di Sandro Moiso

Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, Milano 2023, pp. 156, 18,00 euro

“In me ho mille pagine di incubi di riserva, prima di tutto naturalmente quello della guerra” (Louis Ferdinand Céline, lettera a Joseph Garcin, 1930)

Sulla copertina di ogni opera di Céline, edita o inedita, come in questo caso, dovrebbe essere obbligatoriamente appiccicato un adesivo contenente l’indicazione «Maneggiare con cura».

Sono infatti opere, tutte, che possono letteralmente esplodere tra le mani e nella testa del lettore: stordendolo, nauseandolo, provocandolo, disturbandolo, travolgendone ogni residuo di perbenismo, spesso offendendolo in quel fondo di immancabile educazione cattolica che si annida, per cultura ed educazione impiantate a forza nelle teste di ognuno da scuola e oratori di provincia, anche in chi si ritiene immune al richiamo della religione. Morale sessuale inclusa. Famiglia, in tutte le sue forme, compresa.

Non per nulla Louis Ferdinand Céline, al secolo Louis Ferdinand Auguste Destouches (27 maggio 1894 – 1º luglio 1961), può essere considerato il più importante scrittore francese del XX secolo, un gigante della letteratura mondiale e un classico. Punto.
Ma se tale definizione appare ingiustificata e non condivisibile a chi sta leggendo queste righe, è meglio che l’interessato/a torni immediatamente a più “attuali” e amene letture, quasi sempre accomunabili da un’altra avvertenza: «Sotto l’etichetta, niente».

Sotto il nome di Céline, invece, nonostante gli anatemi, i rifiuti e le aprioristiche condanne, ci sta e si trova di tutto. Soprattutto roba per stomaci forti e per chi non voglia scambiare la visione della vita reale con quella proposta dai Teletubbies della critica mainstream e del politically correct.
Nel 1933, all’uscita del suo capolavoro, Lev Trotsky aveva già compreso che:

Louis Ferdinand Céline è entrato nella grande letteratura come altri entrano in casa propria. Un uomo maturo, munito di una vasta scorta di osservazioni da medico e da artista, con una somma indifferenza nei confronti dell’accademismo, con un senso eccezionale della vita e della lingua, Céline ha scritto un libro che rimarrà nel tempo, anche se ne ha scritti altri di questo livello. Viaggio al termine della notte, romanzo del pessimismo, è stato dettato dallo sgomento di fronte alla vita e dalla stanchezza che essa provoca più che dalla rivolta. Una rivolta attiva è legata alla speranza. Nel libro di Céline non c’è speranza.
[…] Céline non si propone affatto di denunciare le condizioni sociali in Francia. E’ vero che di tanto in tanto non risparmia né il clero, né i generali, né i ministri e nemmeno il presidente della repubblica, ma il suo racconto si svolge sempre molto al di sotto del livello delle classi dirigenti, tra gente semplice, funzionari, studenti, commercianti, artigiani e portinai […] Egli constata che la struttura attuale è altrettanto cattiva di qualunque altra, passata o futura. Nell’insieme, Céline è scontento della gente e delle sue azioni. Il romanzo è pensato e realizzato come un panorama dell’assurdità della vita, delle sue crudeltà, dei suoi colpi, delle sue menzogne, senza sbocco, né bagliori di speranza 1.

Tutti questi aspetti della sua opera sono pienamente riscontrabili nel testo, Guerra, appena pubblicato da Adelphi nella collana Biblioteca Adelphi con il numero 748. Un’opera letteralmente “salvata” dopo che ormai quasi ottant’anni fa era stata requisita, insieme a centinaia o migliaia di altre pagine, dai “partigiani” francesi. Come afferma François Gibault nella sua premessa al testo:

La ricomparsa di questo testo e di altri manoscritti inediti, tutti rubati dall’appartamento di Céline all’epoca della liberazione di Parigi, ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Sono stati restituiti agli eredi di Lucette Almansor, vedova e unica erede di Céline, a cui appartenevano, mentre il detentore si era impegnato, così almeno ha dichiarato agli inquirenti, a non consegnarglieli – il che prova come sapesse che lei ne era la legittima proprietaria. A questo sarà bene aggiungere che, dal fondo della prigione danese, Céline si era lamentato di essere stato derubato di diversi manoscritti il cui elenco corrisponde proprio a quelli che adesso sono in mano agli eredi.
Non è il caso di riferire in questa sede le circostanze nelle quali gli eredi di Lucette Almansor sono entrati in possesso del manoscritto di Guerra, insieme ad altri manoscritti di Céline, fra cui quello di Morte a credito. Ma non c’è dubbio che sia la prima volta che, tanti anni dopo la morte di uno scrittore, nella fattispecie sessanta, testi di tale importanza vengono ritrovati e possono così essere dati alle stampe dai titolari del diritto morale sull’opera, i quali si sono premurati di renderli di dominio pubblico il più rapidamente e il più scrupolosamente possibile. 2.

Alcuni indizi fanno pensare che il manoscritto originale sia successivo alla pubblicazione del Voyage au bout de la nuit, il primo romanzo dell’autore francese ad essere pubblicato nel 1932, e che faccia parte di quella trilogia (Enfance, Guerre, Londres) che Céline si era riproposto, in una lettera al suo editore Robert Denoël del 16 luglio 1934, di dare alle stampe l’anno successivo a quello della pubblicazione di Mort à crédit (1936).

In realtà la trilogia non fu mai completata, e sarebbe qui inutile provare a ricostruire a posteriori le cause di tale abbandono, ma sicuramente molti degli elementi che compongono il testo appena pubblicato, e altri contenuti nei manoscritti “ritrovati”, figurano all’interno delle opere céliniane più conosciute, a partire proprio da Morte a credito. Coinvolgendo aspetti dell’infanzia dell’autore, della sua drammatica esperienza di guerra e del successivo soggiorno londinese.

In questa, a partire proprio dal titolo, è comunque l’esperienza bellica a dominare, come già succedeva in un’altra opera successiva, Casse-pipe3, il trita-tutto come Céline definiva la massima espressione delle contraddizioni e della violenza insite nella società “moderna”: la Guerra, per l’appunto.

Un trita-tutto in cui sono destinati a finire ed essere maciullati uomini, cavalli (l’autore apparteneva ad un reparto di cavalleria “appiedato”), vite, sogni, speranze, religione, orgoglio, nazionalismo, famiglia, morale, donne, patriottismo, ideali, dignità e molto altro ancora. Probabilmente tutto, come la guerra in corso ai confini orientali d’Europa sembrerebbe dimostrare ancora oggi.

Ferito, mutilato nella carne e nello spirito, ma premiato con un’onorificenza militare, che userà soltanto per ottenere qualche vantaggio durante il periodo di degenza all’ospedale militare oppure per poter trasferirsi a Londra per non tornare a combattere, l’autore afferma, fin dall’inizio, attraverso le parole del suo alter-ego letterario:

Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l’orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l’uno e l’altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta. Lì accanto Kersuzon era stecchito sotto l’acqua a peso morto […] Ribellarsi non serviva a niente. È stata la prima volta che ho dormito, in quella melassa piena di granate che passavano fischiando, in tutto il rumore che hanno voluto fare, senza perdere del tutto conoscenza, cioè insomma nell’orrore. Tolte le ore che mi hanno operato, non ho mai più perso del tutto conoscenza. Ho sempre dormito così nel rumore atroce dal dicembre del ’14. Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa4.

D’altra parte, al di là delle ferite fisiche e delle loro conseguenze (il “rumore in testa” che accompagnerà Cèline per il resto della vita), come avrebbe potuto liberarsi di immagini come queste?

