di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

La morte di Francis più che l’inizio della fine sembra essere la puntuale registrazione di una trasformazione interna al mondo della prigione e della illegalità retrodatabile di almeno un paio d’anni quando, sia all’interno del carcere ma soprattutto all’esterno, le organizzazioni criminali iniziano a farsi egemoni. Quella composizione prigioniera a lungo ‘politicamente egemone’ già sul finire del 1978 inizia a essere messa all’angolo mentre sempre più massiccia e ramificata diventa, anche nelle carceri speciali, la presenza delle organizzazioni criminali. Non va ignorato infatti che, nel circuito normale, le organizzazioni criminali avevano iniziato a prendere gradatamente il sopravvento almeno da un paio d’anni quando, con l’apertura delle Carceri speciali, la frazione più radicale era stata separata dall’insieme del corpo prigioniero. All’interno delle carceri normali le organizzazioni criminali erano state l’elemento determinante della pacificazione e di quella complementarietà propria della relazione “crimine – polizia”. Questa funzione normalizzatrice, a partire dal 1979, viene esportata nell’ultima roccaforte della composizione prigioniera in pieno tramonto. Su questo aspetto occorre minimamente soffermarsi al fine di non dare adito a interpretazioni prone al complottismo e amenità simili. La funzione normalizzatrice della criminalità organizzata non è il frutto di un accordo sancito da questo o quell’apparato statuale con i vertici della mafia, della camorra e via dicendo. Non dobbiamo pensare a un salotto dove gli uomini delle due parti si incontrano e stabiliscono un ipotetico piano d’azione ma alla assoluta similitudine tra apparati statuali e apparati criminali. Le organizzazioni criminali funzionano come elemento di normalizzazione poiché rappresentano e incarnano la statualità dentro i mondi illegali. Non sono, come una letteratura prona al legalitarismo ama definire, l’anti-stato1, ma lo Stato sotto altra forma. La logica e i comportamenti della criminalità organizzata sono comportamenti statuali in tutto e per tutto o, nella migliore delle ipotesi, la loro è una funzione concertativa. Le organizzazioni criminali, tutte interne ai processi di valorizzazione del capitale, non possono mai essere fuori e contro le istituzioni ma sempre dentro. Quel processo di normalizzazione che lo stato era riuscito a intraprendere dopo l’ondata rivoluzionaria del ’77 non lascia certo immuni i mondi della prigione. Catturata e rinchiusa, insieme alle soggettività comuniste, la parte più radicale dell’illegalità dentro il circuito delle Carceri speciali, il mondo della prigione era stato sostanzialmente normalizzato. Gran parte della popolazione prigioniera aveva iniziato a essere il frutto maturo di quella ‘guerra a bassa intensità’2 che, attraverso l’eroina, stato e padroni avevano condotto contro un’intera generazione operaia e proletaria, mentre un’altra era formata da quelle non secondarie schiere legate alle organizzazioni criminali tradizionali e, ancor più, da quelle emergenti come la NCO o la Nuova famiglia. Repentinamente il mondo delle ‘batterie’, che era stato in grado di imporre il suo potere per circa un decennio, evapora e, con questo, quella critica della prigione che gli aveva fatto da sfondo. Ma la critica della prigione era stata possibile solo grazie all’esistenza di ‘comunità belligeranti’ che della dimensione collettiva aveva fatto il suo stile di vita. Nel mondo degli individui che inizia a prendere forma non può esservi spazio per alcuna dimensione collettiva e tanto meno comunitaria. I peggiori incubi hobbesiani si fanno concretezza storica. Nel mondo delle Carceri speciali l’omicidio di Turatello indica esattamente la consumazione di questo passaggio. Ma, a questo punto, è giunto il momento di far parlare Bruno che di tutto ciò è stato un testimone non secondario.

