di Sandro Moiso


Jean Giono, Il disastro di Pavia. 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia, Edizioni Settecolori, Milano 2023, pp. 356, 25 euro

Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l’arme è senza onore;
[…] Per te son giti ed anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
[…] mai furo al mondo ingegni empi e maligni,
ch’imaginò sì abominosi ordigni.
(Ludovico Ariosto – Orlando furioso, canto XI)

La prima edizione del poema ariostesco, contenente quaranta canti, apparve a Ferrara il 22 aprile 1516. La seconda edizione fu pubblicata ancora a Ferrara il 13 febbraio 1521. Una terza edizione fu pubblicata, sempre a Ferrara, il 1º ottobre 1532. Ariosto aveva rielaborato il testo in maniera più ampia e il poema venne quindi portato a quarantasei canti, modificandone suddivisione e architettura. Ed è in quella che compaiono molti riferimenti alla storia contemporanea, con numerosi accenni alla grave crisi politica italiana del Cinquecento, di cui la battaglia di Pavia, con tutte le sue conseguenze militari e politiche, fu una delle maggiori espressioni.

La battaglia di Pavia fu combattuta il 24 febbraio 1525 durante la guerra d’Italia tra l’esercito francese guidato personalmente dal Francesco I e l’armata imperiale di Carlo V e si concluse con la netta vittoria dell’esercito dell’imperatore, mentre lo stesso re francese fu fatto prigioniero dagli imperiali. La battaglia segnò un momento decisivo delle guerre per il predominio in Italia e affermò la temporanea supremazia di Carlo V.

La battaglia segnò anche un momento di passaggio nelle strategie militari che, da allora, sarebbero poi state caratterizzate dal largo utilizzo delle armi da fuoco; nonché di importante mutamento nella composizione delle truppe, che avrebbe previsto una distribuzione più omogenea della fanteria, della cavalleria come dell’artiglieria. Così, se durante il Medioevo la cavalleria pesante aveva costituito l’ossatura degli eserciti, tra il XIII e il XVI secolo questa disposizione cambiò definitivamente.

A questo epocale cambiamento di tecniche e ruoli faceva riferimento l’Ariosto nei suoi versi, all’interno di un poema epico che, fingendo di elogiare ancora le virtù di coraggio ed eroismo di una cavalleria aristocratica già in via di estinzione, in realtà, proprio attraverso la follia di Orlando, denunciava, non solo ironicamente, la brutalità di una classe signorile che avendo fatto della guerra il suo unico metro di giudizio del valore della vita umana aveva finito col soccombere proprio a causa di questa.

A riprova di ciò è utile qui ricordare che già nel secolo precedente la”guerra delle due rose” (nota in inglese come Wars of the Roses)1, una feroce lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 e il 1485 tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti, aveva provocato l’estinzione delle linee maschili di entrambi i casati dei Lancaste e degli York e si era conclusa con l’affermazione di una nuova dinastia, quella dei Tudor.

Piaccia o meno ai pacifisti “puri” e ai perbenisti odierni, la guerra con le sue cause e conseguenze, lo sviluppo delle sue tecniche e della sue strategie è sempre stato un elemento essenziale dei cambiamenti epocali, sia di carattere sociale che politico ed economico, compresi quelli indotto dalla lotta tra le classi nella storia e che spesso ha assunto le caratteristiche della vera e propria guerra combattuta.

Per questo motivo qualsiasi discorso sulla guerra è talmente serio da non poter esser lasciato nelle mani degli incompetenti, dei fanatici o dei timorosi, tutti egualmente incapaci di trattare l’argomento, con tutti i suoi corollari, in maniera credibile e utile. Sia che si tratti di saggi oppure di romanzi o, ancora come in questo caso, di romanzi-saggi e saggi-romanzati. Tra coloro che ne possono talvolta parlare in maniere realistica vi sono, innanzi tutto, i militari, gli ex- combattenti oppure gli antimilitaristi. Proprio come nel caso del libro pubblicato dalle Edizioni Settecolori. Il cui l’autore è stato sia ex-combattente che pacifista anti-militarista.

