di Stefania Consigliere

Stefano Boni, Tornare in sé. Pandemia. Per una ripresa della coscienza sociale e della resistenza attiva, Nautilus, Torino 2023

Il 9 febbraio 2020, quando il governo Conte, per la prima volta nella storia, mette in lockdown un’intera nazione, nella popolazione italiana si apre una frattura che niente, in seguito, ha davvero ricomposto. A scanso di equivoci, preciso fin da subito che qui non si parla di pandemia ma di gestione pandemica, di come i governi mondiali – e il nostro in particolare – hanno trasformato un’emergenza sanitaria in una catastrofe globale. Se oggi s’inizia a vedere che non il virus, ma le scelte politiche hanno causato i danni più estesi, all’epoca dei fatti il senno del poi non c’era e toccava navigare a vista fra paure e dubbi, affidandosi a qualcosa di assai più labile (e più cruciale) delle certezze teoriche e delle ricostruzioni storiche: le proprie sensazioni, le impressioni che ci attraversavano, le intuizioni, le perplessità.

E sono proprio le percezioni, le “strutture di sentimento” a essersi divise in due: in quel momento inaugurale e traumatico, la maggior parte della popolazione è stata attraversata da un sentimento di paura, e finanche terrore, per il virus e ha trovato credibili e adeguate le misure adottate (dal lockdown alle zone a colori, dal green pass alla vaccinazione obbligatoria). Una parte minore, ma tutt’altro che esigua, è stata invece attraversata da un’impressione di dismisura, di sproporzione fra rischi e protezioni, e si è trovata fin da subito a diffidare della versione ufficiale dei fatti e a temere le scelte del governo ben più del virus stesso. Altre ferite hanno poi ulteriormente dilaniato il corpo sociale (l’uso delle mascherine, il green pass, la vaccinazione), aggravando la scissione iniziale e aprendone altre.

Come e perché alcuni abbiano aderito a una parte e altri siano scivolati dall’altra resta uno dei fatti più misteriosi a cui mi sia capitato di assistere. La frattura ha spaccato famiglie, amici, amanti, partiti, militanze, associazioni, classi sociali, circoli parrocchiali. Ogni forma immaginabile di associazione fra umani è stata sottoposta a torsione e quasi tutte ne sono uscite frantumate. Forse perché deboli in partenza? forse perché abbiamo a lungo creduto di essere tutti d’accordo almeno sulle cose fondamentali? forse perché la violenza psichica applicata da governi e grande industria era immane? Una risposta convincente ancora non s’è trovata, ma la strage delle coscienze chiamata in causa da uno dei più rigorosi analisti dell’epoca è un’eccellente descrizione di quanto accaduto.

Anche in questo caso, però, bisogna distinguere: sentire il mondo altrimenti non significa automaticamente essere discriminati. Perché la macchina della criminalizzazione si metta in moto, occorre uno sforzo coordinato e continuativo da parte di gruppi di pressione e autorità – esattamente quello che si è verificato in Italia (e non solo) fra il 2020 e il 2022, con le campagne d’odio lanciate a più riprese dai governi e dai mezzi di comunicazione che, per riprendere Luciano Parinetto, hanno letteralmente streghizzato non solo chi non aderiva al nuovo teatro sociale (mascherine, distanziamento, vaccinazione ecc.), ma anche chiunque esprimesse perplessità: come in guerra, ogni dubbio era già tradimento e si è arrivati finanche a menzionare la “fucilazione in piazza”. (Vale pena notare, di passaggio, che le campagne di streghizzazione dei renitenti all’ordine bianco sono uno dei mezzi con cui l’Occidente coloniale ha imposto la propria regola – o, per meglio dire, il proprio inferno – alle popolazioni colonizzate; e già che ci siamo, aggiungo anche che tutti gli strumenti di “salute pubblica” utilizzati nel periodo pandemico sono stati a lungo sperimentati, con esiti atroci, nelle colonie.)

Quanti sono quelli che, nella primavera del 2020, hanno scoperto di sentire il mondo in modo diverso da quello prescritto? E quanti l’hanno scoperto più tardi, col trascorrere dei mesi, delle misure di contenimento, dei discorsi pubblici, delle polarizzazioni? Il computo non è semplice. Chi ha frequentato, o ha fatto parte di, questa popolazione può dirne almeno due cose: è più ampia di quel che sembrerebbe; e non sembra esserci alcuna caratteristica sociologica, politica, economica o culturale che la unisca in modo univoco. Questa balzana classe non sociologica, la “classe che non è una classe” di quelli che durante la pandemia hanno sentito il mondo altrimenti, è uno dei fenomeni sociologici e antropologici più interessanti da conoscere.

