di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. Attraverso questo senso percepiamo voci misteriose e viviamo in stretta unione con la natura, in un legame vitale, fatto anche di sentimento. Si tratta certamente di una espansione delle facoltà di percezione, di un ampliamento della capacità di immaginazione. La creazione poetica di E. Testa rappresenta un modo di pensare rivoluzionario perché cambia radicalmente i soliti schemi dell’intelligenza e del sentimento circa la natura, proprio in un tempo in cui il disastro climatico fa prevedere l’estinzione della specie umana, senza che il mondo faccia nulla per evitarla. Al posto di una natura inerte, siamo di fronte a un cosmo e una vita che non lasciano fuori la dimensione dell’ignoto, perché un aspetto inconoscibile delle parole proviene dalla profondità della terra, dai suoi elementi vegetali e inorganici, e suscita una comunicazione “che si sente” e “non si può ripetere”; è proprio questa visione a interessare il poeta, che predilige le persone “vedove della vita”, lepri che scappano e non hanno niente da spartire con chi affronta la vita, con i suoi problemi ordinari, con grinta. Le poesie sono voci che vengono a noi in modo oscuro: “tante voci/notturne in pieno giorno”. Voci ebbre che devono legarsi alla catena materiale del conscio, con la sua grammatica e le sue regole. Vi è una visione della bellezza del linguaggio come mondo sonoro, di voci e di muto, ancora prima di essere vergato sul foglio: “A me piace sentire le cose cantare”.

Il linguaggio della memoria e la voce come suono si materializzano in segni, ma prima della lettera scritta vi fu il refuso, il sussurro, la parola orale involontaria e inconscia, appartenenti alle voci della terra e a ciò che vive al suo interno. Anche dalle cose emana una eco che filtra non il niente ma “un tiepido soffio”, il soffio di una dirompente dimensione ctonia. Un’energia primordiale che attraversa la persona è quella che gli elementi naturali trasmettono, il contatto con una pietra, ad esempio. Sono, queste, le uniche sensazioni positive della vita, tangibili ma non esprimibili.

Lo stato esistenziale desiderato del poeta è quello di “essere invisibile nel completo anonimato”, “fuori dalla vita”, “solo di fronte al mio io”, in uno “stato provvisorio di esilio”, “in una soglia notturna d’elisio”. Uno stato di abbandono se consideriamo l’abbandono come distacco dalla vita laboriosa del mondo. Quasi ogni poesia contiene figure del mondo vegetale e di animali, soprattutto di volatili. Vivere in sordina vuol dire vivere come cuciti dietro il risvolto di un arazzo, nascosti e poggiati a qualcosa di materiale. Ma legare la propria vita al futuro dei figli, all’umanità in generale, considerando la casa come vita che continua, può essere pericoloso: una poesia (La caduta del cielo) mostra, in una sorta di allucinazione, come il peso dei morti fa sprofondare nel più profondo della terra i loro corpi, inghiottendo anche la casa costruita sopra, in una specie di implosione. Possiamo morire in qualsiasi momento, e conosciamo la morte solo attraverso il volto dei morti, il loro accumulo nella terra.

Vivere “fuori dalla vita” vuol dire vivere come cuciti dentro la terra, come radici di alberi o come rocce, dove un mondo di solitudine e di silenzio vive in pace. Come un cupo e scuro pino da pece, albero molto resistente al fuoco e al vento, impermeabile alla pioggia, è il poeta: estraneo agli eventi esteriori. Della terra siamo prigionieri, come le sterne che salgono e scendono continuamente al mare. A volte succede che nella solitudine senza gente, i passi diventino la trama sotterranea delle radici, e la lingua madre, la lingua dei primi rudimenti diventa viva e ci parla. Il sole che rende viva la terra sorride per lei, per le gemme di aprile, e l’aria è abitata da suoi propri sogni che vengono a noi la notte.

Dobbiamo pensare la condizione di separazione dal mondo come una condizione di lavoro della fantasia, ben descritta da una poesia in cui il poeta immagina, al mattino, di essere come un merlo zoppo che vaga nell’orto e di cantare sotto la sua pianta preferita. Benedetto è l’abbandono che è capace di stordire in una estasi di bellezza, come il profumo dei fiori di narciso.

Oppressive sono le immagini della vita terrena: un grand Hotel dalle finestre che sono lastre di vetro non apribili; l’esumazione di cadaveri nel cimitero; i morti che appaiono nel sonno operosi e attivi come erano in vita.
La morte dovrebbe essere un salto verso un altro cielo, che non ci limiti a ritornare a terra per cercare il cibo, in una terra dove ogni pezzetto è accaparrato dalla proprietà privata ai fini della grande produzione, impoverito dallo sfruttamento intensivo delle coltivazioni o della pesca. Sarebbe bello un volo in una terra, verso un’erba di nessuno. Quando un uccello muore, sembra che voli in picchiata, come precipitando in un altro cielo: è così che la morte dovrebbe essere nel suo significato. Anche gli oggetti vivono una sorta di morte, quando non esiste più l’ambiente a cui appartenevano. Se vi siete fermati a osservare oggetti d’infanzia o di parenti non più viventi, noterete come una tristezza in essi, vi accorgerete che gli oggetti e le persone sembrano condividere lo stesso desiderio di oblio nel viaggio del tempo che corre, in un credo comune: “parole carezze cenere”, dopo la vita sia l’oblio di quello che un tempo fu.

