di Gianfranco Marelli

Ada d’Adamo, Come D’aria, Eliot, 2023, 15 euro

Il premio Strega assegnato quest’anno alla scrittrice Ada d’Adamo per l’opera Come D’aria è un pugno allo stomaco, una denuncia e una chiamata alle armi. Niente a che vedere con il romanzo introspettivo, autobiografico, sentimentale, commovente, sebbene descriva minuziosamente la vita di una madre – ballerina e insegnante di danza – che, dopo la nascita della figlia Daria, si trova a fare i conti con la sua disabilità grave e con tutti i problemi annessi e connessi.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte. Tetraparesi spastico-distonica, clonie, alternanza di ipertono e ipotono, nistagmo, scialorrea… altro che mignolo! Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola. Con orrore ricordo le parole profetiche della caposala della Terapia Intensiva Neonatale, che al momento delle dimissioni dall’ospedale mi suggerì di ricorrere al Valium per calmarti – scoprii poi dalla cartella clinica che nei tuoi primi dieci giorni di vita lei e le sue colleghe ne avevano fatto largo uso – e di mostrarmi severa perché tu mi avresti fatto passare i guai. Disse proprio così: “Questa le farà passare i guai”.

Guai? Come incitamento niente male. Poteva dire «Ora, sono cazzi tuoi», avrebbe suonato meglio. Sennonché, invece di rassegnarsi accettando il destino cinico e crudele, la mamma di Daria non si è data vinta, ha combattuto come solo le madri sanno fare. Non per coraggio, sopportazione, accettazione; semplicemente per amore. L’amore che nell’altro riconosce la bellezza.

Desideravo la bellezza, l’ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la tua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell’oloprosencefalia, l’ecografia morfologica l’avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. Una volta nata, poi, il tuo aspetto grazioso ti ha tenuto al riparo da quella sgradevolezza che molto spesso si associa alle persone disabili, suscitando in chi le guarda un senso di disagio, quando non di autentico fastidio. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”.

Saper cogliere il molto dal poco, sicuramente un buon inizio, però non basta. Ecco la chiave di lettura di questo romanzo forte, crudo, a-sentimentale, perché non muove compassione, bensì rabbia.

La rabbia del “perché proprio io?” non fa sconti, tanto meno cede alla rassegnazione: lotta. Perché la lotta insegna a individuare l’origine che ha determinato la separazione fra i belli e i brutti, i ricchi e i poveri, i forti e i deboli

Siamo convinti di essere creature che godono del diritto insindacabile a una salute perfetta, a un corpo/mente dotato di organi e funzioni in grado di svolgere prestazioni al massimo livello. La nostra è una società che ha semplicemente rimosso il concetto di malattia, in cui i malati sono sempre “gli altri”: i pazienti oncologici, i disabili, i diversi… Per questo, come scriveva Chiara agli albori della pandemia, una delle prime strategie di sopravvivenza innescate contro il virus da parte dei sani è stata la presa di distanza di costoro dai cosiddetti soggetti a rischio: “muoiono solo i vecchi”, “è in pericolo chi ha patologie pregresse o croniche”, “bisogna prestare le cure a chi ha aspettative di vita più a lungo termine”. Insomma, un ennesimo bisogno di contrapporre l’identità dei forti contro i deboli.

Più chiaro di così… Si, perché la disabilità non è una accidentalità, una sfortuna che capita, un amore che logora; purtroppo è anche questo, con tutto il corollario connesso alla capacità dei singoli di saper reagire, impegnandosi per non sentirsi soli ad affrontare quello che per l’ambiente medico scientifico è un “caso”. Un caso, non una persona e il mondo che la circonda. Allora perché non prevederlo, dando la possibilità ai genitori di scegliere anticipatamente della loro e dell’altrui vita? Una decisione non facile e certamente sofferta ma che Ada d’Adamo, con la forza di una madre a sua volta colpita da una fragilità – un tumore al seno divenuto metastatico – che, nel rendere difficile il rapporto con la figlia, allo stesso tempo l’ha avvicinata al suo fragile mondo, fino a chiedersi: se mi avessero correttamente informata durante la gravidanza… L’avrei portata a termine?

Così, nel raccontare l’amore infinito per Daria, nel descrivere il bene che Daria trasmette incondizionatamente, traspare l’atteggiamento superficiale e complice di un servizio medico sanitario pubblico posto nelle condizioni di non funzionare, a seguito dei numerosi tagli compiuti dai governi negli ultimi decenni.

Certo, ci sono pagine in cui lo stato di completo abbandono di chi affronta un problema così complesso colpisce emotivamente, soprattutto quando l’autrice citando John Donne – «La malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine» – denuncia l’ipocrisia di questa società e della sua cultura nel prendersi cura degli altri; altri che, fin quando sono belli, forti intelligenti l’accoglienza non è negata. Ma provate voi a non rispettare questi canoni e vi accorgerete di cosa vuol dire essere diverso in un sistema economico di profitto dove la diversità, se non è fonte di lucro speculativo, è nascosta fra le pieghe di una carità pelosa.

Per concludere, Come D’aria è un libro che non fa sconti perché racconta la vita, la sua fragilità, ma soprattutto l’amara vittoria di chi combatte fino alla fine contro le ipocrisie di un sistema che relega nel dimenticatoio chi a parole vorrebbe includere. Insomma un libro di vita e di lotta come pochi.