Intervista di Luca Baiada

 

Ssshh! La prego, non faccia il mio nome a voce alta. Non voglio farmi riconoscere, per questo ho il foulard e gli occhialoni neri.

Musa della storia, certo, a scuola non l’ha imparato? Gli studi classici si fanno ancora, in questo secolo barbaro. Ma parliamo piano. Se ho accettato questa intervista, è per le Sue insistenze, mi creda. Sì, un po’ anche per l’anniversario italiano: 8 settembre 1943, giorno delle scelte, dure e senza sconti. Sbrighiamoci e non faccia fotografie. Prendo solo un bicchierino di ouzo. Ah, con un chicco di caffè da sgranocchiare. Che vuole, a un certo punto ci si consola con le caramelle.

L’occasione per la mia presenza qui va cercata nella causa alla vostra Corte costituzionale. Ma sì, lo so benissimo che di processi per crimini da tragedia ce ne sono tanti. Come li chiamate, adesso? Crimini di guerra e contro l’umanità. Beh, l’importante è intendersi. Il fatto è che questa estate, alla Corte costituzionale, si è parlato anche della strage di Distomo, dove i tedeschi nel 1944 massacrarono più di duecento persone. Capisce perché mi sento coinvolta? Ma come, no?! Distomo è in Grecia, vicino al Monte Parnaso. Andiamo, non le dice niente? Il Parnaso, le Muse! Una strage sotto casa nostra, sotto casa mia.

Che i mortali si massacrino con gusto, con zelo, usando ogni mezzo, non è una novità, e la musa della storia è abituata a questi orrori. E ora, con le bombe a grappolo, coi droni e coi caccia ad alta tecnologia, c’è da stupirsi? Ma che lo facciano ripetendo buoni propositi, si vede da poco tempo. Diciamo dal Diciannovesimo secolo, che per me è come dire un anno fa. Le pare che abbia un senso, tutto questo? E mentre si versa sangue, chi chiede giustizia se la vede brutta: o lo rinchiudono da qualche parte o fanno finta di non sentirlo. Intanto, nelle giornate della memoria dedicate a questo e a quello, tutti ripetono mai più, mai più, mai più, come pappagalli.

Da anni, in Italia, c’è una vertenza interessante, che il mio amico Sofocle potrebbe tener di conto per una versione aggiornata dell’Antigone. Riguarda i risarcimenti per stragi e deportazioni nazifasciste. Che fare? Da un lato si invoca la ragion di Stato, cioè si chiede ubbidienza come la chiedeva Creonte: lasciare una salma insepolta, accettare il male, chiudersi nella falsa coscienza e nel conformismo. Dall’altra si invoca la tutela delle persone, quindi urgono doveri alti e ineludibili: così Antigone disubbidisce e la paga cara. Ma stavolta, invece di cosa fare di un cadavere, uno solo, la questione è cosa fare per i vivi, e tanti. Visto l’effetto esemplare, direi: cosa fare per l’umanità.

Insomma, sono venuta a Roma per capire meglio me stessa. Capire se la storia ha ancora un senso, perché senza giustizia la storia è in pericolo; anzi, non è niente. Mi guardi. Per non farmi riconoscere devo conciarmi come un’attrice chiacchierata, come una drogata di lusso che prova a disintossicarsi, o una diva del cinema muto dopo che è arrivato il sonoro. E se vuoto il sacco mi fanno fare la fine di Julian Assange.

Adesso, poi, è tutto più chiaro, più evidente. Ma lo sa che alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia, sono state proposte due cause inconciliabili? La Germania ha fatto causa all’Italia perché non vuole giustizia sui crimini di guerra tedeschi, l’Ucraina ha fatto causa alla Russia per avere giustizia sui crimini russi. Da una parte c’è il sangue rappreso, e vogliono lavarlo, cancellarlo, o magari metterlo sotto una teca per fare spettacolo; da un’altra se ne versa ancora, fresco, caldo, da carne viva. Un vero enigma, non crede? E i giudici non hanno neanche Atena per risolverlo.

I giuristi, mi chiede? Bella domanda, proprio Lei che è del mestiere. Guardi, i giuristi senza le Eumenidi fanno finta di essere saggi, ma nascondono Erinni pericolose. Tenga conto di cosa succede in quell’altra corte, sempre all’Aia. Voglio dire, nella Corte penale internazionale: interviene con provvedimenti dentro un conflitto in corso, proprio quello in Ucraina. Crimini veri, certo. Però si invoca il processo di Norimberga, che invece si celebrò a guerra finita. Non mi segue? Ma apra gli occhi! Se un processo si sovrappone ai fatti mentre accadono, cosa resta? Un giudice del futuro, simile a uno storico del presente. Il presentismo è un male grave, per me, e l’ingiustizia sistematizzata è il suo sintomo più vistoso. Facciamo presto, qui c’è gente e non mi sento sicura.

A proposito di giuristi, una domanda gliela faccio io. Per i giudici della Corte costituzionale c’è il segreto sui processi, o no? Non capisco le loro regole, del resto non è il mio ramo. Per esempio, nella stessa vertenza sui risarcimenti c’è stata una decisione epocale, nel 2014, e la sentenza è stata un monumento alla giustizia. Il presidente di allora, Giuseppe Tesauro, ha parlato a testa alta della decisione; ma c’era poca sorpresa: la motivazione l’aveva scritta lui. Invece un giudice, Sabino Cassese, ha scritto di essere stato contrario a quel provvedimento, insieme a una larga minoranza, e di essere stato addirittura lì lì per dimettersi; l’ha scritto in un libro a cura del Max-Planck-Institut. Perché? Ma no, guardi, lasciamo perdere. Tesauro è morto, la giustizia ha perso un amico. Cassese è un uomo potente. Non vorrei farLe avere delle noie.

