di Emanuela Cocco

Mattia Grigolo, Temevo dicessi l’amore, pp. 140, € 15, TerraRossa (collana Sperimentali), Alberobello (Bari) 2023.

 

«Prova a immaginare se è il mondo a esplodere, sciogliersi, disintegrarsi, scomparire. Ok?».

 

Da qualche parte nel mondo scomparso, qualcuno ricorda. È Ofelia, la ragazza angelo, che però è una donna silenziosa e una vecchia, la ragazza che ha perduto un bambino, la ragazza che non avrà mai un bambino, la ragazza che è una bambina.

Qualcosa perdura tra le macerie del suo mondo che è crollato senza che lei avesse la possibilità di salutarlo, di dire addio. Forse è per questo che da qualche parte, ovunque sia finito, il mondo scomparso continua a tornare.

Da qualche parte nella sua storia, che però è una moltitudine di storie, cose e persone ritornano per provare a sanare la sua ferita, rimettere insieme i pezzi di quello che è andato smarrito.

 

E solo a quel punto alza gli occhi a incrociare quelli di Adamare.

Lei si avvicina a Ofelia appoggiandosi allo stipite dalla parte opposta. Sembrano incorniciate in un quadro senza luce.

 

Nei racconti di Temevo dicessi l’amore Mattia Grigolo costruisce, con un attento montaggio di scene e dialoghi trafitti da brevissimi e affilati elementi descrittivi, un reticolato di motivi della narrazione variabili e fissi che connette vite umane e animali, vita degli oggetti e dei sogni, paesaggi fisici e interiori, conversazioni, attimi vissuti, sognati, istanti fantasticati di vita che avrebbero potuto esistere e invece è arrivata la morte, di passioni silenziate, di amori implosi perché ci si è messa di mezzo la vita, residui di possibilità imbrigliate in giornate qualunque che al momento, quando sono state, hanno trattenuto dentro qualcosa di grandioso, che però non si può dire se non ricordandolo, nel modo parziale e impreciso che ha la memoria di trattenere le cose quando ormai le ha perse per sempre.

 

Ofelia forse pensa a quanto è difficile vedere la schiena di questa rossa con le lentiggini allontanarsi per sempre.

 

Ofelia, personaggio multiplo, sfuggente, che l’autore porta sulla scena aggrappandosi a dettagli fulminei che ne catturano l’essenza, vive questi incontri minimi senza pretendere nulla, senza domandare agli altri, alla storia, nessuna risoluzione, senza attendere una redenzione che l’autore stesso sembra suggerire essere impossibile perché fuori tempo.

Tutto è già avvenuto nella sua vita anche quando questa è appena cominciata perché Ofelia, l’angelo, come lei stessa si definisce nel racconto che apre la raccolta, viaggia nelle storie mantenendo dentro sé un nucleo immodificabile che è fatto di assenza e di rimpianto, di perdita. I personaggi dei racconti di Mattia Grigolo sono fatti di tutto quello che hanno perso. La perdita che li attraversa rivive in certi dialoghi in cui le cose della vita sembrano, parafrasando Carnevali, citato in un racconto, attendere il nostro terribile grido.

 

Le lampade cinesi si spargono nel cielo come fuochi d’artificio esausti. Chissà dove si spegneranno. Chissà quando.

 

Nelle scene irrompono brevi annotazioni, a volte immagini deformate della realtà, singole frasi che rendono conto, come di sfuggita, di un mondo all’esterno che continua a vivere e a suonare la sua musica scomposta, a tratti disturbante, un mondo che si ostina a marcare il territorio con le sue luci, suoni, colori, mentre dentro Ofelia e i suoi fantasmi consumano un tempo altro, intriso di ricordi, visioni, di oggetti e parole, ammassati nella mente senza un ordine prestabilito.

Il movimento che caratterizza le storie di questa raccolta è una sorta di scossa emotiva, una struttura temporale mai lineare, capace di mimare l’incessante setacciare l’esperienza traumatica vissuta dalla protagonista non per comprenderla a pieno, questo forse è impossibile, quanto per trattenere di quanto è fuggito almeno un brandello di vividezza.

 

Da qualche parte un’auto si mette in moto, il motore va su di giri. Qualcuno fatica a staccare il piede dalla frizione.

 

E la vividezza di queste sottili messe in scena, che forse in gran parte si svolgono nella mente della protagonista, è il segno distintivo della scrittura di Grigolo, capace di irretire il lettore attraverso un meccanismo sempre ben congegnato di tensione e rilascio della trama, accompagnato dall’accuratezza della scrittura, che immerge i racconti in un’atmosfera indefinita, grazie anche al ritmo e al nitore musicale dell’esecuzione della frase.

