di Giorgio Bona

È l’Arbat la via principale che ha sede nella capitale dell’ex impero del socialismo reale.

Dal 1986 i lavori di ristrutturazione, in perfetta sintonia con lo stile becero e devastante del sistema capitalistico e delle politiche neo liberiste, l’hanno trasformata facendole perdere il fascino di un tempo.

Quando si parla dell’Arbat è chiaro il riferimento alla via letteraria di Mosca, la sua anima.

La via dei cortili, così come era conosciuta,  ha smarrito nel grande processo di occidentalizzazione quella che era tutta la sua incontrastata bellezza.

Con la trasformazione in atto uno dei fenomeni più imponenti del grande processo avviene proprio in campo letterario e musicale.

Proprio sulla magniloquente Arbat in profumo di occidente, all’incrocio con la via Krivoarbatskj, ci troviamo davanti al Muro di Coj, che rende omaggio a Viktor Coj (1962-1990), il cantante dei Kino morto a solio ventott’anni in un incidente di auto a Tukums, in Lettonia, mentre era di ritorno dopo una battuta di pesca. Il muro rappresenta un punto di incontro di giovani che cantano le sue canzoni. Sulle pareti si trovano disegni e scritti che lo ricordano.

I Kino, insieme ai Mašina Vremeni (Macchina del Tempo), rappresentavano il gruppo più in voga con la nascita della nuova Russia. La loro raccolta più famosa, Gruppa Krovi (Gruppo sanguigno), 1988, portò il rock sovietico nell’olimpo musicale del genere.

Il gruppo si era formato a Leningrado, ora San Pietroburgo, nel 1981 e uscì il loro primo album l’anno successivo in una scena musicale che viveva ancora in semi clandestinità.

Facendo poche decine di metri ecco il monumento dedicato a Bulat Okudžava.

Oltre ai grandi poeti e scrittori non può mancare l’immagine di un grande come Okudžava (1924-1997), il cantore di questi cortili con l’immagine di un passato che resta vivo nella memoria.

Il celebre mondo della canzone di protesta nel dopoguerra in Unione Sovietica fu caratterizzata da due grandi chansonnier: Vladimir Vysockij (1938-1980) e appunto Okudžava, il primo rappresentante della canzone di protesta vera e propria, il secondo con un risvolto più intimista.

Okudžava rappresentò il figlio della Arbat, di quella strada letteraria che continuava la sua tradizione nel dopo guerra e che non possedeva uno stomaco da struzzo per digerire un cambiamento così radicale.

Nato a Mosca ma di origine georgiana e armena veniva da una famiglia di fede comunista e, nonostante la fede e la devozione al partito, passò nel tritacarne della ferocia staliniana.

Un cantautore italiano, Alessio Lega, ha dedicato molto del suo tempo a un bel progetto, quello di far conoscere le canzoni del celebre chansonnier in un concentrato di bravura e umiltà, calandosi nel personaggio e dando sostanza a ciò che Bulat rappresentava per la cultura russa e non solo.

Il lavoro che Lega ha fatto non rappresenta soltanto un’operazione discografica e musicale di grande valore, confermando il valore dell’opera di un poeta della canzone tra i più grandi al mondo, ma è anche un’operazione culturale straordinaria.

Diventa troppo riduttivo parlare di Bulat Okudžava come di un chansonnier, anche se è considerato il padre della canzone russa, la canzone di impegno. Parliamo di un grande poeta perché la storia di quel tipo di cantautori russi del secolo scorso ha un forte legame con la poesia.

Le sua canzoni si propagavano da orecchio a orecchio, da registratore a registratore, non potendo essere riprodotte in modo più diffuso.

Credo che, pur conoscendo di fama Bulat Okudžava, pochi conoscano i testi delle sue canzoni. Sono testi abbastanza semplici ma di grande intensità e profondità da lasciare il segno.

A fronte della grandezza di questo grande autore per il peso storico che ha avuto nella cultura russa del Novecento, comprendiamo meglio la qualità del lavoro di Alessio Lega che con grande spirito di servizio e un’operazione artistica di qualità ne ha riproposto la voce lavorando sulle sue canzoni tradotte in francese.

Pur partendo da una lingua che non era quella dell’autore Lega è riuscito a trasmetterne l’anima: uno di quei miracoli espressivi che riflettono in tutto il loro slancio tensioni e speranze di un intero popolo, come accade soltanto nel panorama della letteratura mondiale e della grande canzone d’autore. Vengono così proposte canzoni che affondano nel ricchissimo folklore georgiano e armeno dalle terre del padre di Bulat, fucilato durante il terrore staliniano e della madre inghiottita dal Gulag.

Ecco allora le canzoni/poesie di Okudžava in CD accompagnate da un libretto di 48 pagine (Nella corte dell’Arbat. Le canzoni di Bulat Okudžava, Squilibri, Roma 2019) senza dimenticare Michele Straniero che nel 1967 aveva pubblicato per i Dischi del Sole Un nastro da Mosca : 1960/1967: canzoni del disgelo, cantate da Bulat Okudžava (Edizioni del gallo, Milano), contenente due composizioni: La vita del soldato e Il gatto nero.

Era stato proprio Straniero a proporre Bulat Okudžava al Premio Tenco, assegnatogli in effetti nel 1985.

La figura del bardo russo è approfondita nel libro di Giulia De Florio, sempre edito da Squilibri nel 2018, Bulat Okudžava. Vita e destino di un poeta con la chitarra.

Ciò detto mi fermo e rimango in attesa davanti al monumento di Bulat, volgendo le spalle al Muro di Coj. E in quel preciso momento mi sento come Lënka Korolëv dell’omonima lirica, perché Mosca non è Mosca questa mia città è un deserto senza amici, senza re, senza pietà. Nella corte dell’Arbat.