di Alessandro Barile

Rossana Rossanda, Volti di un secolo. Il Novecento in 52 ritratti, a cura di Franco Moretti, Einaudi 2023, 245 pp., 18 euro

Chissà perché, di Rossanda, viene magnificata la sua “vita postuma” e celata la sua “vita activa”. Le ormai numerose raccolte di suoi scritti vivisezionano la sua opera giornalistica, esaltano la sua voce critica, la sua cultura “cosmopolita”, così diversa dalla palude storicista e quindi, in fondo, diversamente comunista. Una Rossanda “vittoriniana”, si potrebbe dire, e d’altronde il Politecnico non era il dazebao della Casa della cultura, così come questa si pensava come il “Politecnico parlato”? Solo per una serie di fortuite circostanze, sembra leggersi tra le righe, il destino di Rossanda non si è accodato a quello dei Vittorini e dei Calvino e dei Giolitti, per ricongiungersi idealmente, e finalmente, con la radiazione del 1969. Un modo in più, questo, per continuare a fraintendere Rossanda e il comunismo del Novecento. Il comunismo cominternista, grande e tragico; ma anche quello togliattiano, un dramma senza vera tragedia.

Non è responsabilità, ovviamente, dell’ottima selezione di “ritratti del Novecento” composta da Franco Moretti. Ma è lo spirito dei tempi che si rafforza continuamente, che rimastica e rimuove la tensione del Novecento e la adatta all’intellegibilità dei tempi che corrono, al suo intrattenimento culturale eticamente irreprensibile. Eppure abbondano gli scritti della Rossanda comunista, problematica e intollerante. E abbondano anche i ricordi umani, i “ritratti”, se vogliamo: cos’è quello di Togliatti, scritto nell’agosto del 1965 in occasione del primo anniversario dalla scomparsa del segretario comunista, se non una riflessione che attraverso Togliatti valuta un’intera vicenda storica, i suoi successi, i suoi limiti e i suoi errori? Cos’è questa “libertà” che si va cercando fuori dalla ragione di partito, una “libertà” che Rossanda non ha mai voluto né preteso, che ha sempre rifiutato anche e soprattutto quando le ragioni del partito e le sue divergevano drammaticamente, dal 1956 al 1968? Non è così, con ogni evidenza, che si restituisce la grandezza della sua sofferenza, che non è una sofferenza culturale o esistenziale, ma tutta politica, che rimanda a un’urgenza e tale resta anche quando si è forzatamente “a riposo” nei placidi lidi del “giornalismo” e del “lavoro culturale”.

Attraverso 52 ritratti di uomini e donne del Novecento Rossanda ingaggia il fatidico corpo a corpo con una vicenda che esorbita il ricordo privato e si fa immediatamente riflessione storica, sul tempo che le è toccato in sorte, non dei peggiori come giustamente riconosce l’autrice. Figure gigantesche con cui Rossanda ha condiviso un tratto della sua strada, politica e biografica: da Lukács a Sartre, da Amendola a Fortini. Ne esce un ritratto del secolo attraverso i volti di quella «stirpe di signori» che sono stati i comunisti, per Rossanda, «signori» in quanto costitutivamente macchiati della colpa di aver agito e, nel farlo, di aver necessariamente oltrepassato e violato e a volte brutalizzato quei limiti morali in nome dei quali si è combattuto, si è vinto e poi si è perso. Il “realismo delle classi subalterne” non è cosa facile da digerire. Oggi qualche spericolato antiquario ne rimpiange la “grandezza”, la “forza”, con-fondendolo col cinismo dei rapporti politici che deride i rovelli dell’anima bella. Eppure trovarsi in mezzo allo “stalinismo” – intendendo con ciò un metodo di governo del partito – ha bruciato più generazioni di militanti, di compagni altrimenti validi. Rossanda lo ha attraversato, da comunista “anomala” – milanese alla scuola di Banfi e del neokantismo – e da donna, in un tempo in cui la questione femminile nel partito e nella società non era messa a tema. Sarebbe importante che qualcuno, prima o poi, affronti esplicitamente il rapporto tra Rossanda e il femminismo, di cui non c’è traccia nei primi cinquant’anni di vita della dirigente culturale milanese, per poi esplodere come problema per lei continuamente irrisolto e forse irrisolvibile a partire dalla metà degli anni Settanta. Troppo facilmente si parla di una Rossanda “femminista”, non cogliendo il dilemma che attraversa il serrato dialogo con la dimensione del privato contestuale al suo ritiro dalla militanza attiva. Il privato che diventa politico come rifugio di una scommessa andata male: il manifesto come punto d’incontro tra tradizione del movimento operaio e le ragioni della nuova contestazione.

Ma se questi volti restituiscono la coscienza infelice di Rossanda, si presentano anche come pezzi di bravura di un giornalismo oggi impensabile. Vi si scorge un’attitudine, quella di badare all’essenziale, andando al sodo di questioni sempre collegate a un orizzonte politico e ideologico. Le contraddizioni dell’«intellettuale comunista» ad esempio, una figura essenziale per capire il comunismo dai fronti popolari in avanti, il comunismo – come lei dice – dagli anni Trenta agli anni Settanta, su cui pure si dovrà fare la storia (e lo si è fatta, sempre più disincarnata, tecnicizzata, deprivata). Attraverso i ritratti di Picasso, di Sartre, di Aragon, ma anche di Pasolini, di Fortini, di Christa Wolf, si intuisce la grandezza del movimento operaio, in grado di far gravitare attorno a sé la parte migliore della borghesia colta, di colonizzare l’immaginario ideologico di un ceto altrimenti – lo vediamo oggi – asservito al più redditizio zeitgeist moralistico a buon mercato; ma traspare anche la miseria di un’intellettualità che rimane, in fin dei conti, aristocratica, fatte le dovute eccezioni (Lukács su tutti). Un’intellettualità che, man mano che scolorisce l’epica rivoluzionaria e poi resistenziale, “costringe” il partito ad inseguire i tormenti di un ceto indisponibile veramente ai vincoli della militanza, usando la platea messa a disposizione dalla forza del movimento operaio senza pagarne i correlati pegni. Un problema con cui si scontrerà direttamente la Rossanda dirigente culturale tra il 1962 e il 1966, uscendone alla fine battuta sia dal partito che da cinematografari e pittori romani.

Sono storie antiche, che Rossanda evoca continuamente alla morte di un qualche rappresentante qualificato del secolo breve. Alla fine, oltre la cortina della grande storia che attraversa e segna le singole vicende, ad emergere è anche una più privata sensibilità di fronte alle sofferenze che la accomunano ai protagonisti ricordati. Si potrebbero definire sofferenze “minori”, di un comunismo, come quello italiano e francese, pur nella sua asperità lontano dalle tragedie del socialismo realizzato nell’est. Ma ancora vive e brucianti per chi, come Rossanda, sognava la tranquillità borghese e si è ritrovata inaspettatamente scaraventata in una storia da cui pure non si è potuta sottrarre, pagando il prezzo che c’era da pagare, senza pentimenti né redenzioni.

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