3. Nel ventre del mostro

Allora, Bruno, sono passati quasi quaranta anni dalla morte di Francis. Come in tutte le cose il tempo permette di osservare e raccontare gli eventi con più distacco e minore emotività. Prima di affrontare ciò che è accaduto e le sue conseguenze puoi tracciare un breve profilo di Francis sul quale si è detto e scritto di tutto e il contrario di tutto?

Intanto partiamo da una constatazione solo apparentemente banale: sono passati una quarantina di anni. Sicuramente, se questa domanda mi fosse stata rivolta allora, avrei dato risposte diverse. Questo non perché nel tempo io abbia cambiato giudizio e opinione su Francis ma perché oggi posso leggere quanto accaduto con una visione e comprensione delle cose che all’epoca non avrei potuto avere. Il dolore e l’amarezza per quella morte rimangono intatti, ciò che è cambiata è la comprensione di che cosa è successo a Nuoro. Ho voluto fare questa piccola premessa perché la ritengo essenziale per tutto ciò che proverò a dire, sperando di riuscire a farmi capire. Parto quindi da Francis e dal mio rapporto con lui. Con Francis ci eravamo conosciuti a Milano nel ’76 durante la mia latitanza. Da Genova mi ero spostato a Milano dove facevo principalmente rapine. Molte nel milanese, anche se in alcuni casi mi spostavo anche in Liguria e in Piemonte. Francis l’ho conosciuto in uno dei suoi locali e abbiamo immediatamente simpatizzato e iniziato a costruire un legame che, in brevissimo tempo, si è fatto quanto mai solido e fraterno. Non a caso ero considerato, a tutti gli effetti, il suo Delfino. Francis aveva in mano tutto il giro delle bische oltre a un certo numero di locali, anche se non disdegnava, visto il suo passato, le rapine. Si è detto che Francis controllava Milano ma è una affermazione che va abbastanza smentita. La verità più vicino al vero è che Francis, più che controllare Milano, non faceva controllare Milano. Cosa voglio dire? Voglio dire che Francis aveva sicuramente un peso rilevante su Milano e che sicuramente era a conoscenza di tutto ciò che a Milano si muoveva ma non imponeva alcuna forma di governo e di controllo sugli altri. Il suo problema era che nessuno agisse per intralciare in qualche modo le sue attività, dopo di che rispettava tutti e da tutti pretendeva rispetto. Questo suo modo di agire faceva sì che nessuno gli si mettesse contro e che, al contempo, tutti avessero un occhio di riguardo nei suoi confronti.

Tutto questo che relazione ha con la sua morte?

Come ti ho detto oggi mi è molto più facile inquadrare la morte di Francis perché mi permette di osservarla ben oltre il fatto in sé. La morte di Francis ha significato la fine di un’epoca e questo mi è stato chiaro solo in seguito quando gli effetti di quella morte si sono fatti sentire in tutti gli ambiti e gli aspetti del nostro mondo, del nostro modo di vivere e di concepire i rapporti con gli altri. Andando al sodo, Francis è stato ucciso perché alcuni gruppi volevano prendersi Milano. Sicuramente Cutolo e la NCO che avevano grosse mire su Milano, ma anche i palermitani e soprattutto i catanesi che perseguivano lo stesso obiettivo e con non poca determinazione. Cutolo e i catanesi sono stati i principali ispiratori, mentre i palermitani si sono limitati a assecondare il progetto. A uccidere Francis, non a caso, è Barra, uomo di Cutolo, Faro, uomo dei palermitani, Maltese, un povero idiota fatto su da Faro, e Andraus, vero e autentico Giuda perché fino a un attimo prima era legatissimo a Francis e si è repentinamente venduto ai catanesi. Francis penso che potesse immaginare tutto tranne che nei suoi confronti ci fosse una cospirazione in corso. Con la sua morte e la veloce disgregazione della sua rete organizzativa esterna la sua epopea tramonta e con questa un’intera epoca. Ma forse occorre dire che la morte di Francis più che l’inizio della fine è un po’ il punto di arrivo di una trasformazione in atto da tempo. Io credo che solo pochi anni prima un fatto del genere non sarebbe potuto accadere perché il clima presente dentro le carceri non lo avrebbe permesso. Molti si sarebbero opposti, non tanto per una particolare simpatia nei confronti di Francis, ma perché le logiche che hanno portato alla uccisione di Francis non avrebbero trovato legittimità dentro le prigioni. Ora provo a spiegarmi.