 

Lo avevamo aspettato fuori e quando era uscito si era messo a piangere mentre provava ad accendere una sigaretta.

 

L’autore pone il lettore in una condizione di frustrazione delle aspettative immediate costringendolo ad attraversare senza bussola il mare del racconto per trovare, quando ormai lo riteneva disperso, il proseguimento di un discorso, di un ragionamento, di un arco della narrazione.

Nulla è mai veramente compiuto in queste storie perché tutto si allontana e poi ritorna, come il ricordo, come l’emozione dalla quale è impossibile separarsi mai in modo definitivo.

 

E allora ci eravamo abbracciati davvero e qualcosa era sparito intorno a noi: la nostra amica, il resto della gente.

 

Ecco allora che il crollo di un ponte, la morte del padre, la morte del figlio, la morte del cane, di un amore, l’incapacità di legarsi, la separazione dalla famiglia, la vecchiaia, diventano enigmatici oggetti di scena che variano la scenografia senza mutare però l’oggetto della rappresentazione.

Solo la morte è immortale, è detto da uno dei personaggi del racconto di apertura, ed è proprio la morte l’esperienza determinante di perdita e scomparsa capace di eternare quello che ci è stato sottratto, capace di renderlo visibile e percepibile ai nostri sensi, oltre che alla nostra mente, per sempre.

La relazione è al centro delle storie. L’amore, declinato nelle diverse sfumature che vanno dall’innamoramento, all’amicizia, al rapporto coniugale, fino alla semplice affinità elettiva tra sconosciuti è l’elemento di innesco che partendo da una traccia comune fa detonare nelle storie una riflessione stratificata sul senso della vita, della morte e della memoria.

I personaggi di Mattia Grigolo sembrano fare capolino nelle storie senza la pretesa di restare, sono fantasmi che baluginano nel buio della vita, che la rischiarano, la animano di domande e incertezze, o di rimpianti, per poi dileguarsi silenziose, così come sono venute.

Quasi mai la loro presenza porta a un chiarimento, la traccia che lasciano è un’impronta di memoria sempre riformulabile, inesatta, contaminata dall’emozione e dal dubbio.

Cosa è vero e cosa non lo è? Abbiamo la sensazione che l’autore voglia suggerirci di guardare sempre oltre ai fatti e sotto la trama delle parole.

L’impianto dialogico dei racconti mostra come il sottotesto sia forse l’unica chiave di lettura possibile delle intenzioni altrui. Tutto quello che conta non verrà mai pronunciato perché rappresenta un segreto anche e prima di tutto per chi quelle parole le trattiene dentro di sé.

 

Poi si erano guardate e, ognuna nel suo cratere, avevano capito di volersi bene davvero.

 

Quanto conosciamo gli altri e noi stessi?  Cosa resta, alla fine, del bambino che siamo stati, della ragazza innamorata senza scampo che ha subito un rifiuto, della madre che ha seppellito suo figlio, della donna che non sa amare come gli altri si aspettano di essere amati?

 

«Che succede se si separano due pappagallini inseparabili?».

 

Sapere o non sapere le risposte non conta nulla. Con una scrittura solida, attraversata da bagliori improvvisi di frasi portatrici di immagini esatte eppure ambigue, Grigolo riesce a creare un montaggio malinconico, ma che sa essere anche inquietante e fantasmatico, di una condizione comune a tutti noi, quella segnata dalla transitorietà dell’esperienza.

L’imminente separazione tra noi e gli altri, tratto ineludibile di ogni esistenza umana, ci tormenta e ci salva ogni giorno.

 

Sorridiamo delle cose che non riusciamo a lasciare andare, perché, in fondo, sono i fantasmi a tenerci attaccati alla vita e a determinare cosa saremo.

 

Possiamo restare feriti, azzoppati dalla vita, come il cane che non vuole più alzarsi, protagonista di uno dei racconti, oppure possiamo decidere di rintanarci in un buco finché non arriverà qualcuno abbastanza interessato a noi da decidere di tirarci fuori di lì, o possiamo anche semplicemente scomparire ma non potremo mai, neanche quando ce ne saremo andati sul serio, avere la certezza che cesseremo di esserci per sempre, e in ogni circostanza, perché , come nel caso di Ofelia, qualcuno potrebbe pretendere la nostra presenza e inventarla così, senza un copione fisso, portandola avanti finché non sarà costretto ad ammettere che è proprio per continuare a vivere che  abbiamo bisogno di morire, sparire a noi stessi e dileguarci un numero infinito di volte, finché ci sarà concesso farlo.