Non si può trovare nella scrittura un luogo in cui trovare riparo per il proprio essere. Non siamo noi a decidere dove andare, prevalgono i rovi da evitare, nella vita come nella scrittura.
Il distacco del poeta dal mondo ha anche un aspetto teologico, vi è un vissuto di lontananza di Dio, una disperazione che ha una certa somiglianza con quella di Giobbe, una disperata empietà: da una parte vi sono accuse di essere da Lui abbandonato e nello stesso tempo vi sono invocazioni di carezze. Dio è un “superbo bugiardo”, “un brigante di strada”. Al “Dio ignoto” chiede però una carezza, perché forse è “il mio solo compagno”, e al “mio grande nemico” dice: “non sparire!”. Dio ha un volto così muto da essere accecante. Ci viene in mente G. Anders quando affermava che “la disperata empietà è meglio della virtù che non dispera mai”.

La vita, nel migliore dei casi, è “serena infelicità” che trova riparo nell’ombra, o guarda “l’esterno dall’interno”, come fanno le piante. Esiste una forma di gioia, ma è esuberanza che prende senza motivo. L’autore cerca un luogo dove nascondersi dal mondo, dove non vi sia il controllo sulla nostra mente. La comunicazione digitale ci ha addomesticato a non dire niente se non un “tritume di parole, albume della voce”. La voce come albume, viscida appiccicosa e incolore, insapore, è la voce filtrata dallo schermo, inautentica e spettrale.

La vita è schiacciata da una pena tremenda, la distruzione e la corruzione di tutte le cose. La vita umana è la stessa identica vita di un dente di leone, “una vita plebea”, che viene “calpestato sui crocevia”, strappato dalle persone per il gioco di soffiarci sopra, e “la fine indecifrabile, nel vento”. Variando dei brani originali di F. Nietzsche, l’autore scrive:

“Sono facile alle lacrime in questi giorni e talmente irritabile verso l’umanità da aver sempre bisogno di medicine. Mi servono per contrastare il veleno che mi hanno inoculato: la sdegnosa indifferenza altrui mi ha spinto al disprezzo di me stesso e io non ho la forza per sopportarlo. La gente si stupisce del mio volto: sembra quello di chi è appena arrivato da un paese dove non abita nessuno. […]. Nelle mie notti in bianco vado a fondo e getto dal bordo del letto lo scandaglio nelle acque nere della coscienza. Per scovare un’aurora, per afferrare le mie idee: uccelli – gufo aquila allodola picchio – in volo. Non ho però nessuno con cui parlare. Sono stanche le stelle. Nel mio cielo, sono solo. Totalmente solo. E così! Arrivederci!”

Procedere dal buio verso un buio più profondo, non verso la chiarità, vuol dire dimenticare la vita, e questo non è un male, perché “la vita è l’invenzione meglio riuscita del diavolo”; gli affetti una promessa di amore non mantenuta.
L’erba di nessuno è una risorsa improduttiva; un luogo non privatizzato e non soggetto a un valore di mercato della quale all’inizio dell’età moderna in Inghilterra l’economia si era appropria indebitamente, creando delle recinzioni, le enclosures.

Era, la terra di nessuno, la risorsa di sostentamento e di sicurezza per chi viveva prima che nascessero le enclosures, recinzioni che dividevano la classe dei proprietari terrieri da chi non aveva terra e quindi separavano il mondo in ricchi e poveri.
Senza nominare i processi economici dell’economia di mercato, il poeta scrive:

finita quella su cui si può vantare
qualche diritto
di consuetudine o di proprietà
s’incomincia a tagliare
l’erba di nessuno.
La falce passa veloce
sulle ripe scoscese,
nei fossati umidi di guazza
anche ad agosto,
sui muri delle lunari
piramidi azteche dei monti.
L’esile pianta di una terrazza
e la sua tenera malva
sono una riga lontana
tra cielo e mare.
Qui pietra su pietra
e poco prato:
i pruni graffiano le mani.
Ma nessun filo, stelo o stecco
Deve andare perduto.
Tutto serve
per sfamare bestie e cristiani
– per dare fiato
a questo dolore muto

Bisognerebbe invece dare tributi e nutrimenti alla terra: il poeta, tagliandosi un dito, è orgoglioso che il suo sangue sia finito in terra. L’erba di nessuno è anche la vita in uno stato di concentrazione e solitudine, destinata purtroppo a essere continuamente interrotta dalle sollecitazioni che vengono dal mondo: innanzi tutto quella di inserirsi nella sfera sociale e nelle relazioni del consorzio umano. Lo stato di solitudine e di silenzio significa trovarsi soli in quello che si fa senza distrazione alcuna; una elevata forma di concentrazione in cui la mente fa tabula rasa del mondo: vera e propria meditazione spirituale che rappresenta una pace interiore estatica.