Jean Giono nacque a Manosque, il 30 marzo 1895 in una famiglia modesta. Suo padre, Jean-Antoine Giono, era un ciabattino, libertario, autodidatta. Nel 1911 Giono lasciò il collegio, per lavorare e contribuire alla vita della famiglia. Nel 1916, partecipò alla Prima guerra mondiale, nelle battaglie di Verdun, del Chemin des Dames e del Monte Kemmel dove fu leggermente ferito agli occhi. Scoprendo così l’orrore della guerra e i suoi massacri: uno shock che lo avrebbe segnato per il resto della vita.

Al ritorno dalla guerra riprese l’attività lavorativa precedente e iniziò a scrivere instancabilmente, riscontrando un discreto successo di pubblico e critica. Nel 1931 pubblicò Le grand troupeau (Il grande gregge) che raccontava l’esperienza della guerra. L’idea di gregge rinviava allo stesso tempo alla truppa militare e al gregge di pecore, messi in parallelo nel libro. Negli anni successivi, durante i quali si tornò a sentire la minaccia di una guerra, Jean Giono iniziò ad agire e a impegnarsi. Partecipò a riunioni a favore della pace, quindi aderì all’Associazione autori ed artisti rivoluzionari, vicino ai comunisti. Benché uomo di sinistra, a tendenza libertaria e anarcoide, Giono rimase soprattutto pacifista. L’evoluzione dei comunisti a favore del riarmo, però, lo avrebbe allontanato da loro nel 1935.

All’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale, Giono sviluppò sempre di più nei suoi testi, sia narrativi che di saggistica, argomenti a favore della natura e contro la guerra e le dittature. Tra questi occorre qui segnalare almeno: Refus d’obeissance (Disobbedienza) e Lettre aux paysans sur la pauvreté et la paix (Lettera ai contadini sulla povertà e la pace)2. In questi anni la posizione dell’autore francese fu intransigente: né guerra, né fascismo, né comunismo. Si impegnò a rifiutare di obbedire in caso di conflitto. Tuttavia, quando venne chiamato, rispose all’appello. Una famiglia da mantenere ed un’opera da terminare ebbero un peso maggiore della sua coscienza. Giono fu però lo stesso incarcerato per pacifismo per due mesi.

«Pa-pà è in prigione! Pa-pà è in prigione!» ripeteva ballando la figlia più piccola di Jean Giono, entusiasta della nuova avventura del padre. A mandarlo dietro le sbarre, nel settembre 1939, era stato un volantino anonimo che riportava alcune sue frasi contro la guerra. A quarantacinque anni Giono si era visto accusare di un’improbabile serie di reati, ma soprattutto di quello, innegabile, di pacifismo. […] Gentile e cordiale, aveva fatto amicizia con ogni tipo di criminale: «I più simpatici erano gli assassini». Quando l’11 novembre era finalmente uscito, aveva capito che doveva rinunciare a qualsiasi intervento nella vita politica: se voleva sopravvivere, doveva fare soltanto lo scrittore.
Nella torbida atmosfera dell’epurazione seguita alla vittoria degli Alleati, le invidie dei colleghi per la sua popolarità si erano scatenate contro di lui. Giono, che aveva nascosto e ospitato ebrei, resistenti e comunisti, era venuto a sapere chedegli esponenti della Resistenza chiedevano a gran voce il suo arresto o perfino la sua fucilazione. Era stato accusato a torto di aver scritto articoli filotedeschi e di essersi schierato a favore dei nazisti e dei collaborazionisti. In realtà Giono, come molti altri colleghi, da Colette a Cocteau, aveva pubblicato pochi pezzi esclusivamente letterari su giornali collaborazionisti ed era rimasto ben lontano dall’estrema destra legata ai tedeschi3.

