di Cesare Battisti

Questo racconto vuole celebrare il dramma di un’adolescente che sulla rotta dei migranti ha subito l’amputazione delle gambe per congelamento.

Samuel apre le imposte, lasciando entrare nella stanza la luce pallida di n rigido mattino d’inverno. 

– Buongiorno Amatù, come andiamo oggi?

Da sotto la coperta della Croce Rossa risponde una voce sonnacchiosa.

– Bene, sto bene.

L’odore di chiuso misto a disinfettanti fa tornare Samuel alla finestra, questa volta per dischiuderne anche i vetri. La ragazza si raggomitola mugugnando.

Lei e lo psicologo hanno imparato a conoscersi, almeno quel tanto da permettersi entrambi di recitare lo stesso rito ogni mattina. I primi giorni Amatù non voleva spiccicare una parola, aveva lo sguardo spento e la notte le capitava di svegliarsi urlando. Ma a 15 anni è difficile resistere al richiamo naturale della vita.

Soprattutto con qualcuno vicino che ce la mette tutta per non lasciargiela sfuggire. A Samuel quella ragazza sta realmente a cuore.

L’unica sopravvissuta d’una famiglia afgana, Amatù è arrivata al Centro in condizioni disperate. Al prendere coscienza dell’accaduto, è travolta dalla disperazione; piuttosto che vivere in quello stato preferisce morire. Per impedire di togliersi la vita viene sedata, rimane incosciente per alcuni giorni. Al suo risveglio, ha trovato Samuel accanto al letto che la osservava. Ha richiuso gli occhi, decisa a non aprirli più. Ma è stato sufficiente quell’istante a riaccendere in lei la fiammella della vita.

Sulla sedia che Samuel è solito occupare, è intatto il vassoio con la colazione. 

– Non hai mangiato niente.

Amatù si tira su coi gomiti, le volute ondulate di capelli si sparpagliano sul bianco del cuscino. Occhi di perla che risalgono gli abissi, e Samuel che non si stanca mai di vederli affiorare. 

– Non volevo interrompere un sogno, dice lei prendendo una fetta biscottata, ma ormai è fatta. 

C’era neve dappertutto ed io ci andavo su senza affondare. 

Samuel distoglie lo sguardo per non rivelare lo sconforto. Credeva che Amatù avesse smesso di vagare nella neve durante il sonno. Gli infermieri dicevano di non averla più sentita gridare di notte. 

– Avanzavo sul mano bianco senza sforzo alcuno, riprende lei. Ma non stavo camminando, scivolavo sulla neve senza nemmeno sfiorarla. Mi sono detta che se ero viva, dovevo per forza aver lasciato le mie impronte e allora mi sono voltata a guardare.  C’era un cammino tappezzato di viole e margherite, come un tappeto che si allungava alle mie spalle perdendosi lontano. Stavo seminando fiori sulla neve, mi sembrò una cosa meravigliosa. Stavo piangendo dalla felicità, quando mi sono sentita chiamare. Era la voce di mia madre. Cercavo di capire cosa volesse dire, ma la sua voce si è mischiata alla tua e mi sono svegliata.

– Mi dispiace essermi intromesso. Magari la mamma ti stava dicendo qualcosa di importante. 

Amatù si intenerisce quando Samuel fa la faccia dispiaciuta. Le ricorda suo padre quando si arrabbiava per niente e poi se ne doleva. La loro era una famiglia unita, ma lei non si era mai soffermata a pensare cosa li tenesse insieme. Non era una questione importante allora. Sembrava così normale essere nati per volersi bene. Ci sono voluti altri mondi da attraversare e un’anima addestrata.

 

(disegno di Nico Maccentelli)

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