, grazie a risorse economiche e comunicative spropositate, linguaggi e paradigmi profondamente fascisti, dai modelli unitari, totalizzanti e gerarchici. Ipso facto: la storia è stata riletta. Il che ha riguardato, la storia della resistenza, prim’ancora, del Risorgimento, per non parlare degli anni Settanta e della storia ormai riabilitata per le formazioni neofasciste i cui esponenti sono addirittura al governo in questo paese. La realtà storica ci dice che tali discorsi hanno una grossa presa sul senso comune, largamente maggioritari nelle vendite di libri e giornali. Mentre, da questa parte, dalla nostra parte, passano dinanzi agli occhi gli oceanici cortei del “movimento dei movimenti”. Cioè: di una ventina di anni fa. Forse, vale la pena di prendere contezza e rimettere mano alla lotta di classe, anche in campo storico. Ché, se è vero, come disse l’“oracolo di Obama”, il multimiliardario Warren Buffet: “la lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. È pur vero, però, che non è finita.