Si sarebbe parlato meno invece dello spirito di resistenza che aveva ispirato Le voyage en calche, proibito dalla censura tedesca. Ma, intanto, il Comitato nazionale degli autori l’aveva iscritto nel suo elenco nero.

Giono sapeva che l’avrebbero arrestato. Quando la figlia lo aveva scongiurato di scappare, aveva risposto gentilmente: «Figlia mia, dove vuoi che vada? Vuoi che mi metta a correre? Che vada a nascondermi dietro un albero? Vuoi davvero vedermi fare così? Vogliono arrestarmi, mi arrestino pure. Non sarà la prima volta. Nell’attesa, ho ancora un po’ di tempo per lavorare. Chiudimi la porta!».
Alla fine lo scrittore era stato liberato con l’obbligo di risiedere lontano da casa e l’interdizione di pubblicare e di avere un conto in banca: la miseria, ma anche la libertà. «Dopo il 1945 gli scrittori mentono per mettersi in buona luce con individui che si sono dichiarati gli unici difensori della fede» avrebbe detto, ricordando le innumerevoli conversioni degli opportunisti cheavevano segnato quel burrascoso periodo. Intanto in lui si era operata una trasformazione definitiva; l’uomo che per la seconda volta era stato ingiustamente imprigionato non era più quello di prima4.

Alla fine della guerra, Giono era un uomo disilluso, vittima dell’ostracismo dell’intellighenzia dell’editoria francese, condivisa con autori come Céline (incarcerato) e Simenon (costretto all’esilio preventivo negli U.S.A.). Era evidente che nella Resistenza sia i comunisti che i gollisti non avevano apprezzato le posizioni antimilitariste di Giono. Così alla svolta avventuroso-romantica dei suoi romanzi e scritti, avvenuta dopo quella “lezione”, appartiene Il disastro di Pavia (1963),

Per l’autore non c’erano dubbi: «La storia ha senso solo retrospettivamente e per chi gliene vuole dare uno; ma questa volontà è solo una frivolezza di un altro tipo». A lui interessava davvero solo quella che gli storici accademici chiamavano sprezzantemente la petite histoire. Quella, e soltanto quella, era la storia e le note della descrizione dell’indescrivibile battaglia di Waterloo di Stendhal echeggiano in tutto il libro. […] Ad attrarlo non era solo la sfida di misurarsi con un tema reale, ma anche il fatto che si trattasse di una sconfitta, almeno per la Francia. Come se non bastasse, ad avvicinarlo al brillante re francese, Francesco I, c’era anche l’esperienza comune della prigionia. Ma anche l’introverso imperatore di Spagna, Carlo V, aveva qualcosa in comune con lui: la gotta5.

E’ una storia prima di tutto di ritratti quella presentata da Jean Giono, e non a caso il primo capitolo del libro si intitola proprio Ritratti, ma non solo. Sono le vicende personali, grandi e piccole di una moltitudine di cavalieri e di contadini, di soldati e di principi e imperatori; la descrizione della loro mentalità e del loro immaginario; le vicissitudini degli eserciti e delle società toccate concretamente dalla guerra a fare di Il disastro di Pavia un grande saggio storic romanzatoo, vicino non solo a La Certosa di Parma di Stendhal ma, per certi versi, al capolavoro assoluto di Lev Tolstoj: Guerra e pace.

In cui le figure dei due principali contendenti riassumono già in sé le contraddizioni e i due differenti mondi e modi di fare la guerra che sul campo di Pavia si scontrarono. Da un lato il re di Francia, esponente di un’educazione e di uno spirito “cavalleresco” che a Pavia avrebbe visto la sua definitiva sconfitta, tanto da portare alla cattura e imprigionamento dello stesso Francesco I.