Erano passate ore e ore, una notte intera e quasi una giornata da quando erano venuti a maciullarli. Ormai erano solo piccoli montarozzi sul pendio e poi nell’orto dove più o meno fumigavano, sfrigolavano e bruciacchiavano i nostri automezzi. Il gran carro fucina ancora non aveva finito di farsi carbonizzare a puntino, il carro foraggero non c’era più diciamo. Là in mezzo il sergente maggiore non l’ho riconosciuto. Più in là ho riconosciuto uno dei cavalli con qualcosa dietro, un pezzo di timone, nella cenere, spiaccicato sul muro della fattoria che finiva di venire giù a sbrindelli. Dovevano essere ripiombati al galoppo lì fra le macerie in pieno bombardamento, cacciati a calci in culo è il caso di dire nel bel mezzo della scarica di artiglieria. E bravo Le Drellière. Sono rimasto ancora accovacciato nello stesso posto. Era poltiglia d’obice bella triturata. Ne saranno arrivati almeno duecento di obici tutti assieme. Morti di qua e di là. Il tizio coi tascapani si era spaccato come una melagranata, è il caso di dire, dal collo fino a metà dei pantaloni. E dentro al budellame si erano messi comodi comodi due ratti che pappavano i torsoli raffermi dal tascapane. Puzzava di carne avariata e di bruciaticcio il recinto, ma soprattutto il mucchio al centro dove ci saranno stati almeno una decina di cavalli tutti sventrati gli uni dentro gli altri. L’aveva finita lì la galoppata, arrestato di colpo da una marmitta, o tre, a due metri.
[…] Io manco a dirlo non sapevo che pensare. Non ero in condizioni di riflettere per bene. Tuttavia, nonostante l’orrore in cui mi trovavo, la faccenda mi scocciava di brutto, oltre al rumore di tempesta che mi portavo appresso. Alla fine sembrava rimasto solo il sottoscritto in quello schifo di avventura. […] Per pensare, anche un minimo, mi ci dovevo mettere a spizzichi e bocconi come quando due si parlano al binario di una stazione quando passa un treno. Un pezzetto per volta di pensiero ben fatto, uno via l’altro. È un esercizio che stanca vi assicuro. Adesso sono allenato. Vent’anni, uno impara. Ho l’anima più dura, come un bicipite. Non ci credo più alle scorciatoie. Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più. Lasciamo perdere5.

Ecocidio, si dice oggi; ai tempi di Céline trita-tutto, massacro, macelleria. Termini meno ricercati, come si addice ad una situazione e a un mondo in cui di ricercato ed elegante non c’è nulla.
Ed è proprio su questo aspetto che la scrittura e la lingua scelta dal soldato mutilato si abbattono senza pietà e senza sconti. Non c’è nulla da salvare in ciò che tutto questo ha concorso a produrre. Né la famiglia:

Brutta storia. [I miei genitori] Sono rimasti seduti due o tre ore buone a guardare che mi riprendevo. A quel punto non c’avevo più tutta ’sta fretta di starli a sentire e di capire la situazione. E poi mia madre ha ricominciato a parlarmi. L’affetto era appannaggio suo. Non ho risposto. Mi faceva più schifo che mai. L’avrei saccagnata di botte, a dirla tutta. Di ragioni ne avevo mille e cento, non tutte chiarissime, ma però velenosissime. Ne avevo la pancia piena di ragioni. Lui non parlava granché. Aveva un’aria poco convinta. Faceva quei suoi occhi da pesce lesso. Adesso c’eravamo in quella guerra di cui aveva sempre parlato, c’eravamo. Erano venuti apposta da Parigi per vedermi. […] Hanno attaccato subito a parlare del negozio, delle terribili preoccupazioni che avevano, che gli affari andavano malissimo. Per via del frastuono all’orecchio li sentivo male, abbastanza però. E non mi disponeva all’indulgenza. Seguitavo a guardarli. Erano sì due disgraziati lì ai piedi del letto, eppure erano due verginelle.
«Fanculo,» ho detto alla fine «non ho niente da dirvi, smammate…».
[…] Io non aprivo più bocca. Non ho mai visto né sentito niente di più schifoso di mio padre e mia madre6.

Né la patria e i suoi rappresentanti:

Ma la serie non era completa. Una mattina mi vedo entrare nella sala un generale con quattro galloni, preceduto per l’appunto da L’Espinasse. Dalla faccia che c’avevano tutti e due, sento la sfiga che mi piomba addosso. Ferdinand, penso io, ecco il nemico, quello vero, quello della tua carne e del tuo tutto… guarda che faccia che c’ha ’sto generale, se non lo fai fuori tu, ti fa fuori lui, dovunque mi trovo, mi dico fra me e me. Pensieri così mi isolano da tutti. Ora come ora parla soltanto l’istinto e non sbaglia. Allora possono pure rifilarmi canzonette, sagre, panna montata, opera lirica, cornamuse, perfino un culo satinato dagli angeli del paradiso. Ho l’intelligenza salda, mi intosto fino al buco del culo, manco il Monte Bianco con le rotelle mi farebbe spostare. Contro il laidume degli uomini l’istinto non inganna. Basta scherzare. Si contano le munizioni7.

