di Franco Pezzini

I canti di Inanna regina del cielo e della terra. Miti e poesie della dea sumera, a cura di Diane Wolkstein e Samuel Noah Kramer, trad. di Franco Marano, rivista dal Gruppo Ippolita, prefaz. di Maria Edgarda Marcucci, pp. 182, € 14, Mimesis, Sesto San Giovanni 2023.

 

Nei giorni primi, nei primissimi giorni,

Nelle notti prime, nelle primissime notti,

Negli anni primi, nei primissimi anni…

 

Sono parecchi i motivi per leggere questo splendido volume, anche a prescindere da un amore specifico per le culture antiche interpellate, essenzialmente quella della primissima Mesopotamia.

Anzitutto, nella loro intensità sapienziale che sa parlare straordinariamente alla nostra psicologia ancora dopo quattromila anni, I canti di Inanna recuperati su tavolette d’argilla e tradotti dal cuneiforme vedono agire e celebrare non un grande eroe guerriero e magari ammazzamostri, ma una dea – o meglio una figura femminile che pur muovendosi in un orizzonte divino conosce tutte le tappe di vita di una donna prima giovanissima e poi adulta: una donna appassionata nell’amore (“chi verrà a letto con me? chi arerà la mia vulva?”) e coraggiosa, capace in ultimo di scendere agli inferi (prima di Gilgamesh, Eracle, Odisseo, Enea e Dante) e affrontarvi una serie di terribili prove, sullo scorcio del passaggio epocale da culti agrari a pastorizia, dall’impero delle madri al patriarcato.

Impossibile non amare questa Inanna tenera e passionale, fragile e temeraria, a monte poi di infinite altre proiezioni teologiche, da Ishtar/Astarte a Ecate e Afrodite/Venere, ma in fondo a tutte le altre grandi dee femminili del vicino Oriente e d’Occidente, e in rapporto con quelle di più remoti orizzonti culturali – pensiamo solo all’Estremo Oriente – attraverso itinerari per noi spesso inimmaginati: impossibile non amarla nei suoi tratti umani, troppo umani che si aureolano di ciò che di meglio la nostra specie abbia saputo concepire (e concupire). Impossibile non amarla, tanto più che si è data apposta da fare, visto che il belletto con cui ha truccato gli occhi si chiama “Fa’ ch’egli venga, Fa’ ch’egli venga”, e la piastra che le cinge il petto si chiama “Su, uomo, su!”. Come dire “Datti da fare…”.

Aggiungiamo la delicatezza e la visceralità erotica di questi antichi testi, la loro forza visionaria – venata a volte di vaga ironia – e la potenza letteraria che essi svelano.

Ancora, il volume è il primo della nuova collana Selene, votata alla ricerca del “cambiamento attraverso una continua rivoluzione delle coscienze, riappropriandosi degli archetipi e dei miti in chiave sociale e politica” (così dal sito dell’editore): una collana diretta dal Gruppo Ippolita, “che si occupa di critica della tecnologia in chiave transfemminista e hacker. Per Meltemi editore Ippolita cura la collana Culture Radicali, che ha pubblicato bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldua” . E a fornire al volume la vivida prefazione italiana è Maria Edgarda Eddi Marcucci, coraggiosa autrice e traduttrice che per essersi unita alle YPJ (2017-2018) al ritorno si è vista saettare contro un decreto di sorveglianza speciale (2020) per la durata di due anni in quanto “socialmente pericolosa” (da cui il suo libro Rabbia proteggimi. Dalla Val di Susa al Kurdistan. Storia di una condanna inspiegabile, Rizzoli Lizard 2022: “inspiegabile” non in questa Italia).

D’altra parte, d’interesse anche per i non filologi sono i problemi posti da testi tanto arcaici, e la prefazione (1983) di Samuel Noah Kramer (1897-1990), luminare di storia e lingua sumera, e l’introduzione (sempre 1983) di Diane Wolkstein (1942-2013), narratrice ed esperta di folklore, offrono dell’operazione alla base dell’opera – scelte di traduzione, rapporto con parole misteriose, passo narrativo… – un quadro vivace.

