di Simona Castanotto

Vite ai margini del Paxton Arms

Agnes Owens, Gentiluomini dell’Ovest, ed. orig. 1984,  riadattata nel 2008; trad. di Anna Mioni, post scriptum di Alasdair Gray, pp. 160, € 16, Safarà, Pordenone 2022.

Scivola giù come un sorso d’acqua fresca Gentiluomini dell’ovest, opera del 1984 di Agnes Owens, riadattata nel 2008 e uscita di recente per Safarà Editore. Un sorso d’acqua che ai protagonisti andrebbe di traverso, perché proprio la costante presenza dell’alcool è uno dei fili rossi che conduce dentro e fuori dal labirinto di una piccola comunità di personaggi dai connotati analoghi, eppure sempre distinguibili grazie a poche ma vivide pennellate ben piazzate dall’autrice.

Una storia in cui i coprotagonisti quasi si disegnano da soli, attraverso l’interazione col gruppo dei loro simili. Persino il cane, “così alto e magro e con quel muso affilato e malvagio”, in questo microcosmo assurge a interprete, senza nemmeno disturbarsi a suscitare la pietà che la sua vita sfortunata, i calci presi e l’aspetto rognoso richiederebbero, e anzi diventando un grandioso espediente per raccontare l’indole dei suoi tanti padroni, che si alterneranno, senza troppi complimenti, insieme alle vicende della comunità.

L’opera racconta le vicissitudini di Mac, un muratore di ventidue anni che annaspa per campare in quella che è la Glasgow degli anni Settanta/Ottanta, lasso temporale che si può dedurre, per sommi capi, dal dibattito sulla tv a colori e dalla citazione di Wacky Races – in italiano La corsa più pazza del mondo – oltre che dalla presenza dell’incombente flagello della mancanza di lavoro che si intuisce a fine racconto. È la Glasgow di quando la vecchia industria va scomparendo, la disoccupazione aumenta e la nazione scivola in recessione profonda. Una città in cui, per questa porzione di società, un pub scalcinato, il Paxton Arms, si eleva al ruolo di Agorà.

Owens (1926-2014) dipinge della classe lavoratrice scozzese un ritratto esilarante, per poi sferrare colpi alla tela come Lucio Fontana, usando un bisturi affilato, e dimostrandosi esperta nell’arte di sezionare e poi ricucire assieme dramma e commedia. Inevitabile pensare a Ken Loach.

Non è un caso che a scoprirla sia stato il grande scrittore, artista e drammaturgo scozzese Alasdair Gray, autore di Lanark (1981: Lanark – Una vita in quattro libri, Volumi 1-4, Safarà 2015-2017), ritenuto una delle figure più influenti della letteratura e dell’arte scozzese contemporanea e noto per i suoi romanzi, racconti e opere teatrali che esplorano temi caldi come la politica, la società, l’identità nazionale e la condizione umana. Gray è stato anche un talentuoso artista visivo. Le sue creazioni sono state esposte in gallerie d’arte e musei di tutto il Regno Unito e ha spesso realizzato le copertine dei suoi libri, accortezza riservata pure a questo lavoro di Owens. Anche la postfazione è sua, ed è un mini saggio su ciò che Robert Burns definiva “l’onestà povera”, quella che lascia al lavoratore un gruzzoletto risicato per svagarsi dopo aver offerto l’intera settimana a un lavoro che ha poco da invidiare a uno stato di schiavitù. La verità, spiega Gray, è che la povertà “è così vergognosa che persino i poveri detestano che venga loro ricordata”, ed ecco perché è tanto difficile che un’opera di questo genere riscuota il giusto successo. Il romanzo, merita ricordare, è del 1984, nel profondo dell’era-Thatcher.