Se vuole cercare angoli inesplorati, però, approfondisca cosa è successo alla Corte internazionale di giustizia nel primo processo su questa vertenza, quello iniziato nel 2008. Un giudice della Corte, Thomas Bürgenthal, nel 2008 era in servizio, ma prima della decisione cessò di svolgere le funzioni. Bürgenthal era un sopravvissuto ad Auschwitz, e sembra che proprio lui abbia avuto per le mani il fascicolo del processo, almeno in un primo momento. La sua uscita di scena potrebbe essere interessante. E c’è anche una recente entrata in scena, sa? Adesso fa parte della Corte Georg Nolte. Già: il figlio di Ernst Nolte, quello dell’Historikerstreit, l’operazione storica cominciata negli anni Ottanta su «Frankfurter Allgemeine». Non c’è coerenza, in questo? La giustizia che mette in ombra Auschwitz s’illumina di revisionismo. Scusi, mi sento gli occhi addosso. Prima me ne vado e meglio è.

Un’ultima cosa. Un mio allievo, Eric Hobsbawm, ha scritto che il secolo che inizia a Sarajevo finisce a Sarajevo; non è un bel sunto? L’eco dei colpi sparati da Gavrilo Princip nel 1914 si sente nella dissoluzione della Jugoslavia, dopo due guerre mondiali. E non è una questione di «secolo breve», che poi non è un’espressione di Hobsbawm, l’ha ispirata un altro mio discepolo, Iván Berend. Invece, Le faccio notare una cosa. Nel 1994, in Italia, un’operazione ambigua cominciò con il convegno internazionale In Memory: per una memoria europea dei crimini nazisti, finanziato dalla Fondazione Volkswagen; il convegno prese spunto dalla strage di Civitella e si svolse nello stesso periodo della rifrequentazione dell’archivio sulle stragi, il controverso archivio negli uffici centrali della giustizia militare. Un processo su Civitella ha stabilito principi importanti, ma adesso la sentenza della Corte costituzionale li mette fra parentesi. E ricordi che la vertenza italiana sui risarcimenti, nel bene e nel male, è sotto gli occhi del mondo. Insomma, un breve secolo inizia e finisce a Sarajevo, un lungo trentennio di strapazzo della giustizia inizia e finisce su Civitella. Viene da chiedersi se nella storia esistano periferie. E anche se davvero, come dice qualcuno, nella storia le coincidenze non abbiano importanza.

Ma lo sa che sono passata dalla vostra Corte costituzionale? Che bel palazzo! Scaloni, finestre alte, sale lussuose, panorama. Pensi che dentro, una volta, c’erano uffici dell’amministrazione papalina. Poi, con la Repubblica romana, Pio IX scappò su una carrozza tedesca – anche un altro italiano, nel 1945, a Dongo, provò a scappare coi tedeschi – e nel palazzo alloggiò Giuseppe Mazzini, che suonava la chitarra alla luna, ebbro d’amore; e non era solo amore per l’Italia, birichino. Non sa fare scherzi arguti, la storia?

Deve anche sapere che dopo, nell’Italia unita monarchica, al Palazzo della Consulta ebbe sede il Ministero degli esteri, che adesso sta in quell’edificio enorme, quello scatolone spaventoso vicino allo stadio di calcio, pensato come sede del Partito nazionale fascista. Arriva la Repubblica, e nel palazzo sul Quirinale ci mettono una corte che giudica le leggi. Papato e rivoluzione, privilegio e uguaglianza, tirannide e libertà, fatti e contese. Deve ammettere che la storia sa mischiare le carte.

Anche i quadri, al Palazzo della Consulta, sono un piacere. Solo non ho capito, proprio in aula d’udienza, quella tela con una donna che regge in mano una testa mozza. Per essere Salomè con la testa di Giovanni il Battista, manca il vassoio, e per essere Giuditta con la testa di Oloferne, sembra una sciampista presuntuosa che ha litigato con un cliente per un’acconciatura venuta male. Scusi, eh, ma con tutto il rispetto, io ho visto Zeusi e Policleto.

Ho un’idea. Vogliamo dire che in quel quadro c’è la giustizia che taglia la testa al tempo? Mi spiego. Le due cause epocali: Germania contro Italia, Ucraina contro Russia. Alla Corte dell’Aia è stato chiesto di impedire la giustizia su ieri e di fare giustizia su oggi. Si rende conto delle conseguenze? Non vede, che pericolo tremendo? Ogni ieri fu oggi, ogni oggi diventa ieri. Basta far passare del tempo, tanto tempo, e anche dopo crimini spaventosi, oplà: l’ingiusto diventa giusto. Così si fa un invito al differimento, ai distinguo, alla moratoria, ai cavilli. Allora decapitiamolo, questo tempo, quel tempo, ogni tempo, spezziamolo, mettiamogli a nudo le vene, mostriamo la sua maschera esangue. Come si fa? Andiamo, devo pensare a tutto io?

Adesso devo proprio andare. Magari ci rivedremo, chissà. L’ouzo? Non posso trattenermi, lo finisca Lei.

Ah, si ricordi che in Grecia le stragi le hanno fatte anche gli italiani, non solo i tedeschi. Ma non si fidi di chi insinua che questo sarebbe un buon motivo per non fare giustizia su nulla e per nessuno. In fatto di storia, chi pretende i conti esatti non ha cervello, ma chi non fa i conti per niente non ha coscienza.

Aspetti, il chicco di caffè lo prendo io, me lo voglio sgranocchiare.

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