Ha sei anni in più di Carlo V: in realtà è più vecchio di un secolo. Paragonato all’imperatore borghese è un re proletario, cioè un re che lavora, di persona […] è un perfetto «eroe per donne».
[…] Francesco è alto due metri, e i filtri d’adorazione nei quali è stato immerso hanno reso questa statura deliziosa. Possiede la seduzione dei Rastignac, così efficace nelle capitali. […] È stato fabbricato per trascinare i cuori al suo seguito: li trascina; se ne ciba; la sua bocca è come un quarto d’albicocca nel mezzo della più bella barba del secolo, già ben fornito di barbe. […] Ma se talvolta ha l’andatura pantofolaia del professionista che va a cercare in pigiama il latte alle undici del mattino, è bello come il sole quand’è a cavallo nei tornei, nelle battaglie e nelle corse e, a ogni colpo, supera quel difficilissimo ostacolo che è il farsi benvolere dai gelosi. Luisa di Savoia può esserne fiera. E lo è: non si imita il coraggio; se ci si arrischia a farlo ci si perde quantomeno la faccia. Se seduce le donne è con l’occhio languido, ma se seduce gli uomini (e i Baiardo, i La Trémoille, i La Palice) è con il suo coraggio disinteressato,generoso, addirittura prodigo […] In lui, niente di moderno, niente che faccia presentire il moderno: appartiene totalmente alla sua epoca; è più antiborghese di Lenin6.

Un eroe romantico, dal punto di vista di Giono che, nei suoi romanzi forse più famosi e di successo, appartenenti al cosiddetto “ciclo dell’Ussaro”, delineerà come nessun altro l’eroe per sempre giovane e affascinante, coraggioso e disinteressato: Angelo, nomen omen totalizzante7. Alle sue mire si contrapponeva, invece, l’uomo che avrebbe in segui5o potuto dichiarare che sul suo impero non tramontava mai il sole: Carlo V, di tutt’altra pasta e visione del mondo e del comando.

Carlo V era un uomo dalle molte malinconie e dalla natura cupa. Fu a lungo disgraziato, in tutti i sensi del termine, fino addirittura a sembrare uno stupido[…] Era un ingordo così come si può essere un Don Giovanni. Su questo punto non si diede mai per vinto, né di fronte ai medici (ovviamente contrasse presto la gotta), né di fronte alle circostanze: durante la ritirata d’Algeri, in mezzo alle tempeste e alle urla dei turchi, affondava i denti in salsicce di bottarga. Tuttavia, non possedeva né un animo né un cuore sprezzanti del pericolo.[…] È meglio immaginarsi Carlo V come un piccolo borghese. […] Il borghese è un uomo che lavora per interposta persona e che, godendo di tutti i profitti del lavoro, senza tuttavia aver contribuito allo sforzo che li ha prodotti, usufruisce del piacere di vivere in un mondo negativo, talvolta anche di costruirlo e d’imporne le leggi8.

Lo scrittore francese continua poi ancora con queste osservazioni:

È un borghese in un mondo cavalleresco. In questo sta la sua debolezza: non ha un arsenale borghese da cui attingere armi borghesi, ed è obbligato a fabbricarsi la propria artiglieria finanziaria con quello che ha a disposizione; e sta in questo la sua forza: disorienterà sempre il povero cavaliere che, brandendo la sua spada, si aspetta che gli altri lo affrontino allo stesso modo; lo disorienterà con un prestito d’Anversa al 16 d’interesse (tradotto: al 6,25%, mentre i prestiti dei mercanti oscillano tra il 12 e il 15%). […] I suoi contemporanei (e i suoi avversari) si rivestono di ferro, montano a cavallo, si servono dei soldi per vivere; lui si veste con abiti di lana, si siede in poltrona e si serve della vita per guadagnare. Non ha un conto personale; si fa rappresentare da città: Anversa, Douai, eccetera, o da società di mercanti: Genova. Non risana province o situazioni malsane (quello che tutti i re, conti, duchi e baroni della sua epoca fanno molto bene con daghe, cavalleria e furia francese); risana invece il suo debito fluttuante, le sue rendite, i suoi prestiti a usura e i suoi prestiti a fondo perduto; non compie sforzi per respingere i nemici, ma per rinviare scadenze inquietanti. Nel 1515, mentre Francesco I si fregia il cappello col fiore di Marignano, lui realizza dei «consolidamenti successivi» della cifra di ottantamila lire9. Le vittorie riportate sono le vittorie dell’intelligenza delle cose, del senso politico, dell’arte di governare, del coraggio fisico; solo che, se si menzionano queste virtù quando lo si vuole ritrarre, si corre il rischio di dipingere non un uomo (e nemmeno un principe), ma una specie di consiglio di amministrazione10.