Tutto inizia con una storia dai connotati fiabeschi sul tema della crescita e delle origini, L’albero di huluppu, dove le vicissitudini relative a un albero primordiale frutto dell’incontro tra dio della Saggezza e regina dell’Oltretomba – dunque incarnazione delle duplici forze dell’universo – trapiantato in un giardino sacro a Uruk da una giovane donna timorata della parola degli dei del Cielo e dell’Aria – appunto Inanna, la nostra eroina adolescente – la vedono desolarsi e poi reagire. Lei dall’albero si attenderebbe il trono/dominio e il letto/maturità sessuale, mentre quello diventa “l’habitat delle sue paure e dei suoi desideri inespressi e inconfessati”. A minacciare l’albero sono infatti “un serpente restio agli incantamenti” (a evocare concetti di rinascita e sessualità, impossibile ammansirlo), poi l’uccello Anzu (con muso di leone e ali d’aquila, “brama potere e conoscenza”) e in ultimo “l’oscura fanciulla, Lilith” (madre di demoni e assassina di bimbi, senza legge e dominata dal sesso): Inanna cerca un campione che liberi la preziosa pianta da tali parassiti che esteriorizzano le sue paure, qualcuno declina, finché non arriva il giovane Gilgamesh e fa piazza pulita. Nel senso più radicale, perché l’albero finisce abbattuto: dal suo legno l’eroe trae un trono e un letto per Inanna, lei un pukku e un mikku (forse simboli di regalità) per lui, più doni per tutta Sumer. In una seconda parte del testo qui non raccolta, l’eroe non ancora sufficientemente consapevole per servirsi di pukku e mikku con saggezza, li perderà.

La seconda storia, Inanna e il dio della saggezza, la vede ormai regina del paese, fiera della propria sessualità (“ecco che la sua vulva manifestò la propria forza. / Esultando della sua formidabile vulva Inanna” eccetera: ma in “sumero, la parola che designa l’ovile, il grembo, la vulva, i lombi e l’utero è sempre la stessa”) e della propria maturità. A quel punto, sentendosi nel pieno delle forze, parte per l’Abzu – “il profondo” (stessa radice di abisso), dov’è un tempio eretto al di sopra delle regioni dell’Oltretomba – per rendere lì onore e ricevere poteri dal dio-mago che vi ha sede: quell’Enki, appunto dio della Saggezza ma anche delle Acque (suo simbolo è la capra-pesce) e con vasti poteri sulla terra. Lui dà ordini per riceverla degnamente, bevono forte, e ormai un po’ brillo le concede una lunga serie di me, cioè elementi della cultura sacra di Sumer, doni divini, rituali e di potere, ma anche di vita umana (dal sacerdozio e lo status divino al “bacio del fallo”, “l’arte della prostituzione”, il viaggio e la “dimora sicura”, le tecniche artigiane e la capacità di giudicare e decidere) che lei appunto decide di tenere e vengono posti sulla Barca del Cielo con cui si affretta a ripartire. Quando la sbronza è passata, però, Enki cerca i me e apprende di averli dati a Inanna; ordina allora di riportare indietro la giovane e la Barca. Ma la serva di Inanna difende la padrona e sconfigge le successive ondate di mostruosi servitori di Enki, che non riescono a impedire il rientro dell’eroina a Uruk: e alla fine il dio è costretto a benedire il nuovo assetto. Inanna è ormai donna “piena” e il suo popolo la festeggia.

Il corteggiamento di Inanna e Dumuzi inizia con la resistenza di lei alla prospettiva evocata dal fratello Utu dio del Sole circa un matrimonio con il pastore Dumuzi: lei vorrebbe invece un contadino, ed è possibile vedere qui gli esiti di una complessa dialettica storica e sociale. Ma in piena primavera la schermaglia che segue tra Inanna e il pastore è galeotta, innesca il desiderio… Così la regina – consigliata dalla madre – apre la porta dopo essersi carabistrata al meglio, lui “Premette il collo contro il suo / E la baciò” (“Premere il collo contro il collo di un altro, porre la mano nella mano di un altro e abbracciarsi sono tutte espressioni sumere che indicano il fare all’amore”), e la lunga scena di sesso che segue, in parte giocata attraverso metafore e in parte narrata in termini espliciti e poetici, colpisce il lettore. Reca il canto di un amore torrido di desiderio, un duetto degli amanti espresso con immagini straordinariamente vivide a richiamare da un lato il mondo agricolo (“O Signora, il tuo seno è il tuo campo”) e dall’altro quello pastorale (“Dolce e denso il tuo latte fai, mio sposo”) con tutti gli echi sottintesi.

