di Sandro Moiso

John Clegg, Rob Lucas, Jasper Bernes, Nutrire la rivoluzione. Cibo, agricoltura e rottura rivoluzionaria, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 108, 5 euro

Michele Garau, L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 63, 5 euro

E come le api nell’alveare deserto
un cattivo odore emanano le parole morte
(Nikolaj S. Gumĭlëv – La parola, 1921)

Il poeta acmeista Nikolaj Gumĭlëv, marito della poetessa russa Anna Achmatova dal 1910 al 1918, poi fucilato dai bolscevichi nel 1921 per aver preso parte alla guerra civile come ufficiale delle armate bianche, sicuramente pensava alle parole cadute in disuso o a quelle espresse dal vuoto ideologismo di regime quando scrisse, nello stesso anno della sua fucilazione, il poema citato in epigrafe. Ed è proprio a partire da una riflessione sulle parole morte oppure nate morte che sembra utile a chi scrive iniziare a svolgere una riflessione sui due interessanti testi pubblicati dalle edizioni Porfido qui recensiti.

In effetti viviamo, soprattutto i più giovani, in anni di parole nate morte, pretenziose nel voler disvelare il mondo e assolutamente inutili per un un percorso reale di cambiamento dello stesso. Green economy, uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili, e mille altri piccoli sotterfugi linguistico-ideologici che suggeriscono la possibilità di cambiare il mondo a partire da una concezione platonica della funzione della parola, senza peraltro misurarsi con il gigantesco problema di rovesciarlo, distruggendo il modo di produzione e riproduzione della vita che “materialmente” lo fonda nella sua forma attuale.

Vale per gli esempi appena fatti e vale per un termine come “antropocene” che tende a dare l’dea di un mondo “completamente” a misura d’uomo, in cui la specie, in ogni sua manifestazione sociale e produttiva, si rivelerebbe capace di dominare e trasformare l’ambiente e lo spazio in cui vive, fino alla sua completa distruzione, fin dalla sua comparsa sulla Terra, mentre alcuni già proiettano le disastrose conseguenze della sua capacità di “terraformazione” su altri pianeti, per ora mai raggiunti e ancora irraggiungibili (nonostante le sparate di Elon Musk e della NASA) a causa delle distanze e dei mezzi tecnici realmente a disposizione di chi ne teorizza la diffusione.

Chi qui scrive è abbastanza anziano per contare tra i suoi libri un vecchio testo di Edward Hyams, Terre e civiltà (in origine Soil and Civilization), edito dal Saggiatore nel 1962, ma la cui edizione originale inglese risaliva a dieci anni prima. Già all’epoca lo scrittore e ricercatore di origine britannica, articolista per una delle più antiche riviste di sinistra di lingua inglese («The New Statesman», fondata da esponenti della società fabiana fin dal 1913), pur nel delineare l’evidente parassitismo dell’uomo nei confronti della terra e degli spazi occupati dalle sue società e dai diversi modi di produzione, non dimenticava di sottolineare che: «Esistono dei mutamenti climatici, ma essi sono anche influenzati dalle civiltà, e quindi dalla presenza di uomini dediti a una particolare economia» ovvero che non tutte le forme di organizzazione sociale e della produzione hanno influito in egual modo nei confronti del clima, dell’ambiente e delle sue risorse primarie.

Ad esempio, Hyams ricordava come nelle terre delle primitive comunità germaniche, e nelle forme loro sopravvissute in Età medievale in Europa, «venivano ripartiti i terreni da coltivare per trarne il sostentamento, terreni chiamati family land […] Ma, va sottolineato, ciò che era in tal modo divisibile non era la terra come proprietà materiale ma una partecipazione al diritto di fare certi usi della terra»1. Tale sistema, secondo l’autore inglese, «era stabile e il suo trattamento della terra, quantunque non certo ideale, fu tale che quando la rivoluzione agraria introdusse la high farming, la terra con cui i nuovi uomini ebbero a lavorare era, nel complesso, in condizioni di floridezza»2.