Anche se Carlo V metterà insieme il primo grande impero non solo di carattere europeo e mondiale allo stesso tempo, la sua non costituisce la vittoria di un imperatore del passato, ma del capitalismo sugli arcaismi della società aristocratica e nobiliare. Non per nulla la Chiesa lo osteggerà in qualche modo, come già aveva fatto trecento anni prima con Federico II di Svevia.

Occupa la scena nel momento in cui il capitalismo insabbia gli ingranaggi della Chiesa e dello Stato. È l’inizio dei monopoli: miniere, ferro, navi vengono mossi, manovrati e frugati dalle banche. […] L’oro delle Indie Occidentali prende il largo in direzione delle Indie Orientali, sulle vie dell’ambra, della seta, del muschio, solo di passaggio in Spagna, in Francia, in Italia11

E’ la prima globalizzazione e la sua arma segreta sono le banche dei Fugger e i loro affari, che si ingrandiscono insieme a quelli dell’Impero12. Anche se all’orizzonte, ancora non colto in tutta la sua futura grandezza, già si manifesta, a partire dall’estate della vittoria di Pavia, il futuro irriducibile avversario del capitale e dei suoi funzionari (imperatori, banchieri, signori o altri che siano): il proletariato con le sue rivolte e le guerre contadine in terra di Germania.

Questo è ciò che si delinea a partire dal campo di battaglia sanguinoso e crudele di Pavia, dove l’innovazione tecnologica (l’arma da fuoco, l’archibugio) trionfa sul valore. In un mondo in cui la guerra per un aristocratico o per un re come Francsco I costituiva ancora uno dei piaceri della vita, insieme alla caccia e all’amore (più o meno galante).

Nel XX secolo, noi vediamo la guerra dal punto di vista di chi ha l’obbligo del servizio militare […] Nove volte su dieci, quando la facciamo in prima persona è per costrizione e per forza, con ordine e nei ranghi. Gli eserciti moderni hanno bisogno di disciplina. Ma, nel XVI secolo, fanno la guerra solo quelli che la vogliono fare, quelli che sono contenti di farla, quelli che la fanno per piacere. La pace li fa star male. A maggior ragione, i capi. […] Vedremo alla battaglia di Pavia dei capitani (Montmorency soprattutto) e anche dei soldati lamentarsi di occupare dei posti lontani dalla mischia e «disertare in avanti» per prendervi parte, malgrado gli ordini. Siamo lontani dalla mobilitazione generale. Mentre a Pavia ci si batte, in Francia, in Italia, in Spagna, i lavoratori lavorano, i calzolai fabbricano delle scarpe, i fabbri forgiano, eccetera, i contadini, gli artigiani, i commercianti se ne stanno a casa loro, nelle loro pantofole e continuano a fare i contadini, a fare gli artigiani e a commerciare. La guerra è un mestiere da signori […] come anche l’amore e la caccia. È il divertimento di quelli che non hanno un altro modo per divertirsi13.

Per Francesco I era normale affermare:

«Vinceremo perché siamo i più belli». La Francia non può essere sconfitta perché è la Francia. Il re è coraggioso: perché vorreste che lui non si battesse? Carlo VIII ha vinto al Taro, Luigi XII ad Agnadello, Francesco a Marignano: non c’è che da continuare. Niente di meglio che avere un re in battaglia: «È come all’écarté14: bisogna per forza vincere e, allora, andiamo!». È idiota, ma elegante, e allora si va, sfortunatamente15.