Prima di proseguire una domanda. Nel passeggio nel quale Francis viene ucciso vi sono anche due della tua ‘batteria’, Cesare e Paolo: come reagiscono alla cosa? La domanda mi sembra legittima per almeno due motivi: in prima battuta perché, a quanto mi risulta, i loro rapporti con Francis erano più che buoni e, aspetto ancora più importante, sapevano benissimo il legame di fratellanza esistente tra te e Francis. Non prendere posizione, ovvero non intervenire in difesa di Francis, non significa anche registrare una sorta di rottura con te e, come immancabile conseguenza logica, mettere fine a quel legame proprio dell’essere ‘batteria’? La morte di Francis non rappresenta anche la vostra fine? Non opporsi alla morte di Francis non significa forse rompere in maniera netta e recisa quei vincoli di amicizia e fratellanza che erano stati alla base del vostro essere?

Sicuramente sì. È chiaro che starsene a guardare mentre viene ucciso uno che è un mio fratello significa, se la parola fratello ha un senso, non solo e semplicemente non avere alcun riguardo nei miei confronti ma rompere il legame con me. Ma se rompi il legame con me significa che a venire meno sono tutti i presupposti che in quel legame erano impliciti. A quel punto è evidente che continuare a parlare di ‘batteria’ non ha più il senso di prima, e infatti molte cose iniziano a cambiare. Gli anni successivi di questo ne saranno una triste conferma3. Qualcosa è successo e tutti quanti, in qualche modo, rimaniamo travolti da quel qualcosa che modifica tutto. Come si può descrivere tutto questo? Direi che, a un certo punto, abbiamo cessato di essere e pensarci come gruppo, come banda, come essere il pugno chiuso di una mano, per diventare, invece, tante dita isolate che si incontrano solo per motivi di interesse rimanendo però dita singole. In qualche modo sicuramente continuiamo a esistere come gruppo, siamo ancora i ‘genovesi’, ma siamo già diventati una cosa diversa.

Torniamo però al carcere. Perché la morte di Francis segna un vero e proprio passaggio epocale? Perché da quel momento in poi nulla sarà più come prima? Quali equilibri, in sostanza, una figura come quella di Francis garantiva?