 

Ella lo volle, ella lo volle, ella volle il letto!

Volle quel letto che rallegra il cuore.

Volle quel letto che colma i lombi di dolcezza.

Volle il letto della regalità maschile.

Volle il letto della regalità femminile.

 

Con promesse di vita condivisa a pieno titolo:

 

In battaglia ti sono condottiera,

nello scontro scudiera,

nell’assemblea sostenitrice,

nella contesa ti sono ispiratrice.

 

D’altra parte Inanna “è capace di fare all’amore tutto il giorno e tutta la notte. È la forza cosmica che dal cielo discende sulla terra. Non solo è una visione spirituale che compare nei sogni: è anche la forza del risveglio che stimola gli uomini all’amore e le piante a dare frutto”, l’unione con lei giova non solo al re ma al contadino, al pastore…

Segue La discesa di Inanna, in più brani. Nel primo, Dal Gran Superno al Grande Infero, la Nostra volge l’orecchio a quest’ultimo, abbandonando “cielo e terra per discendere nell’oltretomba” – esperienza che mancava alla sua comprensione della realtà. Lo fa coronata e impugnando i sette me, dopo aver abbandonato le sue sette città e i suoi sette templi e aver diramato le opportune raccomandazioni alla fedele serva-consigliera Ninshubur. Ma quando si presenta alla prima porta degli inferi, per ordine della sinistra Ereshkigal che lì regna, le viene tolta la corona; alla seconda porta la collana di lapislazzuli, alla terza il doppio giro della collana dal seno. Lei chiede perché e si sente rispondere di tacere, “le leggi d’oltretomba son perfette. Non vanno contestate”. E così alla quarta le tolgono dal petto la piastra che invita l’uomo, alla quinta il cerchio d’oro dal polso, alla sesta le misure sacre di lapislazzuli, alla settima la tunica regale: entra nuda e a testa china nella sala del trono dove viene rapidamente condannata dai giudici Anunna, ed Ereshkigal (la non amata che si nutre di creta e si disseta con acqua sporca, dominata dall’unica brama di un insaziabile bisogno di sesso) fissa su di lei l’occhio della morte, accusandola. Tutto ciò che Inanna ha acquisito in un certo senso gioca ora contro di lei, davanti alla repressa che non ha avuto nulla – e in qualche modo a causa sua. Giudicata colpevole e percossa, Inanna diventa un cadavere, un pezzo di carne putrefatta prontamente appeso a un gancio del muro. La sua morte precipita Ereshkigal in un travaglio spiegabile col fatto che lei stessa è il lato oscuro di Inanna, discesa in fondo al Grande Infero per aiutarla a rinascere.

Passano tre giorni e tre notti (in conformità al periodo di sparizione della luna dal cielo ogni mese), la fedele Ninshubur non vede tornare la padrona e segue le istruzioni: nel tempio a Nippur chiede aiuto a Enlil nonno di Inanna e dio dell’Aria, che però non vuole darle aiuto; va allora a Ur a chiedere aiuto al padre di lei, Nanna dio della Luna, e anche lui non ascolta. Si reca dunque a Eridu, a supplicare Enki, suocero di lei e padre di Dumuzi, che finalmente si preoccupa – lui capisce il motivo della discesa tra i morti – e invia nell’Oltretomba due surreali creature modellate con lo sporco delle unghie, perché si facciano consegnare il cadavere penzolante di Inanna e lo riportino alla vita… La scena presenta una macabra comicità, coi due mamozzi che conquistano empaticamente la simpatia dell’inquietante Ereshkigal (che nel suo mondo triste non è abituata a trovare solidarietà, ancorché interessate) e ridanno vita al corpo di Inanna: peccato che immediatamente arrivino gli Anunna (se vuole uscire di lì, “Deve darci qualcuno in vece sua”) e i terribili demoni Galla le restano alle costole fino alle porte della reggia. Vorrebbero prendere al suo posto la fida Ninshubur, ma Inanna rifiuta; in seguito la scena si ripete prima con Shara e poi con Lulal, figli di Inanna, e lei li salva. Ma visto che il suo sposo Dumuzi a differenza loro non le va incontro, non vive il lutto e si comporta come se nulla fosse accaduto (“Dalla passione dalle mete terrene, Inanna si era volta all’ignoto; dalla passione terrena, Dumuzi si era volto alle mete terrene”, considerando sconsiderato il viaggio di lei e necessario preoccuparsi di cose più concrete), si sdegna con lui e lo fa afferrare e menare dai demoni. Solo in zona Cesarini Dumuzi ha l’intuizione di rivolgersi al cognato Utu dio della Giustizia, perché lo muti in serpente, e così sfugge ai Galla… inizia così anche per lui un viaggio di trasformazione.