C’è qualcosa che aiuta a capire certe convinzioni di Macron, ma anche di De Gaulle e di Napoleone III in tutto ciò, anche se i diari e le memorie dei borghesi dell’epoca «non viene detto che questi uomini sono stati uccisi, si dice invece che sono stati incoronati dalla morte»16.

Quanto agli operai di queste imprese guerriere, loro non hanno niente da difendere a parte la loro pelle, anche se, conquistati dall’esempio che viene dall’alto, spesso la tengono in poco conto. Non hanno problemi di coscienza: già da tempo la miseria gli ha trasmesso la certezza della loro esistenza. Tuttavia, siccome nello stabilimento che hanno scelto hanno talvolta l’occasione di riempirsi le tasche, questa pesantezza pecuniaria gli permette di apprezzare la bellezza di una manovra. Ovviamente sono tutti dei mercenari, ma sembra che abbiano aperto bottega all’insegna della loro provincia o del loro paese; sono i nomi di Piccardia, di Guascogna, della Svizzera, dell’Aragona o di Castiglia che vengono gridati in combattimento e se il manipolo di piccardi o d’aragonesi ha vinto nel suo angolino, il resto della battaglia non li interessa più di tanto, e se il loro campo alla fine è vinto, per loro è vinto, ma… È raro che il loro orgoglio naturale soffra di una sconfitta. Quello che li distingue al di sopra di tutto è una totale assenza d’anima. Vengono pagati per fare un lavoro: lo fanno finché li pagano. Se i soldi non arrivano più, non lavorano più, fossero pure in piena battaglia; ugualmente, e sempre in piena battaglia, talvolta reclamano un aumento di stipendio e, se gli viene rifiutato o se si è costretti a rifiutarglielo, sono pronti a disertare in massa e in ordine, o addirittura a passare nell’ac-campamento nemico. Se si promette e poi non si mantiene, si ribellano violentemente, sino a fare degli ostaggi tra i loro stessi ufficiali, o anche tra i duchi, addirittura tra i principi che molesteranno e non consegneranno che al mantenimento delle promesse, aumentate con nuove esigenze17.

Stranamente sono proprio loro a portare in campo un parte del futuro, come la Wagner e le guerre degli ultimi decenni condotte dai contractor americani insegnano. La guerra degli eroi, ammesso che sia mai esistita per i poveracci, è finita da tempo. Come ci insegna anche Franco Cardini nel suo saggio posto al termine del testo di Giono.

In realtà, l’agonia degli eredi di Rolando e di Lancillotto era cominciata prima: se ne vedono le avvisaglie già sulla piana di Campaldino nel 1289, quando tra i «feditori», i combattenti a cavallo dell’armata fiorentina, c’era anche il giovane Dante Alighieri. Quando nella mischia che veniva dietro al primo urto della battaglia i cavalieri si trovavano accerchiati dai fanti, facevano la fine di povere aragoste chiuse nel loro carapace: ammazzati sotto di loro i nobilissimi destrieri che li avevano fedelmente serviti, e disarcionati, venivano fatti a pezzi dai borghesacci e dai rozzi artigiani dei comuni cittadini, gentaglia vile ch’era stata armata a forza ma che sul campo cominciava a delineare quella che sarebbe stata la fanteria, «regina delle battaglia». Così a Courtrai in Fiandra nel 1302, la «battaglia delli speroni», perché dopo la mischia quei nobili aurei ornamenti dei talloni cavallereschi erano divenuti bottino di guerra di quella marmaglia appiedata; e così di rovescio in rovescio, da Poitiers nel 1356 ad Azincourt nel 1415 fino a Mantova nel 1526, dove morì dopo un’agonia atroce l’eroe di casa Medici, il «signore della guerra» Giovanni delle Bande Nere. Ma a quel punto il Fiore della Cavalleria era già stato reciso.
Era caduto sotto i colpi della storia e del progresso, dalla balestra alla picca e, soprattutto, all’archibugio e alla bombarda. [..] Ma quei maladetti, abominosi ordigni sarebbero stati da allora in poi, per mezzo millennio e più, i nuovi Signori della Guerra. Solo il XX secolo ci ha regalato qualcosa di ancora più spaventoso: al punto che, come hanno dimostrato recentissimi eventi, sembra che ancora non si sia pervenuti a rendersi conto di quanto potrebbe aspettarci.
Fine del Fiore della Cavalleria, dunque. Ma nemmeno questo, in fondo, è vero. Perché la cavalleria, quella nobile e purissima, non è mai morta: forse perché non era nemmeno mai nata, forse perché è sempre stata moribonda… I veri grandi guerrieri – anche quando ancora la cavalleria come arte del combattere non era nata – appartengono tutti al passato, sono sempre oggetto di risplendente, ma antica leggenda: lo leggiamo già nell’Eneide, dove Virgilio si è ispirato a Omero per affermare che gli eroi di una volta, quelli capaci d’imprese meravigliose, ormai non ci sono più18.