Una terra coltivata per secoli era stata conservata in condizioni di “floridezza” nonostante lo sfruttamento umano conseguente non soltanto alla rivoluzione agraria a cavallo tra XVI e XVIII secolo, ma anche a quanto avvenuto fin dalla prima rivoluzione agricola avvenuta sul finire del Paleolitico, circa dodicimila anni anni prima. Sempre secondo Hyams tale sistema, basato sulla « responsabilità collettiva dell’amministrazione della terra, regolata dalla consuetudine e l’armonioso ordinamento di mutuo servizio dalla sommità alla base, il tutto posante sul sistema di coltivazione su terreno pubblico – tale era lo stato dell’Europa atlantica da circa il 500 d. C. al 1500» era entrato in crisi quando «la graduale sostituzione di una economia commerciale all’autoconsumo andava abbattendo questo sistema e introducendo quello della proprietà privata, che gli successe»3.

Ipotesi che collima perfettamente con quanto affermano le ricerche storiche più recenti a proposito del golden spike da fissare per definire il momento in cui l’attività umana inizia a diventare decisiva per comprendere l’evoluzione non tanto delle società quanto del clima e dell’ambiente.

Avendo stabilito che la Terra si sta avviando verso un nuovo stato, esaminiamo i sedimenti geologici per definire un’epoca, proprio come si sono definite le epoche passate della storia della Terra. Occorre scegliere un cambiamento chimico o biologico specifico che segni l’inizio di un nuovo strato sedimentario influenzato dall’umanità. Questo marcatore deve essere anche correlato ai cambiamenti in altri sedimenti in tutto il mondo. Il marcatore, chiamato «chiodo d’oro» (golden spike), indica: dopo questo punto la Terra procede verso un nuovo stato.
Abbiamo passato ai vaglio i vari chiodi d’oro che sono stati proposti e la conclusione della nostra analisi è che la prima data in cui questi criteri geologici sono stati soddisfatti è l’anno 1610, contrassegnato da una riduzione di breve durata ma pronunciata dell’anidride carbonica atmosferica presente in una carota di ghiaccio antartico, che raggiunse il livello minimo quell’anno. Il 1610, il cosiddetto Orbis spike, (chiodo globale, dal latino orbis: mondo, globo – NdR) segna il momento in cui si può osservare lo scambio colombiano4 nei sedimenti geologici.
Gran parte della diminuzione avvenne perché gli Europei portarono per la prima volta nelle Americhe il vaiolo e altre malattie, causando la morte di più di 50 milioni di persone in pochi decenni. Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta – l’ultimo momento globalmente freddo prima dell’inizio del caldo durevole dell’Antropocene [Questo] è il cambiamento decisivo nella relazione Homo sapiens con l’ambiente. In termini narrativi, l’Antropocene iniziò con la diffusione del colonialismo e della schiavitù: è la storia di come le persone trattano l’ambiente e di come trattano i propri simili […] La nostra tesi è che dall’inizio del mondo moderno nel Cinquecento due circuiti di feedback auto-rinforzati e collegati – l’investimento dei profitti per generare altri profitti e la produzione crescente di conoscenza mediante il metodo scientifico – hanno dominato in misura sempre maggiore le culture del mondo. Queste forze hanno scatenato tassi di cambiamento, compreso il cambiamento ambientale, sempre più elevati5.

La nascita dello sfruttamento intensivo del pianeta e della specie coincide con la nascita del capitalismo mercantile, cui seguirà poco più avanti quello industriale e finanziario, e il fatto rende evidente come il termine Antropocene rischi di essere non solo riduttivo, ma addirittura fuorviante. Motivo per cui andrebbe sostituito, come suggerito già da altri autori e in altre e numerose sedi, da quello di Capitalocene, proprio per indicare una responsabilità non genericamente “umana”, ma di un ben definito e preciso (e distruttivo) modo di produzione e del conseguente modello sociale e di consumo che ne sono derivati.

Anche se a qualche lettore potrà sembrare che la lunga disquisizione fin qui condotta sia servita soltanto a menar il can per l’aia, in realtà va qui affermato che il primo dei due libelli editi da Porfido, Nutrire la rivoluzione, proprio in quest’ambito di riflessione va a situarsi, ovvero su quali siano le responsabilità effettive (sociali, politiche, economiche e scientifiche) non solo dei cambiamenti climatici in atto, ma anche della difficoltà sempre più crescente nel produrre e distribuire cibo senza creare miseria, fame, dipendenza e danno per i suoli, l’ambiente e il futuro del pianeta e della specie.