Il passaggio è così spiegato. Nelle carceri, anche se occorre precisare negli speciali perché nel circuito normale le cose erano ormai molto diverse, a contare era solo e unicamente la biografia del singolo ossia non aveva importanza a chi eri legato e neppure lo spessore delle tue azioni così come, visto che all’epoca c’erano numerosi politici, neppure a quale fede o gruppo appartenevi. Le simpatie di Francis, per dire, erano dichiaratamente di destra, tanto che a Nuoro stava in cella con Concutelli, ma sicuramente non aveva prevenzioni di sorta nei confronti dei comunisti. Quando faceva colloquio il pacco lo divideva con tutta la sezione senza curarsi a quale credo politico appartenessero. Tra noi degli speciali, anche perché di fatto ci conoscevamo da tempo, c’era una relazione di fratellanza basata proprio sulla stima e la fiducia che ognuno di noi nutriva per l’altro. Possiamo dire che c’era un rapporto sostanzialmente egualitario. Nessuno, dentro gli speciali, ha mai avuto il problema del mangiare, delle sigarette o dei vestiti. Chi aveva di più dava a chi aveva di meno perché l’unica cosa che contava era l’essere o meno un ‘bravo ragazzo’. Francis, le cui disponibilità economiche non erano certo irrisorie, di questo vero e proprio ‘stile di vita, ne rappresentava un po’ il paradigma. Questo cosa significa? Significa che in questo clima contano i singoli e non le loro appartenenze anche perché le appartenenze sono sostanzialmente del tutto simili: o batterie di rapinatori o veri e propri cani sciolti o lupi solitari. Nessuno, in poche parole, era interessato a diventare una forza egemone dentro il carcere anche perché, questo il fatto veramente decisivo, tutti, o almeno la stragrande maggioranza, avevano in mente una sola cosa: evadere. Non bisogna dimenticare infatti che negli speciali, almeno nella prima fase, finiscono coloro che o sono evasi, spesso armi in pugno, o hanno cercato di farlo. I prigionieri degli speciali stanno dentro ma hanno costantemente la testa rivolta a fuori. Non vogliono diventare i padroni del carcere, vogliono unicamente andarsene. Questo il collante che lega tutti ed è ovvio che se questo è il comune sentire tutto il resto non può che essere conseguente. Ciò che palesemente rimane estraneo in questo scenario sono il denaro e l’interesse. Con l’ingresso prepotente delle organizzazioni, la NCO ma non solo, tutto questo cambia. La prigione diventa una specie di parlamento dove non si ci parla più come biografie ma come componenti. Ci sono i cutoliani, i catanesi, i palermitani, i milanesi, i genovesi, i brigatisti, quelli di prima linea e così via. Questo comporta una mutazione decisiva perché implica una divisione e un modo diverso di ragionare. Inoltre le organizzazioni criminali non sono interessate a scappare ma a governare il carcere insieme all’esterno: la morte di Francis è l’esatto corollario di questa logica. Francis viene ucciso perché cutoliani, palermitani e catanesi vogliono prendersi Milano, le bische e non solo, per questo dovevano rimuovere Francis il quale, tra l’altro, era prossimo alla scarcerazione e da lì a poco sarebbe tornato nella sua Milano. Fare la guerra a Francis fuori sarebbe stato un problema non solo perché poteva contare ancora su un saldo gruppo di fedelissimi ma perché, con ogni probabilità, tutti gli indipendenti avrebbero sicuramente appoggiato più volentieri Francis piuttosto che gli altri. L’omicidio di Francis, inoltre, infrange un tabù quello di non uccidere se non di fronte a prove certe di infamia. Uccidere per interesse non era ammesso e così, sfregio nello sfregio, Francis verrà accusato dai suoi assassini di infamia e di collaborazionismo con la direzione carceraria4.

Quali saranno, quindi, le ricadute concrete all’interno della prigione di questo episodio?

Saranno enormi. Ma già come si è consumato l’atto in sé è indicativo. Nessuno, tranne Concutelli, prova a difendere Francis. Credo che solo qualche mese prima questo non sarebbe accaduto e di fronte a quell’aggressione del tutto immotivata, almeno secondo il costume che regolava il carcere, i più si sarebbero messi di mezzo e avrebbero impedito l’omicidio e a finire sotto accusa sarebbero stati gli aggressori. Col senno di poi credo che sia sensato dire che l’omicidio di Francis più che essere l’inizio della fine sia un po’ il capolinea di quello che ormai nelle carceri era avvenuto. L’omicidio di Francis non farà altro che rendere esplicito ciò che era implicito ormai da qualche tempo.

Potresti essere più chiaro?

Voglio dire che il modo in cui si è consumato l’omicidio implica palesemente il fatto che quel vincolo e quel legame che aveva caratterizzato il mondo degli speciali si è ormai eclissato, il senso di appartenenza e fratellanza è ormai poco più che un contenitore vuoto. Da lì in poi tutto ciò sarà estremamente evidente e al limite del banale. Non tutti, ma quasi, correranno a arruolarsi in questa o quella organizzazione o comunque a essere da queste sovradeterminati. Con la morte di Francis un’epoca è decisamente chiusa e il mondo della prigione diventa un’altra cosa.