E su queste parole e giudizi di Franco Cardini conviene chiudere la recensione di un ottimo testo, sia dal punto di vista saggistico che letterario, per chiunque sia interessato alla guerra, alla sua storia, alle sue tragedie e ai suoi, sempre falsi, miti ed eroismi.


  1. Il riferimento alle due rose nella denominazione della guerra risale al XIX secolo, dopo che Walter Scott, nel 1829, aveva pubblicato il romanzo Anna di Geierstein, facendo riferimento agli stemmi dei due casati che avrebbero recato rispettivamente una rosa di colore rosso e una bianca. Tuttavia l’unico simbolo coevo di cui si ha notizia, è la rosa bianca degli York.  

  2. Questo pamphlet, pubblicato originariamente nel 1938, è stato tradotto in Italia da M.G. Gini, nella Collana Saggi, edizioni Ponte alle Grazie, Milano 1997.  

  3. G. Scaraffia, Jean Giono e il senso della storia, introduzione a J. Giono, Il disastro di Pavia. 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia, Edizioni Settecolori, Milano 2023, pp. 7-8. 

  4. G. Scaraffia, op. cit., pp. 8-9.  

  5. Ivi, pp. 9-10.  

  6. J. Giono, op. cit., pp. 28-31  

  7. Si segnalano qui i tre principali, tutti a firma di Jean Giono: L’ussaro sul tetto (Le Hussard sur le toit, Gallimard 1951), traduzione di L. Magrini, Collezione Medusa n.449, Milano, Mondadori, 1961; Una pazza felicità (Le Bonheur fou, 1957), Collana Narratori della Fenice, Parma, Guanda, 1996; Angelo (Angelo, 1958), trad. di F. Bruno, Collana Narratori della Fenice, Milano, Guanda, 2000,  

  8. J. Giono, Il disastro di Pavia, op. cit. pp. 15-24.  

  9. La lira era l’unità monetaria francese prima della Rivoluzione – NdA.  

  10. J. Giono, op. cit., pp. 19-20.  

  11. Ivi, pp.26-27.  

  12. Cfr.: W. Winker, Fugger il ricco, Giulio Einaudi Editore, Torino 1943.  

  13. J. Giono, op.cit., pp. 36-37.  

  14. Gioco di carte in cui ogni giocatore può, se l’avversario è d’accordo, scartare le carte che non gli sono utili e riceverne delle altre [N.d.T]  

  15. J. Giono, op. cit., p. 47.  

  16. Ivi, p. 50.  

  17. Ivi, p. 109.  

  18. F. Cardini, «Oh, gran bontà de’ cavallieri antiqui». In J. Giono, op. cit., pp. 350-351.