Nel fare questo, soprattutto nel saggio di Jasper Bernes (Il ventre della rivoluzione: agricoltura, energia e futuro del comunismo, pp. 43 – 94), non si dimenticano affatto alcuni autori classici del socialismo, cui nel libro, e a ragione, si rimprovera di essersi lasciati spesso fuorviare da un’eccessiva fiducia nel progresso di stampo borghese, ma utilizzando comunque ancora le pagine migliori espresse da quegli stessi nei loro testi. Come capita, ad esempio, nei confronti di Friedrich Engels e della sua analisi del rapporto tra città e campagna e di come questo dovrebbe essere modificato in futuro.

La soppressione dell’antagonismo tra città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie6.

Cui andrebbe forse aggiunta un’altra osservazione, più tarda (1952) ma pur sempre in anticipo sui tempi attuali, di Amadeo Bordiga sulla necessità di giungere all’«arresto delle costruzioni di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle piccole, come avvio della distribuzione uniforme della popolazione sulla campagna» (Cfr. qui).

I due testi riportati nel volumetto7 ruotano intorno al problema, tutt’altro che risolto in passato, del rapporto intercorrente tra Rivoluzione e Ri/costruzione di una società altra definibile come comunista e provengono da autori che a vario titolo ruotano intorno alla rivista «Endnotes» realizzata da un gruppo di discussione, con sede in Germania, Regno Unito e Stati Uniti, orientato principalmente a definire le condizioni per un possibile superamento comunista del modo di produzione capitalistico.

Per chi scrive risulta particolarmente importante che tali riflessioni, dedite a recuperare l’esperienza dell’ultrasinistra francese post-68 e conseguentemente della Sinistra Comunista nel suo senso più ampio, siano svolte a partire da quello che è ancora, nonostante l’epoca di crisi, il cuore del capitalismo occidentale e delle sue forme di dominio politico, economico, militare e culturale. Recuperando “parole” e ambiti di riflessione che solo gli allocchi della modernità possono considerare “superati” dalle parole vuote, “morte alla nascita” e inconsistenti cui si è accennato in apertura.

Come affermano i due autori di Le tre rivoluzioni agricole, anche se Marx era notoriamente restio a dare al termine “comunismo” qualsiasi connotazione prefigurativa “da osteria” e preferiva definirlo come il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, pur rimanendo ferreamente motivata la necessità di incentrare l’attenzione sulle lotte e il loro sviluppo storico, è evidente che tale affermazione possa condurre a ragionamenti di tipo teleologico, «perché senza un criterio atto a definire le lotte e i loro limiti» i rivoluzionari, o pretesi tali, si troverebbero ad aggirarsi in circolo all’inseguimento di lotte e posizioni che di volta in volta sorgono dalle infinite, e irrisolvibili al suo interno, contraddizioni derivanti dall’ordinamento socio-politico-economico imposto dall’attuale modo di produzione.

Con tutta la sequela di inutili speranze, illusioni, confusioni e “creatività linguistica” non dettate dalla effettiva capacità di interpretare il “reale” in vista di una sua trasformazione radicale, ma piuttosto dalla volontà di affrontarlo con poco sforzo e semplici affermazioni di principio (quale principio, poi, sarebbe ancora tutto da vedere), oggi facilmente condivisibili sui social. Spesso costeggiando le spiagge del politically correct liberale contemporaneo che forse rappresenta ancora, a più di cinquant’anni di distanza, la peggiore eredità del ’68. Che si liberò spesso più rapidamente del filo rosso della tradizione rivoluzionaria che di una concezione individualistica dei conflitti sociali che discendeva dritta, dritta dal liberalismo borghese.

Ed è a partire proprio da questo secondo ragionamento che si rivela altrettanto interessante, anche se più contraddittoria, la lettura del secondo dei due testi qui proposti: quello di Michele Garau sull’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione.