Quanto appena affermato dalle parole di Bruno Turci è ulteriormente rinforzato da un altro attore sociale con alle spalle una lunga attività di rapinatore autonomo, un vero e proprio lupo solitario il quale, pur ‘lavorando’ con diverse batterie, non ha mai stipulato vincoli eccessivamente stretti con nessuno. La sua testimonianza appare preziosa perché, per molti versi, sintetizza al meglio ciò che era il mondo della prigione e ciò che repentinamente è diventato.

In maniera molto sintetica puoi raccontarmi come hai vissuto la morte di Turatello e tutto ciò che nelle carceri è seguito?

Io conoscevo Francis da tempo e con lui ho sempre avuto ottimi rapporti tanto che, in una circostanza, mi ha anche regalato delle armi lunghe delle quali con il mio gruppo avevamo bisogno per fare un lavoro. Tuttavia non sono mai stato legato in alcun modo a lui, io ho sempre fatto rapine e non mi sono mai interessato di altro. A volte andavo a giocare in una delle sue bische o passavo la serata in qualche suo locale ma nulla di più. Sicuramente era un amico e un gran bravo ragazzo sempre disponibile a dare una mano a chi si trovava in una qualche difficoltà. La sua morte non mi ha stupito più di tanto perché che il clima nelle carceri speciali fosse cambiato era già evidente da qualche tempo. Questo io, probabilmente perché non legato a nessuno in maniera particolarmente stretta, ho avuto modo di percepirlo con un certo anticipo.

Per quali motivi?

Perché, un giorno dopo l’altro, questi delle organizzazioni e specialmente i cutoliani prendevano campo e palesemente chi non si affiliava veniva guardato con sospetto se non considerato come un vero e proprio nemico. In più, cosa che per noi era del tutto impensabile, iniziavano a vedersi atti di sopraffazione nei confronti dei meno attrezzati sino a arrivare all’emissione di sentenze di morte per il solo fatto che qualcuno non si sottometteva ai capricci di un qualche camorrista del cazzo.

Per esempio?

Le cose più indegne. Ho visto dei bravi ragazzi essere marchiati come infami solo perché si erano rifiutati di pulire i piatti o lavare gli indumenti di un qualche piccolo boss. L’aria nelle carceri era diventata irrespirabile tanto che, neppure in pochi, proprio per togliersi da quella situazione invivibile hanno chiesto di essere posti volontariamente in isolamento.

Quindi, secondo te, la morte di Turatello è una sorta di frutto maturo della trasformazione che aveva ormai pervaso il mondo carcerario?

Sì, è così. Francis muore perché, tutto sommato, anche se diverso da noi con noi condivideva un modo di vivere che per questi delle organizzazioni era decisamente incompatibile. (V. P.)