Nel secondo brano, Il sogno di Dumuzi, lui braccato e lacrimoso narra a sua sorella indovina, Geshtinanna, uno strano sogno, e lei glielo interpreta: i Galla riusciranno a prenderlo, ma il quadro non è del tutto negativo. Prosegue in tal modo un’angosciata fuga, coi Galla – grotteschi come cattivi da cartoon – che interrogano, cercano di blandire e torturano Geshtinanna per farle rivelare dove sia Dumuzi, invano; assai meno eroico è l’amico del Nostro, grazie al quale Dumuzi viene trovato e legato. Ma chiede ancora aiuto a Utu, che gli concede zampe da gazzella: per cui riesce a sfuggire ancora nel rifugio della sorella, e lì infine lo catturano.

Il terzo brano, Il ritorno, vede il dolore di Inanna per il marito perduto e lo strazio della madre e della sorella di Dumuzi. Inanna è addolorata e avvilita per essere andata dritta per la propria strada e avere così condannato lo sposo. Finalmente una mosca (la più umile delle creature, essa pure alla ricerca di un fato e un senso) si offre di dire dove stia il pastore, ai cigli della steppa: e lì corrono Inanna e la cognata. L’accordo è infine raggiunto: Dumuzi e la sorella si alterneranno, passando a vicenda mezzo anno (in rapporto al ciclo agricolo) negli inferi, e saranno loro responsabili di tenere aperto il varco tra Gran Superno e Grande Infero. Dumuzi d’altronde resta sposato a Inanna, metà dell’anno come Dea dell’Amore e l’altra metà nel suo lato oscuro Ereshkigal, vivendo in quanto re di Sumer in perenne stato di iniziazione e garantendo un beneficio a tutta Sumer. Un discorso fondamentale per capire le relazioni in scena e la stessa soluzione dell’accordo finale andrebbe fatto sull’importanza qui delle coppie fratello/sorella, celesti o terrene, ma non si può che rinviare al volume.

La sezione seguente riporta Sette inni a Inanna, noti come Inni Iddin-Dagan: testi liturgici lirici e potenti, a La Sacra Sacerdotessa del Cielo, Burrasca Tonante, La divina, La Signora della Sera, La Signora del Mattino, La Signora che Ascende per i Cieli e in ultimo a La gioia di Sumer. Il rito del Sacro Matrimonio, a celebrare la sua unione con Dumuzi.

Qui chiudono i testi. Quanto segue sono Commentari, su Storia, cultura e letteratura sumera da parte di Kramer, che approfondisce anche il tema di Scoperta e decifrazione di “La discesa di Inanna”: lavoro di vertiginosa complessità – per vari motivi – durato più di un secolo ad opera di una serie di studiosi su più di quattrocento righe di testo databile attorno al 1750 a.C. e dimenticato per quasi quattromila anni tra le rovine di Nippur fino agli scavi americani 1889-1900. Wolkstein si sofferma invece su Interpretazione delle storie e degli inni a Inanna, sugli echi sapienziali che fanno risuonare nei lettori anche odierni, sulle risposte – a volte fragili – poste dalle domande del testo. L’insieme si conclude con un opportuno elenco di Fonti delle storie e degli inni a Inanna, e con Note sulla redazione dei testi, a chiarire le modifiche apportate al testo letterale sumero.

 

La Dama scende a ristorarsi in terra.

Grande è la gioia di Sumer.

Il giovane si giace con l’amata.

 

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