E così via con tutto il resto, con tutti gli scarti e gli avanzi di una società di cui l’ospedale militare in cui Ferdinand trascorre una parte della guerra trasmette l’immagine all’ennesima potenza. Luogo in cui il sesso sfiora la necrofilia, anche se, in fin dei conti, l’attività sessuale, in tutte le sue forme, è l’unico indizio di una permanenza di vitalità; la tragedia si trasforma in farsa, il ghigno del cinico si afferma sulla smorfia di dolore e la pietà per l’umana condizione, anche la più disgraziata e immeritevole, fa capolino là dove il lettore ormai non se l’aspetterebbe più.

Quanto c’è qui del Céline che conosciamo? In primo luogo la visionarietà allucinata, presente nella sua integrità; l’invenzione di personaggi biechi, grotteschi e spassosissimi; le situazioni assurde, atroci, esilaranti; il registro basso, quasi un basso continuo, ossessivo; l’onda – nascente e già innervata al periodare – della sua petite musique; e molto altro ancora. Ci troviamo davanti a un torso sgomentante per terribilità, a volte quasi inguardabile per violenza, per crudezza, che anche dietro al rictus più osceno serba un’ombra velata di pietà8.

Già, la petite musique celiniana, fatta di argot, invenzioni linguistiche e grammaticali, neologismi, turpiloquio; sempre tesa alla ricerca non della parola colta o raffinata oppure del merletto letterario, ma di quella più efficace, utile, straziante o insultante per cogliere la realtà materiale e la meschineria della vita, oppressa e priva di qualsiasi forma di coscienza, nella loro più intima essenza. In cui non può sussistere alcuna forma o speranza di salvezza.
Trotsky, nello scritto più sopra citato, aveva ancora rilevato come

Céline, per come è, discende dalla realtà francese e dal romanzo francese. Non deve certo arrossire per questo: il genio francese ha trovato nel suo romanzo un’espressione insuperata. Partendo da Rabelais, anche lui medico, una magnifica dinastia di maestri di prosa epica si è ramificata per quattro secoli, dal gran ridere della gioia di vivere, alla disperazione e alla desolazione, dall’alba luminosa alla notte profonda. Cèline non scriverà più alcun libro dove esploda una tale avversione per la menzogna e una tale sfiducia nelle verità. Questa dissonanza deve risolversi. O l’artista si adatterà alle tenebre, o vedrà l’aurora9.

Trotsky si sbagliava a proposito del fatto che Céline non avrebbe più scritto libri altrettanto rabbiosi (il manoscritto di Guerra è lì per dimostrarlo), ma coglieva il senso dei passi successivi.
L’autore francese infatti si sarebbe fatto, ed è rimasto, il vero, forse unico, cantore delle tenebre che hanno attanagliato il ‘900 (secolo tutt’altro che breve) e che ancora ci attanagliano. Compreso dalla Beat generation e da pochi altri davvero. Elemento, invece, decisamente spiacevole per chi oggi rincorre un modello borghese perfetto in cui le contraddizioni e gli odi che attanagliano il mondo non possono essere mostrati in tutta la loro essenza e brutalità. Di classe, genere, economici o appartenenza culturale e nazionale, comunque essi siano. In cui l’odio per l’esistente deve essere per forza rimosso costantemente, affinché non diventi il motore di un ribaltamento epocale.

Céline potrà essere odioso per il suo antisemitismo, comunque fortemente connaturato alla società francese fin dai tempi dell’affaire Dreyfus, ma mai ha smesso di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre altri, nel difendere la civiltà e la cultura occidentale, hanno esaltato ed esaltano ancora oggi sia le sue forme accademiche e istituzionali che il suo, ben più rozzo, sogno militarista di espansione e conquista. Anche nelle proposizioni apparentemente più liberali.

Il primo non è mai stato perdonato, mentre altri, anche dichiaratamente fascisti, hanno poi potuto facilmente riciclarsi, all’ombra dell’intellettualità che conta, in qualità di “filosofi” o autori alla moda10.