Giunti a questo punto proviamo a trarre una qualche sintetica conclusione. La morte di Turatello segna, dentro la prigione e i mondi illegali, per prima cosa la fine della dimensione autonoma e di obiettiva contrapposizione al potere che un certo tipo di illegalità aveva coltivato e praticato. Con ciò siamo ben lungi dal voler ascrivere gangster e batterie nell’ambito della rivoluzione ma, con molto più realismo, asserire che la stagione dei Turatello, dei Cochis e tantissimi altri può essere considerata come una sorta di breve estate dell’anarchia dentro i mondi illegali i quali, se una qualche assonanza con quanto si stava muovendo nella società, lotte operaie, lotte studentesche, rivolte nelle carceri, lotte femministe, guerriglia diffusa e lotta armata, hanno sicuramente avuto, è stato sul piano esistenziale più che politico. Turatello rifiuta l’offerta dello stato non certo perché nutra una qualche simpatia nei confronti dell’azione Moro ma perché lui è un ‘bravo ragazzo’ e ‘bravi ragazzi’ sono i brigatisti mentre, per definizione, chi sta con lo stato è solo un infame. Non diverso è il punto di vista di Cochis il quale, anche lui uomo con maggiori simpatie a destra che a sinistra, non ha un attimo di dubbio nel rigettare l’allettante offerta dei carabinieri. Questa illegalità era tanto irriverente quanto irriducibile alle logiche del potere e, dentro una complessiva normalizzazione degli assetti sociali, doveva essere rimossa. Con lei doveva essere rimossa, e qua la non secondaria assonanza con ciò che si consuma in fabbrica, quel senso di essere collettivo che aveva caratterizzato l’operaio in lotta. Ciò che viene annichilito è, insieme al senso di appartenenza collettiva, l’idea stessa della lotta. Niente più lotta in fabbrica, niente più rivolte nelle prigioni, niente più cortei interni in fabbrica, niente più evasioni dalle carceri bensì il rigido ripristino di robuste gerarchie sociali inamovibili. Individui atomizzati e de-solidarizzati, sotto il controllo rigido e ferreo di un potere burocratico, diventano gli abitanti della prigione ma questa è esattamente la società italiana che prende forma negli anni Ottanta. Questa società può certamente felicemente convivere con ogni forma di organizzazione criminale ma non può tollerare gangster e banditi. È il tempo storico di Turatello a venir meno e, con questo, quello di un’intera tragica epopea. Ma il tempo storico che segna la fine dell’epopea di Turatello è esattamente il tempo storico entro il quale tutti noi siamo immessi così come quella tragica epopea è stata per intero anche la nostra epopea poiché, tutti, siamo stati da una parte o dall’altra della barricata. Del resto, in mezzo, può starci solo la barricata.

(Fine)


  1. Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è sicuramente Pino Arlacchi: al proposito si può vedere La mafia imprenditrice. Dalla Calabria al centro dell’inferno, Milano, Il Saggiatore, 2007.  

  2. Sul ruolo avuto dagli apparati statuali nella diffusione massificata dell’eroina controrivoluzione preventiva si veda Rai Storia, Operazione Blumoon. Eroina di stato.  

  3. Di come la ‘batteria’ dei genovesi finisca con l’andare in frantumi se ne avrà una corposa riprova quando, nell’ottobre del 1990, venne ucciso Gaetano Gardini ‘Gughi’ per opera del clan mafioso Fiandaca ma su mandato di Cesare Chiti, proprio uno degli elementi di maggio spicco, sin dalle origini, della ‘batteria dei genovesi’. Per molti versi si assiste a qualcosa di molto simile a quel Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, curiosamente uscito un mese prima della morte di ‘Gughi’, film che racconta con grande realismo il dissolversi di ogni legame amicale all’interno dei mondi criminali e l’imporsi di un cinismo individualista sostanzialmente narcisista. C. Lash, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in una età di disillusioni collettive, Vicenza, Neri Pozza, 2020.  

  4. Ciò è quanto, infatti, sostiene V. Andraous («Dissi io a Barra di unirsi all’omicidio Turatello», Spazio 70) il quale nega l’esistenza di mandanti ma rivendica interamente a sé l’ideazione dell’omicidio a seguito della collaborazione di Turatello con la direzione penitenziaria. Sembra importante rivelare come l’uso della calunnia, da quel momento in poi, divenne moneta corrente in tutto il mondo carcerario. Gran parte degli omicidi che segnarono drammaticamente quella stagione furono giustificati, appunto, attraverso l’accusa di collaborazionismo quando, in realtà, erano solo questioni di affari. Quando un gruppo doveva liberarsi di un concorrente per prima cosa si adoperava per mettere in moto la ‘macchina del fango’. A ciò non si sottrassero neppure le Brigate rosse le quali, dopo le scissioni interne, iniziarono bollare come ‘infami e traditori’ i nuovi avversari politici.