Se nel primo dei due testi, come si è detto poco innanzi, l’attenzione oltre che alla possibile progettualità comunista era rivolta anche alla necessaria critica di un ”marxismo” spesso infarcito di esagerate speranze nello sviluppo della tecnologia di stampo capitalistico e di una scienza troppe volte rivelatasi coscientemente asservita, facendo sì che le necessità produttive, di consumo e di dominio inficiassero sempre più pesantemente gran parte della ricerca scientifica ottundendone finalità e libertà, nel secondo l’attenzione dell’autore si rivolge in particolare al fatto che l’analisi, per quanto attenta e radicale del reale e della storia del movimento operaio, possa talvolta perdere il “filo rosso” per trasformarsi in una compiaciuta dissertazione rinunciataria sull’inevitabilità della sconfitta.

Per fare questo, come si afferma fin dal titolo, il volumetto analizza in particolare le derive del pensiero di Jacques Camatte e dell’ultra-sinistra più in generale. Che, come già si sottolineava nel primo dei due testi, rischiano di trasformarsi in una sorta di visione teleologica del divenire, spesso nemmeno più ipotizzando una possibile azione rivoluzionaria, ma soltanto auspicando l’inevitabilità del cambiamento.

Al di là delle conclusioni cui Garau giunge, dimenticando però che per la Sinistra Comunista le “lezioni delle controrivoluzioni” ovvero delle sconfitte (tante) sono altrettanto importanti di quelle derivanti dalle vittorie (poche e transitorie), quello che val la pena qui di sottolineare è come ancor oggi, nell’epoca del trionfo delle parole “morte”, sia necessario far riferimento, seppur in maniera critica, a testi tutt’altro che defunti, che solo la polvere alzata inutilmente dagli sproloqui degli innovatori linguistici (più che dei contenuti politici utili alla lotta per il rovesciamento di questo immondo “reale”) può cercare ancora di nasconderne il significato ultimo sotto una montagna di fumisterie.

Un’autentica battaglia per la “decolonizzazione” dell’immaginario fondata su parole e discorsi che ad alcuni potranno sembrare fuori luogo o superate, ma che ricordano ancora oggi, dopo decenni di ricerche di nuovi soggetti, nuove cause e diritti per cui battersi, che la lotta di classe deve avere un centro di aggregazione e che questo, piaccia o meno, si tratti pure di liberazione della donna, di lotta contro la guerra impellente e sempre più presente o di salvaguardia dell’ambiente che ancor ci resta per vivere, deve fondarsi sul coinvolgimento della maggioranza o di una significativa minoranza della classe oppressa per eccellenza, qualunque sia il suo sesso, il colore della sua pelle o la sua dislocazione geografica: quella proletaria.

Classe, quella proletaria, che d’altra parte non può certo permettersi il lusso di commuovere ministri come Pichetto Fratin col piagnisteo sul futuro che gli viene negato o che gli è stato “rubato” poiché, fin dal suo primo apparire sulla scena della Storia, il proprio futuro, insieme a quello dell’intera specie, ha sempre dovuto conquistarselo con scioperi, lotte, battaglie spesso sanguinose, sofferenze e rivoluzioni (nient’affatto improvvisate o di velluto).


  1. E. Hyams, Terre e civiltà, «Il Saggiatore», Milano 1961, p. 197  

  2. Ivi, p. 198  

  3. Ivi, p.197  

  4. Con scambio colombiano si intende generalmente lo scambio biologico (flora, fauna, malattie, virus e batteri) avvenuto tra Vecchio e Nuovo continente a partire dalla “scoperta” dell’America nel 1492.  

  5. Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, Prefazione, pp.XVII – XVIII.  

  6. F. Engels, Anti-Dühring ora in J. Bernes, Il ventre della rivoluzione in J. Clegg, R. Lucas, J. Bernes, Nutrire la rivoluzione. Cibo, agricoltura e rottura rivoluzionaria, Porfido Edizioni, Torino 2023, p. 56  

  7. L’altro è quello di J. Clegg, R. Lucas, Le tre rivoluzioni agricole, pp. 17 – 39