C’è allora da chiedersi se il suo libello più osteggiato e condannato, il suo libro “infernale”, sia tale per l’evidente antisemitismo in esso contenuto oppure per quanto vi è affermato a proposito degli intellettuali à la page e da salotto, per cui Cèline provava sincero schifo e disgusto.

Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è, ve l’assicuro, raffinata neanche tanto così. Io, servitor vostro, credo davvero di esserlo, un raffinato! Sputato! Autenticamente raffinato. Fino a poco tempo fa, facevo fatica ad ammetterlo… Resistevo… E poi un giorno mi sono arreso… Al diavolo!… Però sono un po’ infastidito dalla mia raffinatezza… Cosa si finirà per dire? Pretendere? Insinuare? Un vero raffinato, raffinato per diritto, per costume, garantito, di solito deve scrivere almeno come il sig. Gide, il sig. Vanderem, il sig. Benda, il sig. Duhamel, la signora Colette, la signora Femina, la signora Valéry, i « Théâtres Français »… sdilinquirsi sulla sfumatura… Mallarmé, Bergson, Alain… spompinarsi l’aggettivo… goncourtizzare… cristo! Inculare le mosche, frenetizzare l’Insignificante, cinguettare in pompa magna, pavoneggiarsi, chicchirichire ai microfoni… Rivelare i miei « dischi preferiti »… i miei progetti di conferenze… Potrei, potrei certamente diventarlo anch’io, un vero stilista, un accademico « pertinente ». È una questione di lavoro, un’applicazione di mesi… forse di anni… Si può ottenere tutto come dice il proverbio spagnolo: « Molta vaselina, tanta pazienza, e l’elefante s’incula la formica ». Ma sono ormai troppo vecchio, troppo incancrenito, troppo incarognito sulla maledetta strada del raffinamento spontaneo… dopo una dura carriera di « duro fra i duri » per ritornare indietro ora! e andare anche a concorrere per la libera docenza di trine e merletti! Impossibile! Il dramma sta qui11.

E’ difficile, estremamente difficile, appropinquarsi a una tale scrittura e lo si nota anche in coloro che muovono dalle migliori intenzioni, come capita nella premessa a Guerra, in cui lo sforzo di dare un fondo di veridicità ai fatti narrati sembra più importante del cogliere le “cause” dell’ira profonda e nel dolore che lo animano.

Ora, capite, nessuno scrittore rispettabile al mondo vorrebbe Céline come collega, se non forse François Villon, morto nel 1463, ben prima della nascita di Céline, ma ciò costituisce proprio la sua autentica fortuna: nessuno che voglia brillare di luce impropria accostandosi a lui senza alcun merito, come ogni tanto, invece, capita nei confronti di altri scrittori, non più in grado di difendere la propria alterità dall’aldilà.

Motivo, fra i tanti, per cui, anche se nessun “raffinato” vorrebbe essergli accostato, vale ancora oggi la pena di lasciarsi trasportare e abbagliare dalla lettura delle intense pagine di uno scrittore, forzatamente, unico.


  1. L. Trotsky, Céline e Poincaré, 10 maggio 1933, pubblicato su «Atlantic Monthly» nell’ottobre del 1935, ora con il titolo Un romanziere e un politico in L. Trotsky, Cultura e socialismo, Opere scelte vol. XIII (pp. 245- 253), Prospettiva Edizioni, Roma 2004, pp.245-246  

  2. F. Gibault, Premessa a L.F. Cèline, Guerra, Adelphi, Milano 2023, p. 15  

  3. L. F. Céline, Casse-pipe, Einaudi, Torino 1995, prima edizione francese nei «Cahiers de la Pléiade», 1948.  

  4. L. F. Céline, Guerra, op. cit., pp. 25 – 26. Parole in grassetto ad opera del recensore.  

  5. Ivi, pp. 26 – 27.  

  6. Ivi, pp. 48 – 49  

  7. Ivi, p. 56  

  8. O. Fatica, Nota del traduttore in L.F. Céline, op. cit., p.156  

  9. L. Trotsky, op. cit., p.253  

  10. Si veda in proposito: Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008.  

  11. L. F. Céline, Bagatelle per un massacro, traduzione di Giancarlo Pontiggia, Guanda, Milano 1981, (prima edizione francese 1937)