È quanto fa Stefano Boni in questo volume, intervistando in profondità un gruppo di persone unite dapprima dalla percezione che, nella gestione pandemica, qualcosa non tornasse e poi dall’attivismo resistenziale in epoca di restrizioni. Alle spalle del testo c’è un’etnografia partecipata, come nella miglior tradizione della ricerca antropologica: un osservar facendo – o, se si vuole, un domandare camminando – capace di scavare al di sotto dei fenomeni, di ciò che appare a prima vista, alla ricerca della struttura che connette.
Nell’arco di sette capitoli, l’autore esplora alcuni degli elementi che uniscono questa stramba popolazione: dal sospetto verso la televisione alle scelte terapeutiche, dalla ripresa dell’organizzazione orizzontale alla ricerca di una certa coerenza fra principi e pratiche. A volte questi elementi di inquietudine, e di critica del presente, erano già attivi prima dell’affare covid e hanno orientato fin da subito lo sguardo sugli eventi; altre volte, a fronte della dismisura pandemica, l’emergere di un diverso e imprevisto sentimento del presente ha reso necessario sviluppare rapidamente uno sguardo critico. In ogni caso, questi soggetti si sono messi in fuga da una macchina organizzativa che tutti quanti, fin dai primi anni di vita, siamo addestrati a pensare come benevola e che di colpo ha rivelato il suo lato nascosto, l’enorme violenza necessaria al suo incedere.

I renitenti alla gestione pandemica troveranno in questo libro un racconto, e una possibile sistematizzazione, di ciò che, in questi anni, hanno attraversato. Gli altri – almeno quelli che, col calare della pressione sociale, possono permettersi qualche apertura – vi troveranno descritte le ragioni intime, e al contempo profondamente politiche, dei refuseniks. Qui aggiungo solo due note rapide.
La prima riguarda la prospettiva politica dell’autore. Dal punto di vista della tenuta critica, la pandemia ha messo in ginocchio a livello globale quella che un tempo si chiamava “sinistra antagonista”: quando, nel febbraio 2022, all’università di Utrecht si è tenuto il primo convegno internazionale di analisi degli eventi pandemici da sinistra, alcuni dei partecipanti hanno scelto di parlare in incognito, a riprova della durezza del blocco epistemologico calato un po’ ovunque. Antropologo all’università di Modena e Reggio, Stefano Boni è notoriamente anarchico e le sue pubblicazioni (v. gli eccellenti Homo comfort e Orizzontale e verticale. Le figure del potere, entrambi editi da Elèuthera) ne testimoniano a sufficienza. Nell’imbarazzante silenzio dei saperi critici e dell’antagonismo circum-marxista a fronte della gestione pandemica, la prospettiva anarchica – con la sua strutturale diffidenza nei confronti delle organizzazioni verticistiche e la sua enfasi sulle autonomie – si è dimostrata assai più rapida e intelligente sia nella decrittazione degli eventi che nella costruzione di alternative.

La seconda nota riguarda l’ultimo capitolo del libro, dedicato a qualcosa che, in assenza di meglio, tutti quanti chiamiamo “spiritualità” e che può essere descritta, telegraficamente, come il sentimento di vivere in un cosmo in cui, oltre a quella umana, vi sono anche altre intenzionalità e intelligenze (ad esempio quelle delle piante, del terriccio, delle acque, dei venti, degli animali, degli antenati; e magari anche delle ninfe che abitano i boschi e dei lari che danno ai luoghi il loro timbro). Forse proprio per via della rottura pandemica, dopo un secolo e mezzo di materialismo nella sua versione più gretta, negli ambienti libertari e resistenti oggi si comincia a ragionare – ancora a mezza voce, ma in modo sempre più deciso – di una possibilità di reincanto che sia finalmente altro da quello con cui il fascismo e il sistema dello spettacolo muovono le masse. Si ragiona, cioè, della possibilità d’intrecciare cambiamento esterno e cambiamento interno, economia e struttura pulsionale, attaccamenti e gerarchie, la felicità che non è stata possibile ai morti e la nostra infelicità presente; di una misticopolitica che consenta, infine, un rapporto non violento con gli enti che popolano il mondo, e quindi anche con gli umani, con noi stessi, con le nostre memorie, i nostri valori e quel quanto di felicità che pure, sulla terra, ancora avrebbe il suo luogo – fuori e contro la macchina dell’oppressione.

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