In un’intervista del 2008, l’autrice spiega in una esternazione che riporta subito il pensiero a Verga:

“Preferisco scrivere di persone che sono condannate, forse, fin dall’inizio. Sai, forse a causa del loro ambiente, dei loro genitori o perché non hanno avuto una possibilità e finiscono per essere disprezzate. Preferisco dare voce a persone del genere”.

Mac è senza dubbio una di queste. Nel mondo maschile in cui si muove, l’unica donna è la madre, con cui convive. E difatti questa assume ora le vesti di una fidanzata, senza tratti morbosi, s’intende, ora quelle di una figlia spesso capricciosa e solo di rado quelle morbide e accoglienti della maternità. Assolve, insomma, a tutti i ruoli possibili, persino quello del compagno di merende, in un contesto dove anche solo immaginare di avere una ragazza vera, il prospetto di mettere su famiglia, è pura utopia.

Paradossale che in questo universo fatto da uomini, il grande assente sia proprio il padre del protagonista, che suo malgrado e senza mai ammetterlo a sé stesso, lo cerca in Paddy McDonald, un poveraccio che abita un tugurio in compagnia di un gatto e di conigli tenuti vivi nel forno spento, un ubriacone con un cuore che tutti schifano ma da cui, prima o poi, ritornano, sempre nei confini dell’affettività limitata che il contesto grondante “l’ognuno per sé” concede.

La scrittura di Owens è cruda ma brillante, in grado di ironizzare perfino quando batte su tasti sensibili come la nazionalità, l’estrazione sociale e la religione, senza risultare mai offensiva.

Personaggio riuscito in modo magistrale è il povero Tolworth “Toly” McGee, ex compagno di Mac che torna in città per un breve periodo, sulle cui disgrazie non si può fare a meno di farsi una sonora risata, e che riporta alla mente le vicende de La cena dei cretini (Le dîner de cons), esilarante film del 1998 scritto e diretto da Francis Veber.

Eccellente la traduzione di Anna Mioni che rende godibile l’opera attraverso l’escamotage ben riuscito di usare anacoluti e imprecazioni che rispecchiano l’originale, non ritenendo adeguato l’ utilizzo di un dialetto italiano. “E quale, poi? si domanda.

Il lettore, a parer mio, potrebbe cimentarsi nel tentativo giocoso di trasporre i dialoghi in sardo, col pensiero rivolto a William MacDougal, comunemente detto Willie, giardiniere nella serie di cartoni animati The Simpsons.Infatti è scozzese, Willie, ma in alcune sequenze del doppiaggio in lingua italiana dichiara di essere sardo e, inoltre, la serie di quel genio di Matt Groening condivide col libro in oggetto un umorismo irriverente che affronta una vasta gamma di temi, tra cui politica, società, cultura popolare, famiglia e molte altre sfaccettature della vita moderna.

Tornando a noi, non ci resta che constatare che, se al principio è l’umorismo, ad accoglierci, chi ci accompagna senza troppi complimenti all’uscita è il sarcasmo.

Mac, ricavandosi qualche momento di solitudine che lo porta fuori da una routine che stordisce e aliena, comprende di avere un piede nel baratro e fa una scelta. Lui è diverso dagli altri, si sente diverso: “You could say that Mick and Baldy were the true gentlemen of the west […].Yet the difference between them and me was that I liked working”, e tiene alla propria unicità, tanto da amare le cicatrici che porta in faccia.

Mac si dirige verso un futuro ignoto, d’altronde ce lo aveva detto ricordando i tempi in cui, da bambino, giocava ai cercatori di fantasmi: “Qualsiasi cosa, qualsiasi, purché mi desse l’idea di qualcosa di soprannaturale”.

Agnes Owens, socialista, donna della classe operaia e pioniera della nuova ondata delle scrittrici scozzesi del tardo ventesimo secolo, è la più ingiustamente trascurata di tutte le scrittrici scozzesi viventi. “The most unfairly neglected of all living Scottish authors”, diceva Alasdair Gray, col quale non potrei trovarmi più d’accordo.